Cultura | Letteratura

L’epica controcorrente di Beppe Fenoglio

Cent’anni fa nasceva lo scrittore più importante della Resistenza, a lungo avversato perché non ideologizzato. Ma l’eroismo partigiano brilla nei suoi libri più che altrove.

di Davide Coppo

I giorni più difficili della sua vita Beppe Fenoglio li vive dopo la guerra, costretto dalla pace a cercarsi un lavoro che non vorrebbe, a 23 anni, in casa ancora con i genitori, e soprattutto una madre con cui litiga ferocemente, racconterà poi la sorella, che non vuole un figlio scrittore e lo rimprovera perché fuma troppe sigarette, da brava piemontese trasformate in rendiconto economico che pesa sulla rendita familiare. Se sembra una storia già sentita è perché, come molto di quello che ha vissuto se non tutto, Fenoglio l’ha messa in un libro, La paga del sabato, uscito postumo nel 1969, e in un racconto precedente, Ettore va al lavoro, parte di I ventitre giorni della città di Alba.

Cent’anni dopo la nascita di Beppe Fenoglio la popolazione che ha vissuto sulle pagine di quei libri e racconti è scomparsa, salvo poche centinaia di superstiti a cui restano giorni, mesi, raramente anni. Spariti i partigiani, si è trasformata in distretto industriale anche la terra contadina e magica che ha sempre descritto. Lui, morto nel 1963, fa giusto in tempo ad avvertire le prime scosse del boom, e a infastidirsi per la fabbrica di cioccolata che arriva subito dopo la Liberazione. Sulla piccola lapide nel cimitero di Alba, poco sopra al nome del padre, la biografia che, in vita, aveva chiesto: “Scrittore e partigiano”, due qualifiche che lo hanno definito a tal punto da poter essere trasformate in una sola, togliendo di mezzo la congiunzione.

In un anniversario così tondo e importante viene l’istinto di fare l’esercizio di pensare: ma quanto si troverebbe incastrato Beppe Fenoglio, così eterodosso e così ribelle, nel mondo di oggi? Ma in quello di ieri non fu affatto coccolato. La stroncatura più famosa è quella di Carlo Salinari su l’Unità nel 1952, all’uscita di I ventitre giorni della città di Alba: «Fenoglio non solo ha scritto un cattivo romanzo ma ha anche compiuto una cattiva azione», scrive. Nel giro di tre mesi, sempre sullo stesso quotidiano, escono quattro stroncature, una per ogni edizione – Genova, Torino, Roma, Milano – ed è quella milanese che involontariamente è anche una delle migliori recensioni non solo della raccolta di racconti, ma anche del suo capolavoro, Una questione privata: «Fenoglio», si legge, «ci presenta degli strani partigiani che stanno tra la caricatura e il picaresco, che combattono per avventura o addirittura per niente e per nessuno».

Eppure Italo Calvino, da subito uno dei promotori più convinti di questo piemontese con la lingua fin troppo tagliente, come raccontano in molti nel documentario biografico di Guido Chiesa, disse proprio che Fenoglio aveva descritto la Resistenza «proprio com’era»: «La più selvaggia parata della storia moderna», in cui «solamente di divise ce n’era per cento carnevali». Quello di cui non si accorgeva la critica in gran parte comunista, che non perdonò a Fenoglio di essere sia antifascista che conservatore (e monarchico), era che la Resistenza si mostra molto più eroica così: se a combattere i fascisti non sono eroi senza macchia, testimonial del Partito e dell’ideologia, ma ragazzini ignoranti così esasperati che prendono le armi a vent’anni perché il fascismo fa troppo schifo per non fare niente. In un Paese da sempre affascinato da pochi uomini forti, sono una rivoluzione questi partigiani deboli che litigano tra loro e poi sbagliano, e si cagano addosso eppure odiano i fascisti così tanto da aver rinunciato alla giovinezza o agli studi o ai campi e alle famiglie e conquistano, e ammazzano, e poi vincono.

