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Di tutte le crisi che l’America sta vivendo, quella degli oppioidi è la peggiore

Gli Usa stanno vivendo la più grande emergenza sanitaria dal Dopoguerra e la stanno raccontando in tanti modi diversi, da Euphoria ai video di TikTok.

di Clara Mazzoleni

Chi non ha mai visto Euphoria forse pensa che sia la solita serie per ragazzini in cui tutto è drammatico, estremo, esasperato, una specie di Skins per la Gen Z. Chi segue l’andamento dello star system americano, magari, sa anche che lo show Hbo diretto da Sam Levinson ha lanciato alcuni tra gli attori diventati più famosi negli ultimi anni, tra cui Jacob Elordi, Sidney Sweeney, Hunter Schafer e Chloe Cherry (Zendaya era già famosa). Ma in realtà Euphoria è soprattutto una serie realistica sulla tossicodipendenza, quella della protagonista, Rue, che prova per la prima volta un farmaco oppioide a casa sua, rubandolo al padre che sta morendo di cancro ed è in cura con la terapia del dolore. Da lì in poi il vaso di Pandora si apre (fentanyl, mix di psicofarmaci, alcol, morfina) e la dipendenza di Rue, i suoi tentativi di superarla (rehab, Narcotici Anonimi) e la disperazione della madre, della sorella più piccola e degli amici attraversano tutti gli episodi, finché alla fine della seconda stagione sembra di intravedere un barlume di speranza.

Niente a che vedere con la realtà. Quando è uscita la seconda stagione di Euphoria, nel 2022, i dati del National Center for Health Statistics dicevano che nel 2020 quasi 6.000 giovani di età compresa tra 15 e 24 anni erano morti per overdose da oppioidi negli Stati Uniti, pari all’84 per cento di tutti i decessi per overdose in quella fascia di età. E negli Stati Uniti la prima causa di morte tra i giovani adulti non è il cancro, e nemmeno gli incidenti stradali, ma l’overdose. Il 31 luglio del 2023 è arrivata la notizia della morte di Angus Cloud, l’attore che in Euphoria interpretava lo spacciatore Fezco, il cui ruolo, negli ultimi episodi, aveva acquistato moltissima importanza. Aveva 25 anni. Soltanto due mesi prima era morto suo padre, di cancro. Inizialmente si è pensato a un suicidio, ma dopo l’autopsia l’overdose è stata dichiarata accidentale, un mix letale di fentanyl, metanfetamina, cocaina e benzodiazepine. La madre ha voluto condividere le ultime parole del figlio, che sono state «Ti voglio bene mamma».

Proprio nel 2019, quando è uscita la prima stagione di Euphoria, la regista Laura Poitras ha iniziato a lavorare con Nan Goldin allo splendido film All the Beauty and the Bloodshed, che tre anni dopo avrebbe vinto il Leone d’oro alla 79esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Anche questo film parla dell’opioid crisis: nel 2017 Goldin, una delle più grandi artiste americane, decide di sfruttare la sua influenza per denunciare la responsabilità (penale ma non solo) della famiglia Sackler nell’epidemia di oppioidi. I Sackler sono importantissimi nel mondo dell’arte grazie alle loro abnormi donazioni ai principali musei del mondo (sono stati definiti «la famiglia Medici moderna»). Nel film c’è anche Patrick Radden Keefe, autore del reportage “The Family That Built an Empire of Pain”, pubblicato dal New Yorker nel 2017. Il giornalista ripercorre le campagne di marketing rivolte ai medici che hanno fatto la fortuna dei Sackler, tramite la loro azienda farmaceutica Purdue Pharma: prima quella che ha reso il Valium il farmaco più prescritto al mondo (esempio: se alle donne salta il ciclo è colpa dello stress e la soluzione è prescrivere il Valium), poi quelle dedicate agli oppioidi e all’oxycontin in particolare, che comprendevano vacanze gratis camuffate da seminari a cui venivano invitati i medici disposti a prescriverlo. In un video pubblicitario della Purdue Pharma indirizzato ai medici, un distinto ed elegante signore afferma molto chiaramente che i farmaci oppioidi non provocano dipendenza e che si possono prescrivere con serenità.

Non si può dire che sia una storia a lieto fine, quella della battaglia condotta dal giornalista, da Nan Goldin e dai membri del gruppo P.A.I.N (Prescription Addiction Intervention Now), da lei fondato. Nel 2019 Purdue Pharma dichiara furbamente bancarotta e, nell’ambito dell’accordo con le procure coinvolte nel caso, i Sackler ottengono l’immunità da eventuali cause future. Ma il riscatto emotivo in parte c’è: il film indugia a lungo sulle facce di alcuni membri della famiglia Sackler, costretti ad ascoltare e guardare le testimonianze dei parenti delle vittime dei loro farmaci e delle vittime stesse, Nan Goldin compresa (l’artista divenne dipendente dall’oxycontin nel 2014, prescritto dopo un intervento chirurgico, ed è sopravvissuta a un’overdose di fentanyl, sniffato credendo fosse ossicodone). In più, cinque anni dopo la prima protesta di P.A.I.N., il nome dei Sackler è stato rimosso dagli edifici di una ventina di istituzioni, musei e gallerie che in precedenza erano state da loro finanziate, tra cui Met, British Museum, Louvre, Università di Yale e Guggenheim di New York.

