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Della prigione non è mai interessato niente a nessuno
Il libro Ogni prigione è un'isola di Daria Bignardi è un viaggio lungo 30 anni nelle carceri italiane, posti senza speranza dimenticati dalla politica. Ce ne parla l'autrice.
Il carcere è un’isola, e i muri sono grandi come un oceano. È un’isola inaccessibile, o più che altro di cui non vogliamo sapere niente. Né noi, cittadini magari aspiranti modello, né la politica, che cerca di dimenticarsi di questi piccoli fastidi alla periferia delle sue acque territoriali. Il carcere nasconde, e genera violenza. Daria Bignardi fa la spola tra la terraferma e quest’isola da trent’anni, parlando con detenuti e agenti, giudici e direttori e direttrici d’istituto. Ogni prigione è un’isola è un libro-testimonianza. Non la testimonianza dei sopravvissuti, però; quella invece degli esploratori, che hanno visitato un Paese lontano e sono tornati per raccontarlo. È in forma di non-fiction narrativa, con capitoli che sono racconti autoconclusivi, e sono capaci di muoversi con delicatezza in un territorio tremendamente triste, devastato da decenni di noncuranza e leggi che l’hanno peggiorato in modo drastico.
ⓢ Come hai trovato la forma di questo libro, e una voce così tenera per scriverlo?
Il mio primo libro era un memoir, Non vi lascerò orfani, e ho dovuto trovare da subito una voce spudorata e diretta. Poi ho scritto cinque romanzi ma il penultimo lavoro, I libri che mi hanno rovinato la vita, ha una struttura simile a questa: mescolo liberamente autobiografia e racconto. Ho pensato che per parlare di carcere ci voleva un modo il più possibile libero e imprevedibile.
ⓢ I capitoli sono spesso autoconclusivi, come se non ci fosse bisogno di arrivare a una sintesi, alla fine.
No, una tesi non c’è quasi mai. Se non quello che mi hanno detto in questi anni le persone che conosco meglio e di cui mi fido di più, come l’ex direttore di San Vittore Luigi Pagano: il carcere come è ora è inutile.
ⓢ Quali sono i libri che hai tenuto vicino per scrivere questo?
Tutti quelli di Svetlana Aleksievic, L’effetto Lucifero di Philip Zimbardo, L’università di Rebibbia di Goliarda Sapienza, Io, l’infame di Patrizio Peci, i libri di Marcello Ghiringhelli, le Lettere dal Carcere di Gramsci e quelle dall’ergastolo di Settembrini. Ma l’ispirazione massima è sempre Aleksievic, quel tema dell’esperienza estrema che illumina a giorno l’uomo: nel caso di Aleksievic la guerra, nel caso mio il carcere.
ⓢ Nel libro racconti l’esperienza di Donna, il magazine che hai diretto edito da Hachette. Avevi inventato una rubrica di televisione, ma scritta dai detenuti. C’è qualcosa di simile, oggi?
Non penso.
ⓢ Perché no?
Dovresti chiederlo agli altri direttori.
ⓢ Pensi che c’entri la paura di un certo tipo di pubblico?
Sicuramente il tema carcere non è quello con cui dici: ehi, facciamo una copertina sul carcere e spacchiamo tutto! Ovviamente il carcere dà fastidio, è un grande rimosso, non è attraente.
ⓢ A proposito di tesi: il tuo giudizio sul 41bis hai voluto lasciarlo sospeso.
Ho raccontato quello che mi hanno detto. Per un ispettore di polizia penitenziaria è anacronistico. Un altro ispettore mi ha detto che se i detenuti del 41 vogliono mandare messaggi fuori parlano con l’avvocato, quindi non serve a niente. Mentre un’ispettrice di Pozzuoli, che è stata a L’Aquila tanti anni, dice che serve perché fa collaborare i detenuti. Se lo chiedi a me: penso che sia inutile e anche crudele.
ⓢ C’è un pregiudizio, anche quando si parla di carcere come fai tu, verso i mafiosi?
Mi viene da dirti che c’è, ovviamente, ma è anche comprensibile. I mafiosi al 41 non sono certamente i disgraziati e i poveracci che affollano le carceri con cui chi viene da fuori empatizza di più. Soprattutto i capi. Ma non ho mai parlato, guardandolo negli occhi, con un boss mafioso. Quello che posso dirti è che far morire in carcere chiunque, e quindi anche un mafioso, come un vegetale, è crudele, inutile e vendicativo.
ⓢ A un certo punto c’è questo detenuto Manolo che racconta un aneddoto affascinante: lui, che davanti al giudice, fa “la scena”, piange per finta, si dispera e si pente. Però la vittima ci crede, lo abbraccia, piange, e lì per lui cambia qualcosa. Tu quanto ci hai messo a capire le sfumature di verità o “le scene” che mettono in atto quando ci sei?
Non mi pongo il problema. In quel racconto erano in tribunale davanti a un giudice. Il volontario invece ha una lunga relazione con il detenuto, ci si occupa di progetti che durano anni. A nessuno serve a niente fingere. Non ci sono vantaggi.