Fenoglio fu lontano dalla scrittura come missione anche nel modo in cui scriveva, diceva sempre a Calvino di farci «una fatica nera»: «La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti. Scrivo with a deep distrust and a deeper faith». Poi certo, anche il risultato non piaceva a molti. Sempre su l’Unità: «Lo stile è volutamente letterario e falso come il contenuto; le brutte parole abbondano, ce n’è una ad ogni frase, forse per creare quel “sapore barbaro”». La lingua viva di Fenoglio, scrisse il critico Dante Isella, non era l’italiano ma ancora il dialetto, e certo i ragazzini soldati appostati in collina nella Langa non dovevano parlare tra loro con l’educazione dei libri di scuola.

Tutta la produzione, dai racconti brevi al lungo Johnny, passando soprattutto per Una questione privata, sono un’epica particolarissima legata alla resistenza, ai ragazzini imperfetti eroi che la animarono, e ai luoghi del Piemonte. Come per contrasto, la «selvaggia parata» partigiana si muove tra colline magiche, a cui la nebbia, la notte, l’alba cambiano faccia e carattere. Non è uno sfondo, questa Langa, ma un protagonista da assecondare e rispettare, e Fenoglio le dedica i momenti più poetici: «Erano giuste le nove di mattina. Il cielo era tutto a pecorelle bianche, con qualche golfetto color grigioferro, ed in uno di questi stava la luna, smozzicata e trasparente come una caramella lungamente succhiata». La tratta come una creatura vera, descrivendola come viva. Quando i partigiani sconfitti lasciano Alba ripresa dai fascisti, la città «tremava come una creatura». E la bellezza è l’unica cosa che fa vedere un po’ di luce in un mondo che anche dopo la guerra non sarà facile per i partigiani, con poche migliaia di lire di premio e una politica che si rifiuta di processare i fascisti e ha fretta di chiudere i conti: «I vapori del mattino si alzavano adagio e le colline apparivano come se si togliesse loro un vestito da sotto in su».

In questo poema frammentato, le divinità sono quindi i vecchi, quelli che hanno sempre vissuto nelle colline e che le sorvegliano in silenzio, accogliendo i partigiani nei fienili, sfamandoli di nascosto. Come la vecchia che accoglie Milton quando la pioggia inonda le colline, così a metà tra umano e divino che è esentata dal sonno: «Io non dormo quasi più. Sto distesa, con gli occhi larghi, e penso a niente o alla morte». E sono allo stesso tempo spietati, come a indicare la via necessaria e dura da seguire quando forse la pietà prenderebbe il sopravvento. Un altro vecchio saggio che Milton incontra gli raccomanda: «Ascoltami bene, ragazzo. Io ti posso chiamare ragazzo. Io sono uno che mette le lacrime quando il macellaio viene a comprarmi gli agnelli. Eppure, io sono quel medesimo che ti dice: tutti, fino all’ultimo, li dovete ammazzare».

Sempre per Einaudi, sempre con una nota di Dante Isella, uscì nel 2007 una raccolta di poesie di un altro letterato che descrisse la stessa resistenza eroica e giovanile e spontanea cantata da Fenoglio. Nino Pedretti ha molte cose in comune con Fenoglio, a partire dalla provenienza romagnola, altra zona di colline e di partigiani, per arrivare all’uso del dialetto come lingua principale. Uguale è anche il sentimento che espresse in “I partigiani”, uscita originariamente nel 1975, e che sembra l’ultimo pensiero che attraversa Milton, dopo essersi tuffato nel bosco, affidato a un destino che non conosceremo: «Non per ragioni di gloria andammo in montagna a far la guerra. Di guerra eravamo stufi di patria anche. Avevamo bisogno di dire: lasciateci le mani libere, i piedi, gli occhi, le orecchie; lasciateci dormire nel fienile con una ragazza. Per questo abbiamo sparato ci siamo fatti impiccare siamo andati al macello piangendo nel cuore con le labbra tremanti. Ma anche così sapevamo che di fronte ad un boia fascista, noi eravamo persone e loro marionette. E adesso che siamo morti non rompeteci i coglioni con le cerimonie, pensate piuttosto ai vivi che non abbiano a perdere anche loro la giovinezza».