Come sta cambiando l’atlante della moda

Eventi come il Fashion Trust Arabia 2025 che si è appena tenuto a Doha e dove è stata premiata Miuccia Prada ci fanno capire che il sistema è pronto a essere totalmente ricablato.

26 Novembre 2025

Quando sabato sera si è presentata sul palco del National Museum del Qatar, a Doha, per ritirare il premio Lifetime Achievement Award, Miuccia Prada lo ha ricevuto dalle mani di Sua Altezza Sheikha Moza bint Nasser, presidentessa onoraria della FTA, cioè la Fashion Trust Arabia organizzazione senza scopo di lucro che, recita il sito, «sostiene la scoperta di nuovi talenti, le attività di finanziamento e il supporto ai talenti emergenti nel campo del design della moda in tutta la regione MENA (Medio Oriente e Nord Africa)». L’associazione è nata nel 2017, e l’evento correlato (il Fashion Trust Arabia Prize, tenutosi sabato) è arrivato alla sua settima edizione. Al di là del riconoscimento – sembra quasi  inutile dirlo, ma lo diciamo comunque – assai meritato andato a Miuccia Prada, scelta dalla FTA per «la sua capacità di ridefinire la moda contemporanea attraverso un approccio intellettuale al design, riconoscendo il suo patrimonio creativo come uno dei più influenti nel panorama della moda odierna», la questione in ballo è un’altra e ha molto più a che fare con un Atlante della moda che sta cambiando faccia, in maniera lenta ma inesorabile.

Il fashion system riunito a Doha

Certo, il fashion system è uso alla premiazione (premiarsi tutti, premiarsi sempre, per non scontentare mai nessuno, mai sia) e però in passato è stato raro che eventi in luoghi distanti dalle classiche capitali della moda (New York, Parigi, Milano, Londra) vedessero una così massiccia compagine presente: tra loro non c’erano solo designer che dovevano salire su quel palco per essere premiati, ma anche addetti ai lavori e celebrities. Alla serata figuravano infatti Mahmood, la top Gisele Bündchen, Anna Wintour, Pierpaolo Piccioli, Natalia Vodianova  – la ex top oggi coniugata con uno degli eredi dell’impero LVMH, Antoine Arnault – ma anche fotografe come Brigitte Lacombe, e il direttore creativo di molte campagne di Prada Ferdinando Verderi. Questo perché l’evento non si è limitato a una sola serata di premiazioni, ma si è preso l’intero weekend. 

La sera dopo, più o meno gli stessi ospiti si sono ritrovati al Museum of Islamic Art di Doha per il primo Franca Fund Gala, serata di beneficenza in onore di Franca Sozzani, storica direttrice di Vogue Italia scomparsa nel 2016. L’evento è stato co-ospitato dalla padrona di casa, Sua Eccellenza Sheikha Al Mayassa bint Hamad bin Khalifa Al Thani, Presidente del Qatar Museums e Co-Chair di Fashion Trust Arabia (figlia della Sheika Moza Bint Nasser che aveva presieduto la serata precedente), e ha visto la partecipazione del figlio della scomparsa direttrice, Francesco Carrozzini, della sorella Carla Sozzani, ma pure di Jeff Koons, Rem Khoolas, Maria Carla Boscono e infiniti altri esponenti del jet set modaiolo. 

Che il contributo della direttrice più famosa nell’editoria di moda italiana sia stato riconosciuto e premiato con una serata di beneficenza molto lontana dall’Italia, la dice però lunga: le motivazioni della scelta di geolocalizzazione dell’evento non hanno tanto a che fare con un mancato riconoscimento in patria, dove la figura di Sozzani è invece assai amata e spesso ricordata dalle autorità e dalle istituzioni del settore, quanto dalla capacità economica dei paesi dell’area mediorientale, che possono permettersi di organizzare un evento faraonico, traendone in cambio il prestigio – o, come la chiamerebbero alcuni, l’autorevolezza culturale – di una platea di ospiti che, ad oggi, rappresentano lo stato dell’arte dell’industria della moda.  

Qatar, Emirati Arabi e Cina

D’altronde il Qatar così come gli Emirati Arabi sono sempre stati mercati di riferimento per le maison, che infatti ultimamente organizzano show dedicati, come Zegna che è volato a Dubai per presentare la sua collezione primavera/estate 2026. Da da qualche anno a questa parte però, questi Paesi hanno smesso di essere semplicemente affezionati clienti e hanno iniziato a divenire mecenati, finanziatori, proprietari. Il fondo Mayhoola – che possiede Valentino, ma pure Pal Zileri, Balmain e i department store turchi Beymen – è qatariota, mentre l’azionista unico di Roberto Cavalli dal 2019 è l’imprenditore di Dubai Hussain Sajwani, tramite la società Auriel Investment. Nel frattempo la Cina non è rimasta a guardare: l’altro mercato di riferimento a cui tutti i brand ambiscono ad arrivare, grazie a investimenti su innovazione tecnologica e la crescita dei marchi locali, è riuscito negli anni a scrollarsi di dosso la cattiva reputazione di “fabbrica del mondo” (lo ha sostenuto il Venice Sustainable  Fashion Forum del mese scorso, ne avevamo parlato nella nostra newsletter Industry). 

