Brian Wilson, una creatura nelle mani del suono

È stato un dei più grandi compositori del Novecento, anche se non lo si è celebrato abbastanza quando era in vita. Una vita folle che ha rivoluzionato il pop.

12 Giugno 2025

In un pomeriggio di settembre del 1998 mia madre mi ha mandata a prendere il latte, poteva essere l’inizio di una canzone e invece è stato l’inizio di molte altre. Sono finita a fare il mio acquisto in un supermercato vicino a casa e nel giro di pochi minuti mi sono poi ritrovata nel reparto dei prodotti audiovisivi a investire per la prima volta la mia paghetta in un disco in forma di musicassetta: un Greatest Hits dei Beach Boys, un gruppo di cui conoscevo solo una canzone. L’estate volgeva al termine, la scuola non era ancora ricominciata e nemmeno un mese prima, appena tredicenne, avevo ascoltato sulla spiaggia un pezzo di questo gruppo che parlava ossessivamente di surf, avevo ballato quelle note felice mentre ero in fila per un ghiacciolo con i miei amici di stagione, eppure a un certo punto, mentre cercavo di capire come muovermi sopra quel ritmo, ho sentito come una trafittura, una strana forma di tristezza in petto, come se l’estate, ancora nei suoi giorni migliori, stesse già quasi all’improvviso finendo e tutta la mia persona fosse precipitata in un colpo solo in una profondissima malinconia. È durata un attimo, questa fitta scura, una nuvola sopra il mare brillante di agosto: è stata breve, ma feroce.

Lo smottamento emotivo della musica pop

Non lo sapevo ancora, ma in quel pomeriggio estivo avevo sperimentato per la prima volta in modo pieno gli effetti essenziali più profondi figli della forma della migliore musica pop: il suono apparente dell’allegria e della spensieratezza capace di rivelare in un istante l’accenno al vuoto abissale dell’esistere, della perdita, dell’assenza di qualcosa che non sappiamo né mai sapremo dire cosa sia. Pienezza e svuotamento, felicità e dolore che circolano una nell’orbita dell’altro nel continuo smottamento emotivo generato da progressioni di accordi e precise scelte armoniche. Dovessi dire di cosa è stato padre, Brian Wilson, autore anche, ma non soprattutto, di quella e molte altre canzoni sul surfare felici sul tempo della propria giovinezza californiana, direi soprattutto di questo fondamentale scarto perfetto, al grado zero, alla sua fondazione. È qualcosa che forse non avrebbe potuto mettere in campo un altro, qualcuno che non fosse figlio di un padre frustrato, maltrattante e violento e non avesse sviluppato un orecchio assoluto capace di legarsi agli effetti psicofisici delle violenze al punto da permettergli di allucinare suoni, melodie e sinfonie, generare dall’inferno l’opera pop che nella storia si avvicina maggiormente all’idea umana del celeste.

Figlio del Doo Wop

Alla base di tutto questo un’idea antica e radicale circa il senso esistenziale dell’armonia, qualcosa a cui agganciare, diciamo pure accordare, la vita intera. Brian, giovanissimo, insegna ai suoi fratelli ad armonizzare, è un gioco ma per lui anche un’idea di gruppo, inteso prima di tutto come compagine collettiva unita dalla comunione di intenti al cospetto dell’oscurità dell’universo. Figlio del Doo Wop, della grande musica americana dei rossetti e delle calze di nylon, dei frappè alla fragola al diner e delle pomiciate nelle auto decappottabili tirate a lucido – ma anche dai gruppi neri che veleggiano il rhythm and blues –, il mondo delle armonie vocali, nei fratelli Wilson va incontro alla moda locale del momento, la musica surf, e ne diventa re, anche e soprattutto grazie alla chitarra di Al Jardine. Canzoni che prima erano senza testi con i Beach Boys diventano d’improvviso l’antro bollente delle ragazze in bikini e delle gare sportive muscolari a chi prende meglio l’onda e la ragazza: roba che oggi sa di mondi poeticamente (ed eticamente) impensabili, lontanissimi.