Di Purdue Pharma parlano anche la miniserie Hulu Dopesick – Dichiarazione di dipendenza (2021) e la serie Netflix Painkiller (2023), che raccontano la storia di quella che viene definita la “prima ondata”, iniziata con un aumento delle prescrizioni di oppioidi negli anni Novanta e seguita immediatamente da un aumento dei decessi per overdose. Dalla prima ondata sono scaturite le due ondate successive (2010 e 2013), fino ad arrivare all’attuale prevalenza del fentanyl nel mercato illegale. Il fentanyl è un ottimo prodotto da produrre ed esportare, anche in confronto all’eroina: è 50 volte più potente, completamente sintetico (niente coltivazioni, basta un bel laboratorio), leggerissimo (bastano 10 grammi per produrre più di 300 dosi), ha le sembianze di una pillola, è economico, può essere facilmente aggiunto ad altre droghe più costose, potenziandone di molto gli effetti, ma diminuendo il costo sia per il produttore che per il consumatore finale. In certi quartieri una dose di fentanyl può costare soltanto 10 dollari. Insomma, anche se adesso i medici americani hanno capito che sì, questi farmaci causano dipendenza, ormai il danno è fatto, e la crisi degli oppioidi è diventata la più grave emergenza di salute pubblica negli Stati Uniti dal Dopoguerra. Solo a New York, nel 2023, le morti causate dal fentanyl sono state più di 3.000: è il dato più alto dal 2000, l’anno in cui sono iniziate le rilevazioni. Ma la “capitale dell’overdose”, come ha scritto il New York Times, è Baltimora. Le persone girano con il narcan in tasca: così se si imbattono in qualcuno che sta per morire di overdose, possono provare a salvarlo.

In un articolo pubblicato su Npr dal titolo “In Philadelphia’s Kensington neighborhood, heroin is far from chic”, il giovane poeta e scrittore Guillermo A. Santos parla del quartiere in cui è cresciuto, diventato virale su TikTok grazie ai video degli “zombie” che lo popolano. L’articolo comincia così: «Nel 2021, dopo anni di negligenza e negazione, il numero di decessi correlati a overdose negli Stati Uniti ha raggiunto un numero superiore a 100 mila, il più alto mai registrato. Una di queste persone era mio padre». È difficile guardare i video che raccontano i reali effetti della opioid crisis: tossici di qualsiasi età, sesso ed etnia stanno fermi in mezzo alla strada o sui marciapiedi, piegati su loro stessi in una posizione che ormai è diventata inconfondibile. Santos dice che in molti di quei video si vede la casa dove è cresciuto, ma poi il suo articolo prende una direzione diversa, perché parla dell’estetizzazione della tossicodipendenza e racconta una storia di rancore adolescenziale rivolta ai bianchi benestanti che anni fa si rifiutavano di andare a casa sua per via del quartiere in cui abitava e adesso, per sembrare cool, si atteggiano a tossici sui social. Certo, ammette Santos, l’estetica “heroin chic” non è certo una novità, e lui che è di Philadelphia lo sa bene – la modella eroinomane Gia Carangi, da molti conosciuta grazie al biopic con Angelina Jolie del 1998, è nata e morta a Philadelphia – ma negli ultimi anni sembra essere prepotentemente tornata.

Un account Instagram che racconta perfettamente questo tipo di “glamourizzazione” è The Opioid Crisis Lookbook, progetto editoriale di due artisti, Dustin Cauchi e Dasha Zaharova, che funziona come una specie di archivio dell’estetica legata alla opioid crisis: uno degli ultimi post, per fare un esempio, è una gallery di tatuaggi con scritto “do not resuscitate”. Nella didascalia si legge: «2017 – I dottori del pronto soccorso di un ospedale della Florida sono rimasti scioccati nello scoprire le parole “non rianimare” tatuate sul petto di un uomo privo di sensi. L’uomo, ricoverato in seguito a complicazioni cardiache scatenate da un’overdose di oppioidi, alla fine ha ricevuto il narcan ed è sopravvissuto. Questo incidente ha dato il via a una discussione a livello nazionale sul “diritto alla morte”, sul libero arbitrio e sui movimenti anti-narcan a livello nazionale». Il progetto comprende anche un bellissimo magazine cartaceo (il terzo volume è uscito a settembre, preceduto da un’anticipazione sul numero estivo di 032C), mentre nello shop del sito si trovano T-shirt, crop top, felpe e un adorabile pupazzetto azzurro pelosino dell’oxycontin. Costa 125 euro: al momento è sold out.

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Foto di Patrick T. Fallon / AFP via Getty Images