Stili di vita | Società

Una serata a parlare di morte nel più grande Death Café del mondo

Nell'ambito del festival Torino Spiritualità, la chiesa di San Filippo Neri è stata trasformata per una notte in un luogo in cui incontrare sconosciuti per bere tisane, mangiare biscotti e parlare di morte.

di Lorenzo Camerini

Ho capito di essere mortale una mattina dello scorso novembre. Ho sentito una fitta al petto, lato sinistro. Sembrava un banale dolore intercostale, niente di serio. Ho continuato a fare quello che stavo facendo, fumandoci pure su. La mattina dopo, però, quel dolore era ancora lì. Sono uscito di casa per andare a pranzo da mio padre. Dopo pochi passi in strada ho capito che qualcosa non stava funzionando: mi sentivo un palloncino sgonfio, già diagnosticavo gravi patologie cardiache. Sto morendo davvero, ho pensato. Me la immaginavo più spaventosa, la situazione, invece subito è subentrata una strana serenità. Niente panico. Poi sono arrivato in ospedale: non era il cuore, per fortuna. Ma sono comunque uscito due settimane dopo.

È una storia molto personale che l’altro ieri ho raccontato a nove sconosciuti e una psicoterapeuta, con dettagli ancora più privati, in una chiesa a Torino nel corso di un death café. Ma che cos’è un death café? È un’occasione per ritrovarsi con persone che non hai mai visto prima, dividersi in gruppi da dieci e conversare amichevolmente sulla morte con la moderazione di uno psicoterapeuta, sorseggiando tisane e sbocconcellando dolcetti. Gratis. Non vuole essere una seduta terapeutica, piuttosto un momento di convivialità vagamente fricchettona. Il primo death café è stato organizzato a Londra est poco più di dieci anni fa, e da allora se ne sono tenuti migliaia in tutto il mondo. Non si poteva dunque mancare l’altro ieri al death café da record, il più grande di sempre, organizzato dal festival Torino Spiritualità: seicento persone riunite nella chiesa di San Filippo Neri, dove è ambientato A che punto è la notte di Fruttero e Lucentini, romanzo che ha ispirato uno sceneggiato Rai anni novanta con Marcello Mastroianni.

Non sapevo bene che cosa aspettarmi. Arrivo in anticipo, alle sei meno venti sono già lì davanti. Chi partecipa a un death café? Come si può immaginare, pochissimi adolescenti. Molti anziani, il pubblico che ti aspetteresti di incontrare nel foyer di un teatro. Collane di perle, blazer di sartoria, abiti da sera e scarpe di cuoio. Entriamo. Gli organizzatori hanno sgomberato dal corpo centrale della chiesa i canonici banchi in legno per accomodare sessanta tavoli rotondi da dieci posti, ciascuno con la sua luce calda al centro. Fotografi, operatori video, chiacchiericcio. Finisco al tavolo 2 con cinque donne e tre uomini, età media sui quarant’anni, sguardi amichevoli. Non conosco nessuno dei miei compagni di death café (d’altronde non conosco quasi nessuno a Torino) ma è facile rompere il ghiaccio se c’è una professionista che governa la conversazione, sollecitandoci a intervenire come una conduttrice televisiva: la nostra la chiameremo Marta, è piemontese, gentilissima, lavora in un reparto ospedaliero e come tutti i suoi colleghi in sala stasera è riconoscibile perché indossa una maglietta rossa. Ci informa subito che non si può chiedere il bis della tisana, non ci sono biscotti senza glutine o bevande alcoliche e che è vietato alzarsi dal tavolo.

Alle sei si smorza il brusio di fondo, e prendono la parola gli organizzatori su un palco allestito davanti all’altare. Dopo una veloce cerimonia lasciano il microfono a Guidalberto Bormolini, un monaco, scrittore e tanatologo che ha celebrato i funerali di Franco Battiato. Personaggio pazzesco: Bormolini sfoggia una barba bianca foltissima e lunga fino al petto, capelli tirati all’indietro, pantaloni e camicia scuri, ha ristrutturato un borgo in Toscana per renderlo un posto di cura e assistenza spirituale per i malati terminali. Oratore formidabile: inizia citando Neruda, poi saltella fra le intelligenze artificiali che permettono di parlare ai morti, il discorso di Cristo e Nicodemo, i proverbi giapponesi («è bruciato il tetto, adesso vedo le stelle»), Seneca, i sufi, Albert Hofmann, Vecchioni, Einstein, continua criticando chi pensa solo a fare soldi, poi cita il co-fondatore di PayPal Peter Thiel («la morte è un problema tecnico che va risolto in modo tecnico»). Ci cattura. Chiude dicendo che amore e morte sono la stessa cosa, e la morte è un bacio infinito. Applausi, scende dal palchetto e noi al tavolo 2 ci giriamo tutti verso Marta.

E adesso che si fa? Marta ci avvisa che prenderà appunti, garantendoci l’anonimato e parte in quarta leggendo la prima domanda dal suo taccuino, lei e i suoi colleghi se la sono preparata, è standard per tutti i tavoli: in che senso la morte può far parte della vita? Forse non l’incipit più originale, d’accordo, ma ci basta per ingranare sorprendentemente in fretta. La conversazione è a tratti performativa ma sempre sincera, parliamo a bassa voce, non ci interrompiamo mai. Un po’ podcast, un po’ Alcolisti anonimi. Concordiamo tacitamente di colloquiare con un tono dove non c’è spazio per cinismo, ironie e sbeffeggiamenti. C’è confidenza. Saranno i telefoni spenti?

Mi sento quasi in colpa a riferire i nostri discorsi. All’inizio, ci sciogliamo parlando di lutti in famiglia, la morte dei nonni, poi quella dei genitori, qualcuno ci butta in mezzo anche gli animali domestici, provocando confessioni di omicidi di criceti commessi alle elementari. Chi ha figli, racconta delle notti insonne a controllare se respirano. Dopo che una schiera di giovanissimi camerieri in livrea appaiono dalla navata della chiesa per servirci un tè organico molto chic, accompagnato da due burrosissimi biscotti artigianali, la conversazione si fa più intima, ci passiamo le tazze di carta e ci andiamo giù duro con le confessioni: lei non vuole morire prima di aver pubblicato almeno un libro, l’altra ha messo da parte diecimila euro per andarsene in una clinica in Svizzera a farla finita, nel caso qualcosa dovesse andare storto, uno ci racconta dell’incidente in moto, guidava lui, che ha lasciato il suo passeggero per tre giorni in fin di vita, c’è chi ha perso un amico a vent’anni dopo un calcetto per aritmia cardiaca e ha scritto poesie per ricordarlo, chi ha superato una malattia grave, c’è spazio anche per le paturnie d’amore che sembra ti possano uccidere.

Finisce tutto in fretta, un’oretta e un quarto, con due o tre bottiglie di vino saremmo rimasti volentieri un altro po’. Ringraziamo Marta, ci alziamo. Torniamo sulla Terra celebrando il rituale scambio dei profili Instagram, un gesto un po’ stonato con il contesto, una specie di memento mori che toglie un tantino di sacralità alla cerimonia laica che abbiamo appena officiato. Saluti, la promessa di rivedersi. Passeggiando verso la stazione non mi sento cambiato: continuo a pensare che vorrei morire a ottantatré anni, non oltre. Ma lo dico adesso, a ottantadue la penserò diversamente.