In my room

Brian Wilson, a differenza di suo fratello Dennis – autore più in là di un disco stratosferico e dimenticato intitolato e non per caso Pacific Ocean Blue – non ama surfare, non ama la sabbia bollente, il sole che scotta la pelle: è bianco, timido, non ha il phisique du role del surfista, non ama l’estetica della spiaggia, gli sta stretta e dell’oceano ha paura, ne coglie la forza oscura e la ferocia, ne percepisce il nero abissale e sconfinato. Soffre più che discretamente la fama, le apparizioni televisive col surf sottobraccio e la camicia aperta e tutto ciò che non coincide con la vita a casa e in studio di registrazione, un luogo che per lui esiste non solo per registrare ma per immaginare, provare a dare un corpo sonoro a quello che la sua mente musicale – scientificamente sovraumana – gli suggerisce. Da una parte i Beach Boys macinano successi in giro per il mondo, dopo le onde cavalcano i cieli un volo intercontinentale dopo l’altro, dall’altra Brian Wilson se ne sta nella sua nuova casa al 7235 di Hollywood Boulevard a sperimentare, “In my room”: lo fa con le droghe, hashish, marijuana, lsd, pillole, e lo fa con la musica, introducendo uno spettro nuovo, dolcemente lisergico in brani ancora strettamente legati, se non solo al mondo della spiaggia e del surf, alla California, all’oceano: da “California Girls” a “Please Let Me Wonder”. 

Brian Wilson è una creatura nelle mani del suono, ma il suono non ha mani e così ne vanno cercate di sapienti, Wilson sceglie quelle della Wrecking Crew, un gruppo di musicisti e turnisti di Los Angeles di formazione classica e jazzistica, un ensamble di musicisti da studio, proprio come, nei fatti, è lui stesso, che non ha più remore a dichiarasi adatto ai dietro le quinte più che all’intrattentimento.

Innamorato da sempre del lavoro di Phil Spector, estimatore della sintesi pop stratificata di hit come “Be My Baby”, Wilson è un devoto della forma canzone, quella di due minuti e mezzo che è però la sintesi omnicomprensiva di intere mezzore di idee sonore, tentativi, passaggi, costruzioni armoniche. Siamo a metà degli anni ’60 e quella nella testa di Wilson è un’idea di musica che non ha eguali nella storia giovane della popular music, l’unico mondo a cui può tangibilmente afferire è quello della classica, una musica che però Wilson, ad esclusione di Bach e altre passioni sparute, non pratica. La sinfonia a cui riferirsi, la fuga, il concerto, ancora una volta arrivano infatti dalle stanze di un’emotività vertiginosa, quando non spaventosa, tanto problematica quanto in grado di farsi sonoramente sorprendente e pulsante. 

La genesi di Pet Sounds

Mentre i Beatles esplodono, attraversano il mondo e a esso si consacrano, a loro volta consacrati, Wilson è solo tra la camera e lo studio, il mondo vibra di possibilità e modernità dietro la porta ma la porta di Brian, in qualche misura, resta chiusa. È significativo questo passaggio, perché stabilisce una postura destinata per Wilson a non esaurirsi, postura che coincide con l’inabissarsi nell’oscuro della propria mente nel tentativo di tirare fuori la magia in forma armonica. Il primo passo di questo percorso è il capolavoro Pet Sounds, una follia se pensiamo all’immaginario Beach Boys fino a quel momento, il disco interamente scritto da Wilson che immagina, suona, produce, arrangia, sintetizza e in questo caso persino realizza un prodotto: Pet Sounds è un miracolo, deve molto a Rubber Soul ed è il principale responsabile dell’esistenza di Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band al punto che per un attimo sembra quasi che la tenzone faccia il poeta e non viceversa (Paul McCartney, nell’arco della vita intera, regalerà una copia di Pet Sounds personale a ciascuno dei suoi figli). Pet Sounds riparte dell’immaginario doo wop, lo fa nella musica come nei testi, il sogno di “Wouldn’t it be nice?” è quello degli amanti adolescenti che vorrebbero essere più grandi per starsene stretti per sempre senza dover mai tornare a casa, ma in questo Brian Wilson inserisce la malinconia gioiosa (eccoci) del futuro, invecchiare sarebbe più carino se si potesse fare insieme, ma non in un mondo a caso, bensì nel tipo di mondo a cui noi (due, ma anche soli) apparteniamo. Anche se i testi sono scritti da Tony Asher e in qualche caso da Mike Love tornato in California, il battito della parola e del suono in questo disco è perfettamente unitario, accordato. Le onnipresenti campane dirigono il magma fatato giovanile e amoroso dell’album, l’insicurezza, il desiderio, la fragilità, l’abbandono, il silenzio, l’appartenenza, il disagio dell’essere nel proprio tempo: tra clavicembalo, sassofono baritono, esplosioni corali, tamburi cardiaci tutto è sentimentale, emotivo, drammatico e insieme così intellettualmente preciso, ricco, audace, sontuoso. Non c’è curva di questo disco che non sia stata dettagliatamente decisa nella sua impervia e nella sua rassicurazione, tutto racconta di come il cuore e la mente, il rigore e la passione fluviale compiano il proprio viaggio più ricco solo insieme. È una lezione ancora non abbastanza raccolta dal futuro, qualcosa che neppure gli altri Beach Boys capiscono davvero, raddoppiando il senso di isolamento desiderato con quello donato invece dal mondo esterno che ancora agogna le spiagge e i bikini di prima. 

