Stili di vita | Dal numero

C’è un nuovo cibo italiano in giro per il mondo

Non più soltanto i classici dell'export ma prodotti lontani dal cliché tradizionale come la focaccia di Recco.

di Teresa Bellemo

Una cliente del megastore di Eataly a New York, al numero 200 della quinta strada.

La forte contaminazione tra mare e terra della cucina della Croazia rispecchia il suo essere un Paese estremamente diversificato, caratterizzato da tradizioni e memorie. Una cucina povera ma dai gusti decisi, proprio come certe parti d’Italia. Nelle tante “gostione”, le trattorie che si affastellano per le strade anche più sperdute e che espongono orgogliose maialini che girano sullo spiedo a qualsiasi ora del giorno, lo scorso agosto ho assaggiato le blitva na dalmatinski. Si tratta di bietole lessate insieme alle patate, ripassate poi con aglio e burro. Un contorno banale, degno di una qualsiasi trattoriola presente anche da quest’altra parte dell’Adriatico, ma che per il suo gusto inspiegabilmente irriproducibile è stato oggetto di passione autentica prima e malinconica nostalgica poi. Una volta a casa infatti ho provato a riprodurre la ricetta, invano. Mentre mi arrovello se per caso sia perché da queste parti risulta impossibile reperire la patata istriana, il suo sapore continua a tornarmi in mente e a definire le mie vacanze estive.

Assomiglia forse a un’illuminazione di questo tipo quella che ha colpito Sebastian Zodak, inviato del New York Times con l’ingrato compito di visitare tutti i “52 Places to go in 2019” secondo lo stesso quotidiano americano. Lo scorso luglio Zodak ha toccato la Riviera Ligure, più specificatamente il Golfo Paradiso, tra Camogli e Genova. Il pezzo che lo racconta, dopo una piccola introduzione, riporta una frase sentita dire da una coppia in un bar: «Portofino è per gli americani, Camogli è per noi italiani». È qui che il giornalista si confonde tra donne vestite con prendisole a stampe floreali, ragazzi abbronzati che sfrecciano sulle vespe con in mano soltanto un asciugamano da mare. È a Recco – «il brutto anatroccolo tra gli uccelli del paradiso» – che assaggia la celebre focaccia al formaggio e se ne innamora. È anche grazie a questo articolo – e a un post #foodporn sul canale Instagram del New York Magazine che l’ha descritta come «il cibo che crea più dipendenza del pianeta» – che la focaccia di Recco diventa la nuova specialità italiana da provare assolutamente… in America. Certo, non si può che essere d’accordo con la riscoperta e doverosa celebrazione della focaccia di Recco: quei due sottilissimi strati di impasto che a malapena si riesce a tenere in mano, custodi di un morbido ripieno lattiginoso, meritano di essere resi giustamente “great again”. Ma per noi italiani, abituati a comprarla ordinariamente nei forni liguri, ritrovarcela super zoomata nell’account di una delle più seguite riviste mondiali è stato un momento sì di orgoglio, ma anche di straniamento. Lo stesso sentimento con cui ci siamo ritrovati a fare i conti quando abbiamo scoperto che in America si organizzavano degustazioni di panettone, in pieno agosto, per giunta.

Una fascinazione che ha messo al centro da una parte la ricerca della qualità rigorosamente made in Italy (+6 per cento di export rispetto all’anno precedente, per un totale di 32 milioni di euro di panettoni esportati che nel 2018 hanno reso gli Stati Uniti il primo Paese extraeuropeo destinatario di questa fascia di prodotti), dall’altra la sfida di uno dei prodotti da forno a più complessa gestazione. Tra farine, lieviti madre, riposi capovolti e idratazioni, numerosi pasticceri statunitensi hanno voluto misurarsi e raggiungere l’obiettivo di confezionare il perfetto panettone meneghino.

