Aveva 53 anni e grazie a lui il festival è diventato uno degli eventi musicali più importanti d'Europa.
Ci sono eredità che non finiscono, ma si trasformano. Quando una comunità così viva perde la sua guida, non resta il vuoto, resta un’eco, un ritmo, un modo di fare le cose. Così è stato per la ventitreesima edizione del C2C Festival, la prima senza Sergio Ricciardone, il suo fondatore e carismatico direttore.
Ecco allora che l’edizione 2025, si è fatta simbolo di una tensione così paradossale: raccogliere un’eredità, grandissima, e farla camminare da sola, con la stessa passione, ma in una condizione nuova. Più che un ritorno, è stata una rinascita collettiva. Con 42.000 presenze stimate e il 40 per cento di pubblico internazionale, C2C si conferma un organismo vivo e pulsante, un luogo di ricerca e di culto. Ma più dei numeri, è l’atmosfera che resta: un sentimento condiviso, la sensazione che la visione di Sergio non sia svanita, ma si sia semplicemente diffusa, nelle persone, nei suoni, nelle luci del Lingotto. Il venerdì sera al Lingotto Fiere ha avuto il respiro delle grandi occasioni. Tra gli highlights della serata, l’incontro inedito tra IOSONOUNCANE e Daniela Pes — due delle voci più radicali e visionarie della scena italiana. Una performance viscerale, costruita su gesti vocali e trame elettroniche, in cui la lingua si faceva suono, rito, materia viva. Un dialogo ancestrale, capace di tenere insieme Sardegna e contemporaneità, radici e sperimentazione, la loro musica non raccontava il lutto, ma la possibilità stessa di trasformarlo in nuova forma.
Poi, sul palco, arriva Blood Orange, il ritorno più atteso del festival, costruendo uno dei set più intensi dell’intera edizione. Un viaggio tra soul, pop orchestrale e memoria, in cui ogni nota sembrava interrogare il tempo e le sue ferite. Con la delicatezza di chi trasforma la nostalgia in bellezza. L’artista britannico ha mescolato intimità e slancio collettivo, trascinando il pubblico in un’esperienza sospesa. Il sabato è stato il giorno dei contrasti, dei linguaggi che si inseguono e si completano. Tra le prime a dare inizio alla serata, Annahstasia, con la sua voce che sembra venire da un altrove intimo e spirituale. Un soul che parla di identità e appartenenza, capace di portare calore anche dentro una venue industriale. Poi è arrivato John Maus, figura enigmatica e fuori dal tempo, a trasformare il suo synth-pop in una sorta di messa laica, ipnotica e commovente. Infine, A.G. Cook — produttore, e mente dietro ad alcune delle hit più iconiche di Charli XCX e Beyoncé per citarne alcuni— ha chiuso con un live audiovisivo che sembrava una dichiarazione di poetica, un pop liquido e lucido, capace di far convivere club culture, ironia e sperimentazione.
La domenica pomeriggio, lo YOUNG Showcase al Le Roi Music Hall — in collaborazione con Recall e con il supporto di Nike — ha trasformato la leggendaria sala disegnata da Carlo Mollino in una stanza del futuro, da dove ricominciare partendo con un suono. Sul palco, quattro artisti emergenti selezionati dalla label londinese YOUNG — Taylor Skye, Anysia Kym, Isaiah Hull e Tommy Barlow — hanno portato voci nuove e visioni fresche, sospese tra elettronica, performance e spoken word. Era un segnale chiaro, non solo la celebrazione di chi ha fatto la storia, ma un investimento nel futuro, nella curiosità come linguaggio comune. Ripartire senza Sergio non ha significato sopravvivere, ma rifiorire. C2C Festival non ha scelto la commemorazione, ma la continuità. Ha preferito la luce alla malinconia, la danza alla distanza. E forse è per questo che, guardando il pubblico ballare sotto la Mole, si è avuta la sensazione che qualcosa, o qualcuno, fosse ancora lì.
Lo racconta bene Guido Savini, direttore artistico del festival, con parole che resteranno come il vero statement di questa edizione: «Un caro amico prima di lasciare Torino mi ha detto che gli esseri umani muoiono due volte: la prima quando smettono di respirare e la seconda quando le persone smettono di pronunciare il loro nome. Dopo quello che abbiamo fatto quest’anno, Sergio è più vivo che mai». E allora sì, Per Aspera Ad Astra non era soltanto un titolo, ma una direzione. Un invito a continuare a creare meraviglia, anche quando le stelle sembrano lontane.