Canzone sull’empatia

Si chiama “Good Vibrations” la sinfonia in versione tascabile che arriva subito dopo Pet Sounds e pensata durante le sue sessioni, l’idea è ispirata a Wilson da un racconto materno di quando era piccolo secondo cui i cani possono sentire le vibrazioni emotive positivi e negative degli uomini: è chiaro, sostiene Brian, che anche agli uomini accade la stessa cosa ed ecco dunque il primo e unico brano mai scritto sull’empatia. Strati e strati di nastri multitraccia, ore e ore di registrazione, assemblaggi di molte sezioni frutto di versioni mutiple della stessa singola traccia e altre magie sperimentali inventate in studio da Wilson (generatrici tra le altre del lavoro in studio che verrà fatto su pezzi come “Strawberry Fields Forever”) danno origine a un lungo minutaggio di sinfonia pop che verrà sintetizzata (ma non ridotta!) a tre minuti soltanto in quella che è probabilmente la più grande canzone mai concepita (e realizzata!) dalla mente umana, nonché un numero uno in classifica.

Il capolavoro incompiuto

È qui che l’incompiutezza fa il suo ingresso in scena, il lavoro di Wilson, che inizia a concepire Smile, “la sinfonia celestiale per Dio”, il disco leggendario, eternamente non finito i cui prodigi troveranno spazio nei dischi successivi a firma Beach Boys – da Smiley Smile a Wild Honey a Friends fino al capolavoro Surf’s Up – è qualcosa che potrebbe somigliare al realismo isterico, a certe incompiutezze o tentativi o capolavori letterari riccamente digressivi – impossibile non pensare alla mente di Wilson come sorella di quella di David Foster Wallace. 

Ma non è la compiutezza, insegna la storia, a fare dell’uomo un artista, semmai la capacità assoluta, dunque sciolta, libera dalle esigenze della brutalità del quotidiano, di isolare un frammento di verità, di meraviglia, di sogno, di ricavare uno spazio celeste nel terrestre e di donarlo ad altri che sulla Terra devono stare. Brian Wilson, non lo si è detto né praticato mai abbastanza quando era in vita, è stato uno dei più grandi compositori del ‘900 e concepiva la musica, l’armonia al suo fondo strutturale, come l’amore, laddove entrambi generano tentativi di accordarci nel percorso dell’esistenza, che sia in minore a volte, in maggiore altre, che importa? Il pianoforte suona, la sabbia è ai suoi piedi anche se siamo in un appartamento, le forcine per i capelli della ragazza che che ti fa impazzire lavorano il suono delle corde, i tasti bianchi e neri faranno il loro dovere mentre il cane dormirà ai tuoi piedi e qualcosa nella tua testa inizia a vibrare. È il corpo del sogno o la mente del reale? A nessuno importa, qui.

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