Cosa sta dietro questo innamoramento per il prodotto italiano tradizionale sì, ma certamente insolito, lontano dal classico cliché di cuochi tondetti con i baffetti e tovaglie a quadrettoni? Forse la stragrande maggioranza di chi approda all’ennesima novità tricolore non ha degli stringenti metri di paragone, ma ne assapora il suo essere la versione edibile di un imprecisato panorama fatto di piccoli borghi e colori caldi. Ma qualcosa sta cambiando. È un fatto che la cucina italiana all’estero – e in America in particolare – non sia più fatta soltanto di fettuccine Alfredo, ma piuttosto di bottarga e saba (anche detto “mosto cotto”). Sembra, insomma, dover rispondere a una vera e propria caccia alla primizia, alla rarità, al gusto ancora sconosciuto, che spesso non abbiamo ancora fatto in tempo a riscoprire noi italians, forse solo in quanto già attori protagonisti di quel panorama.

Berardo Paradiso, presidente dell’Accademia della Cucina Italiana a New York, è d’accordo: «Gli americani amano l’Italia e negli ultimi anni stanno migliorando il proprio gusto, anche grazie all’educazione. Ogni anno portiamo 60mila ragazzini a far conoscere la cucina italiana, che si aggiungono ai 50mila studenti che ogni anno raggiungono l’Italia per imparare la lingua. Questo significa che la conoscenza si propaga alla rete familiare in modo capillare, educando al gusto e alla qualità. Per questo anche il panettone – anche senza brand – può prendere piede nella tradizione natalizia americana, perché è buono». Amore per l’Italia ma anche marketing: «La focaccia, oltre a essere squisita di per sé, è stata spinta tantissimo da Oscar Farinetti, che ha dedicato ai prodotti da forno italiani meno noti uno stand in entrambe le sedi di Eataly a New York, dove ogni fine settimana ci sono più di 40mila visitatori. Un po’ come è successo con lo spritz, che ha avuto successo anche per come è stato comunicato». In pochissimi anni l’aperitivo veneto, infatti, ha spopolato diventando il pre-dinner per eccellenza, quindi sempre presente nella lista dei drink di quasi tutti i locali di New York e del mondo con una modalità molto più pervasiva di quanto fosse già accaduto in Italia. Un successo vero, come testimonia l’intera parabola da imprescindibile a decaduto passando necessariamente attraverso la fase della reinvenzione, con abbinamenti arditi e combinazioni discutibili.

Alle spalle di questa ricerca continua di autenticità e di un sempre diverso oggetto del desiderio a tema food c’è certamente un nuovo e diverso modo di intendere le vacanze, la scoperta dei luoghi che sempre di più fa lasciare sullo scaffale la guida Lonely Planet e consultare compulsivamente account social di locals e guide messe insieme da influencer, chef, globe-trotter che hanno prima di noi scandagliato il Golfo Paradiso a caccia della versione più autentica di quella Portofino ormai noiosa, che non basta né avanza più come una volta. È un nuovo turismo che va a caccia di percorsi autentici, dei veri punti di incontro e del meriggiare tipicamente italiano che ha i colori della #goldenhour copiati anche ormai dalla pubblicità, dove tutti sono felici, cantano gli Stereophonics e si scambiano sorrisi sorseggiando l’aperitivo che più di tutti rappresenta l’arte tutta italiana del saper vivere. Continua Paradiso: «I voli low cost e i social hanno trasformato il modo di fare esperienza dell’Italia. Il viaggiatore culturale – che distinguo da quello di massa – è soprattutto giovane e legge, si documenta, e dopo una veloce capatina nelle città simbolo sceglie percorsi alternativi, mete che non sono assolutamente scontate, proprio a caccia di questa maggiore autenticità». Il nuovo gusto italiano è reso ancora migliore e ancora più condivisibile – che sia di persona o via Instagram stories poco importa – se lo si riesce a scovare magari in un bar dove i tavolini sono di formica e il bancone è ancora, davvero, quello degli anni Sessanta. In realtà nessuno può realmente sapere se quello che ci verrà propinato sarà effettivamente autentico e a denominazione di origine controllata, se ci sarà o meno l’olio di palma, se la blitva na dalmatinski che ho assaggiato nelle gostione croate è davvero degna di essere ricordata come l’ho ricordata io una volta di ritorno dalle vacanze estive. È che funziona così: la focaccia più buona è quella che non abbiamo ancora assaggiato ma che abbiamo appena visto su Instagram, comprata in un bar con l’insegna scalcinata in un paesino sperduto “da qualche parte nel Nord Italia”.