ⓢ C’è una parte di vergogna, quasi naturale, nei detenuti?
In carcere tutti dicono di essere innocenti. Oppure di non essere stati condannati per crimini che hanno commesso ma per altri, o che li hanno messi dentro per una cosa che non hanno fatto, ma intanto ne hanno fatte delle altre. Ma guarda: quando si va in carcere si smette di chiedere cosa hai fatto, cosa non hai fatto.
ⓢ Dove hai visto invece la cattiveria?
Io non l’ho vista.
ⓢ Mai?
No. Ma so che c’è. Le immagini che abbiamo visto di Santa Maria Capua Vetere, per esempio. So che c’è perché tutti raccontano di essere stati picchiati. E certi reati lo sai che sono stati commessi: quindi sai che la cattiveria c’è stata.
ⓢ C’è un passaggio in cui scrivi che più in carcere si sta male, più stanno male i detenuti, e più stanno male le guardie. Un ecosistema virtuoso. Pensi davvero che sia così, o esiste un certo tipo di violenza, come quella che ogni tanto vediamo, una violenza che è impossibile da educare, e appartiene a un’anima puramente malvagia, e trascende qualsiasi giustificazione?
Credo che in carcere la violenza sia patogena. Che sia il sistema carcere a generare violenza. Ma più un carcere è disgraziato, magari con un direttore che non ha un buon rapporto con il comandante, problemi strutturali, mancanza di risorse, più ci sono problemi, più c’è violenza. Poi, come in ogni ambiente, ci sono i sadici e i cattivi. Ma ci sono anche nei giornali, in banca, solo che non picchiano fisicamente: in carcere la violenza esce in modo più evidente. “Sovraffollamento” non è una parola che rende l’idea della sofferenza. Anche stare in una cella in dieci, con meno di tre metri quadrati di spazio a testa e la turca a mezzo metro dalla branda induce violenza.
ⓢ E gli agenti non sono preparati.
Molti fanno gli agenti di penitenziaria perché quello è il primo concorso che hanno vinto: magari volevano fare i carabinieri, o volevano solo un posto sicuro. Quello che mi hanno detto tutti è che quando un agente giovane entra in carcere per anni è l’inferno: se sei troppo buono ti carichi troppi pesi addosso e scoppi, se sei duro sei odiato e inutile. Devi trovare un equilibrio ma non hai una formazione adeguata. Gli agenti che non fanno carriera sono anche malpagati: veramente un lavoro di merda.
ⓢ Citi una frase di Mailer molto bella: «Quando audaci e timidi sono obbligati a vivere insieme, il coraggio si trasforma in brutalità». Hai visto caratteri cambiare negli anni? Hai percepito cosa doveva essere la personalità di certi detenuti prima del carcere?
Quelle con cui ho rapporti più stretti sono soprattutto persone che hanno fatto un percorso molto lungo. Marcello Ghiringhelli ha 82 anni, il 12 agosto se tutto va bene sarà libero dopo 51 anni di galera: mi ha raccontato con le lacrime agli occhi che quando aveva 17 anni ed era nella Legione straniera in Algeria ha fatto cose che non si perdonerà mai. E lui è un duro che ha fatto il rapinatore e il brigatista. Immagino che da ragazzo fosse una persona molto diversa da quella che è oggi. Come tutti noi però.
ⓢ Come arrivano le notizie del fuori, in carcere? Quanto contatto c’è?
C’è radio carcere, il telefono senza fili: quello che è appena entrato che parla con quell’altro, che al passeggio (l’ora d’aria) parla con l’altro ancora. Qualcosa dicono gli avvocati, i parenti. Ma soprattutto la televisione. In carcere manca la carta igienica, ma la televisione è garantita in ogni cella.
ⓢ A un certo punto scrivi che «tutto quello che ha a che fare coi “gruppi dell’incontro” mi commuove». Ti sei mai posta il problema di quanto la commozione possa interferire con un giudizio equilibrato?
È una domanda che mi sono posta per anni. È stato un libro difficile da scrivere bn per questo. Mi facevo molte domande e pensavo che avrei scontentato tutti. In tutti questi anni ho fatto amicizia con detenuti, ex-detenuti, ex direttori, magistrati. Per quello sono andata sull’isola a scrivere. E lì ho capito che tutte queste domande non me le dovevo fare: dovevo solo essere onesta, scrivere senza starci troppo a pensare.
ⓢ Hai messo delle responsabilità, delle speranze, sulle spalle di questo libro?
Speranze non ne ho, rispetto al carcere. Non se ne possono avere. Come dice Roberta Cossia (magistrata di sorveglianza, nda) devi saperti accontentarti di riuscire ad aiutare anche una sola persona. Quel che ho fatto io è stato guardare, ascoltare e raccontare cercando di raffreddare una materia incandescente. Le cose dolorose sono fin troppo dolorose da sole.