Di conseguenza, ha iniziato a reclutare stilisti provenienti dalla vecchia Europa, mettendoli a capo di nuovi brand: è il caso recente di Kim Jones, ex direttore creativo di Fendi, che disegnerà Areal, il nuovo progetto del lusso firmato da Bosideng, realtà cinese con 50 anni di storia, produttrice principalmente di piumini. Anche il suo collega Kris Van Assche – ex direttore creativo di Dior uomo – ha fatto una scelta similare, svelando a settembre la sua prima collezione per Antazero, brand nuovo di zecca di proprietà del gigante cinese dello sportwear Anta. Non è di per sé una novità che stilisti a fine carriera – che richiedono assegni importanti, non hanno più il profumo inebriante della novità giovanile e non garantiscono automaticamente il successo economico à la Hedi Slimane – si dedichino a consulenze per brand cinesi, remunerate profumatamente. Ma fino a qualche mese fa, quelle consulenze erano anonime – spesso per volontà del designer, che non aveva nessun desiderio di vedersi appaiato a un Paese che godeva di una cattiva fama. Oggi, la situazione pare essere evidentemente cambiata e anche se il campionato che giocheranno in Cina ha una rilevanza culturale di tutt’altro spessore, godranno di una libertà d’azione e di bonifici che difficilmente avrebbero mai (ri)visto, se avessero continuato a esercitare nello sfavillante mondo della moda europeo. D’altronde se bisogna affidarsi a qualche “patron” per sbarcare il lunario, e Anna Wintour trova come sponsor principale per il prossimo Met Gala Jeff Bezos e consorte (altri due personaggi alla ricerca di una validazione culturale di qualunque tipo, e difatti da parecchio si sussurra che tra i progetti del tycoon vi sia l’acquisizione del magazine come regalo alla novella sposa), forse i milionari cinesi diventano un’alternativa allettante, persino eticamente plausibile.

L’erosione del bonus reputazionale

E difatti la moda delle grandi capitali, quelle che una volta dettavano legge ben al di fuori dei loro confini, appare in grande sofferenza: sempre secondo il Venice Sustainable Fashion Forum i paesi creatori della moda per antonomasia, come Francia e Italia, stanno perdendo prestigio, erodendo quel loro bonus reputazionale che hanno in dotazione praticamente da sempre. Certo, non serviva neanche farlo dire agli esperti per rendersene conto: il disamore del pubblico generalista nei confronti della moda, complici demenziali tattiche di rialzo dei prezzi – lo ha definito “un errore gigante”, anche Andrea Guerra, CEO di Prada – e poi invece, gli scandali relativi allo sfruttamento del lavoro (l’ultimo in ordine di tempo è Tod’s, indagato insieme a 3 suoi manager con l’accusa di caporalato, come riportato da IlSole 24ore) hanno aumentato la distanza siderale che i consumatori percepivano già da anni. A prescindere dagli ultimi casi di cronaca – per completezza d’informazione Tod’s ha dichiarato giovedì scorso in una nota che «la società sta ora esaminando con la stessa tranquillità l’ulteriore materiale prodotto, con preoccupante tempismo, dal dottor Storari» – sembra finito il tempo nel quale il cliente era “aspirazionale” e quindi metteva operosamente da parte un po’ al mese per poi potersi concedere come premio una borsa o una scarpa, e conservarli poi con cura per una vita intera, quei prezzi astronomici rendono quell’aspirazione impossibile, e nel magma populista e popolare che ne risulta sui social è facilissimo e quasi seducente lasciarsi conquistare dall’idea che il fast fashion sia quanto meno più onesto nelle sue premesse teoriche. 

Troppo poco, troppo tardi

Confindustria Moda sta lavorando ormai da qualche mese a controlli della filiera più stringenti, e in questi giorni è presente alla ventunesima conferenza generale UNIDO (Agenzia delle Nazioni Unite che vuole accelerare lo sviluppo sostenibile), che poi quest’anno è ospitata a Riyad, in Arabia Saudita (sempre per la storia della mappa della moda che sta cambiando, per caso o per preciso intento, punti cardinali). Il presidente di Confindustria Moda Luca Sburlati ha parlato delle misure che la Federazione sta portando avanti. Tra le principali, si legge nel comunicato, c’è «un sistema armonizzato per garantire il controllo sulla supply chain, la promozione di normative nazionali che tutelino i lavoratori e la difesa delle filiere italiane da mercati che non rispettano gli standard minimi di tutela umana e ambientale». Il problema è che sembra tutto troppo poco, troppo tardi. Nel frattempo da Kering si è agli inizi dell’era De Meo, nuovo über amministratore delegato che ha promesso un nuovo corso per risanare il gruppo francese che possiede brand come Gucci, Balenciaga e Saint Laurent: dimezzare i tempi di produzione, ridurre la centralità del direttore creativo, e snellire l’apparato monumentale creatosi negli anni delle vacche grasse (e quindi, licenziare). Sarà un face lift di proporzioni massicce, che cambierà faccia al secondo conglomerato del lusso più grande al mondo nel tentativo di renderlo di nuovo attraente, capace di moltiplicare borsette e dividendi. Chissà se per allora, sarà sufficiente a invertire la rotta di un mercato che pare stia preparandosi a solcare altri mari.

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