Sembra incredibile, ma esiste ancora chi diffida degli artisti che delegano ad altri la produzione delle loro opere. Non soltanto è una cosa normale, che facevano anche i grandi maestri del passato (a questo servivano le botteghe), ma dovrebbe ormai essere chiaro che a fare di un artista un artista non è la sua abilità tecnica, ma il suo cervello.
È risaputo che Damien Hirst sia circondato da un team di persone che realizzano per lui le sue opere. Dai quadri con i puntini (i famosi “Spot Painting”) fino alle monumentali statue dell’ultima mostra a Venezia, passando per i vari animali conservati nella formaldeide e i teschi umani tempestati di diamanti, Hirst non ha quasi mai toccato una delle sue opere (e meno male, perché quando ha provato a dipingere con le sue mani ha prodotto questo). Qual è il problema? Nessuno. Damien Hirst è uno dei più importanti artisti viventi: le sue opere migliori sono riuscite a parlare in un modo mai visto prima di morte, tempo, violenza, paura, ambizione, malattia, fragilità, potere.
La prova schiacciante di tutto ciò è la mostra delle opere (brutte) dei suoi assistenti. Si chiama Winter Blues e ha inaugurato ieri a Islington, Londra. Così ne ha parlato la curatrice a It’s Nice That, peggiorando la situazione: «Nel corso della mia formazione e della mia carriera artistica ho incontrato un sacco di persone stimolanti, di grande talento. Se penso alla società moderna, dove la gente può ottenere milioni di dollari e fama internazionale solo perché è capace di farsi un buon selfie, mi sembra assolutamente incredibile che queste persone non siano state ancora riconosciute». A giudicare dalle loro opere, non sembra poi così incredibile.