Attualità

Cina: l’ideologia fluida

Come si va dal kung fu a un modello di leadership che ha sedotto persino Kissinger

di Massimo Morello

Il Wu Wei Si, il tempio della consapevolezza dell’azione, si trova sulle pendici delle montagne Cangshan, nella provincia cinese dello Yunnan. Fondato circa 1500 anni fa, all’inizio della dinastia Tang, qui si pratica ancora lo “stile madre” del kung. Accoglie bambini abbandonati, orfani, poveri.

«Imparano la disciplina, il rispetto, la regola buddhista e il kung fu» dice Shifu, il Maestro, Jing Kong. Per diventarlo ha studiato e si è addestrato trent’anni. «Tutti gli esseri umani nascono uguali. Tutti possono divenire Shifu, passare a uno stadio superiore. Ma devono studiare molto e rispettare il Maestro» predica Shifu Jing Kong, in ossequio ai principi confuciani, che si sono sincretizzati al buddhismo Chan, creando una religione della cultura. «La gerarchia non va interpretata in modo rigido. È qualcosa di dinamico, s’ispira agli ideali di lealtà, compassione, indulgenza e coinvolgimento. È la base dell’armonia e dell’ordine generale».

Quel venerabile abate che educa al rigore di arcani riti, è uno degli interpreti del contemporaneo “Modello Cinese”, che dovrebbe trasformare la Cina in una “superpotenza modellata sull’autorità”. È un modello teorizzato da Pan Wei, dell’università di Pechino, basato su una selezione della classe dirigente rigorosa come quella d’un monastero. «Come nella Cina antica, devi individuare le persone migliori e con corretti principi morali. Il governo deve essere composto da poche, buone persone».

Queste poche, buone persone devono essere migliori degli altri. Innanzitutto ideologicamente. Non a caso l’esame d’accesso ai corsi universitari avanzati, si basa per il 20% su quesiti politici e ideologici. Il fine è di «costruire l’armonia, l’identità e l’unità nazionale». È così che si è formato il gruppo dei cosiddetti neo-comm, versione sino-comunista dei neocon occidentali.

Il secondo requisito, secondo Pan Wei, è che «tutti devono selezionati per merito, a ogni promozione deve corrispondere una valutazione». Da tale modello deriva la “Politica Morale” secondo cui il governo è legittimato dalle sue stesse capacità e qualità. Questa determina la “democrazia reale”, che si manifesta nel rapporto di reciproca attenzione e fiducia tra cittadino e governo. In contrapposizione alla “democrazia procedurale” di tipo occidentale, che si manifesta solo in occasione delle elezioni.

In un certo senso è ciò che rileva Fabio Ciardi, missionario e teologo: «In Asia siamo lontani dall’idea di Dio, ma è fortissima l’idea della morale».

È solo con una diversa “visione psicoculturale”, dunque, che l’Occidente può superare quello che è stato definito il perceptional gap nei confronti dell’Asia e che riguarda la differenza tra i cosiddetti “valori universali”, quali libertà e democrazia, e gli asian values, che attingono a un concetto religioso della politica. Un gap generato sia dalle differenze quasi genetiche tra le filosofie politiche, sia dai canoni occidentali del politicamente corretto, che incutono un sacro timore nel mettere in discussione i nostri valori.

Uno dei pochissimi politici occidentali ad aver superato il gap, tanto da essere stato accusato di una sorta di tradimento morale, è stato Henry A. Kissinger, segretario di stato Usa durante le presidenze di Nixon e Ford, artefice dello storico accordo con la Cina Popolare. Nel suo ultimo libro, On China, Kissinger dichiara apertamente la sua ammirazione per i leader del Regno di Mezzo. Innanzitutto Mao, “il re filosofo”, che «formulò la dottrina della rivoluzione continua, ma che, quando gli interessi nazionali lo richiedevano, sapeva armarsi di pazienza. La manipolazione delle contraddizioni era la sua strategia al servizio dello scopo finale, concepito sul modello confuciano del da tong, la Grande Armonia». Quella strategia, che Kissinger fa derivare dal wei qi, raffinato gioco che consiste nel circondare l’avversario per costringerlo all’inazione, è una chiave per comprendere la complessità della politica cinese. Ed è questa, a sua volta, che permette ai leader cinesi di essere più preparati ad affrontare le complessità globali mettendo in atto una “ideologia fluida”, che si evolve con continue revisioni. Come nello stile madre del kung fu, in cui il combattente modifica le proprie azioni come fosse d’acqua, con fluidità il partito sopprime ogni critica esterna ma consente il dibattito interno.

Ecco perché il governo autocratico di Pechino sembra poter evitare il destino sia dell’Unione Sovietica sia delle dittature travolte dalle rivoluzioni di gelsomino: ha elaborato un sistema che garantisce il potere a lungo termine con la formazione di nuovi leader. A questo scopo, per la prossima fase di sviluppo, la Cina investirà in capitale umano con la stessa determinazione con cui ha costruito le infrastrutture. Mentre in Europa e negli Stati Uniti le università subiscono tagli draconiani, Pechino ha destinato alla ricerca almeno 600 miliardi di dollari per i prossimi cinque anni.

Il vero pericolo del Modello Cinese è questo: è terribilmente attraente. Per comprenderlo appieno bisogna riflettere su quanto scritto dal professor Jeffrey Wasserstrom, nel saggio China in the 21st Century: What Everyone Needs to Know. Non bisogna paragonarlo, come accade, al 1984 di George Orwell. Bensì a Il mondo nuovo di Aldous Huxley. «Orwell enfatizza il ruolo della paura per mantenere il controllo, mentre Huxley fa più attenzione a come i bisogni e i desideri sono creati, manipolati e soddisfatti».

 

Articolo estratto dal numero 4 di Studio, in edicola fino al 15 novembre