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Cosa è rimasto dell’antiberlusconismo

Riabilitato persino da Prodi e De Benedetti, in cosa si è trasformata negli ultimi anni l'opposizione culturale e politica al Cavaliere?

di Ferdinando Cotugno

Silvio Berlusconi ad Hammamet, Tunisia, nell'agosto 1984. Foto di Umberto Cicconi/Getty Images

Verso l’inizio di Selvaggi di Carlo Vanzina (1995) Cinzia Leone sbotta in modo memorabile col marito, Antonello Fassari, impiegato con maglietta di Che Guevara: «Ancora con ‘sto Berlusconi, Mario? Mario, sei noioso, Mario, tu mi preoccupi, tu sei monotematico. Appena arriviamo a casa, io ti porto dritto dritto dallo psicanalista della Usl, e sì, Mario perché tu sei un caso patologico, sei una caso paranoico!». La caricatura era accurata, ed era arrivata anche prima del ritratto, perché in fondo Berlusconi aveva governato solo otto mesi e l’anti-berlusconismo era ancora ai primi vagiti, una cosa da salotti e università, con un solo social a disposizione: i fax. E soprattutto non sapevano, e non sapevamo, quanto sarebbe stata duratura l’ossessione monotematica dei Mario Nardone, quanto avrebbe saputo cambiare forma, mezzi, piazze, rimanere uguale a se stessa, prima di estinguersi per consunzione. Sono passati venticinque anni e forse, forse, abbiamo voltato pagina.

In pochi giorni tre avversari storici hanno deposto le armi. Romano Prodi. Bill Emmott, direttore dell’Economist che lo dichiarò «unfit to lead Italy». E Carlo De Benedetti, ex editore di Repubblica. «È proprio sul suo quotidiano, con gli editoriali di Scalfari, che si inaugura l’anti-berlusconismo, nel 1993, prima della sua discesa in campo», ricostruisce Giovanni Orsina, storico che nel 2013 ha scritto Il berlusconismo nella storia d’Italia e che forse si troverà ad aggiungere un altro decennio al libro. «C’erano le ruggini della guerra di Segrate, ma la delegittimazione era una pratica consolidata da decenni. In nome di un’idea ampia di antifascismo, erano fascisti tutti i fenomeni conservatori che bloccavano il progresso. Scelba, Fanfani, Cossiga, Craxi, persino il PCI visto da sinistra. E quindi Berlusconi». La voce popolare di questo riflesso furono i fax, che erano già operativi come coro pubblico di sostegno a Mani pulite e si scatenarono contro il «decreto salvaladri» del ministro Alfredo Biondi, scomparso di recente. «C’era nei salotti italiani questa idea generale che Berlusconi fosse un fenomeno transitorio, da annegare da cucciolo».

Spoiler: non funzionò, anche se in mezzo ci furono quattro governi di centrosinistra: Prodi, D’Alema I, D’Alema II, Amato, prima del ritorno del Cavaliere, nel 2001. Ed è curioso che l’antiberlusconismo maturo nasca a Firenze, nell’inverno 2002, sette anni prima che diventasse la città di Renzi, fondandosi su un equivoco. Era la marcia dei professori, di Francesco «Pancho» Pardi e Paul Ginsborg, con la quale si afferma la mistica del ceto medio riflessivo, prologo dei girotondi, di Nanni Moretti che urla a Piazza Navona: «Con questi dirigenti non vinceremo mai». L’equivoco era proprio il ceto medio riflessivo. Dice Ornella De Zordo, docente di Letteratura inglese, tra gli organizzatori della marcia di Firenze: «Era una traduzione forzata dall’inglese, il ceto medio era riflessivo non perché pensava, ma perché reagiva. Sarebbe stato più corretto dire: ceto medio reattivo, invece è passato alla storia come il ceto medio pensante, colto». Insomma, erano sicuramente colti, ma non era questo il punto.

De Zordo, che c’era, e Orsina, che l’ha studiato (non senza avversione), concordano su un fatto. Orsina: «I girotondi erano più contro la sinistra che contro Berlusconi, accusata di essere debole, fiacca, vuota». Un dialogo non facile: D’Alema, presidente dei DS, nel 2002 disse: «Loro sono la protesta, ma noi siamo la politica», e preferì la festa di Mastella a Telese. Fu comunque una stagione a modo suo memorabile, lanciò quelle che Moretti avrebbe definito: «Impreviste carriere politiche», che infatti planarono subito. Pardi divenne senatore dell’Italia dei Valori, Ginsborg tornò a studiare, Moretti girò Il Caimano, già più distaccato e lucido rispetto a Piazza Navona, De Zordo ha fatto politica locale, ora è vicina a Potere al Popolo. «Ci siamo divertiti tantissimo», dice lei, «anche se forse non dovrei usare questo verbo. È stato un laboratorio, ma fin dalle prime settimane denunciavo il problema: Berlusconi è stato il nostro tappo, avremmo dovuto mirare al capitalismo, non alla variante italiana». Un altro mondo forse era possibile (erano gli anni di Genova, dei Social Forum), ma in generale si preferì immaginare un’Italia senza Berlusconi o almeno una sinistra in grado di batterlo. Curiosamente: abbiamo avuto entrambe, non sono piaciute troppo.

Flash forward alla terza epoca berlusconiana, che vede il momento più alto del Cavaliere in politica (il 25 aprile festeggiato a Onna colpita dal sisma) e il più basso (la vergini offerte al drago denunciate dalla sua poi ex moglie dopo la festa di Casoria). Per l’opposizione è un’epoca completamente diversa, più contemporanea, più feconda di conseguenze pratiche. Dopo i fax e le e-mail di convocazione dei professori, c’è finalmente Facebook: qui viene organizzato Il Popolo Viola, che celebra nel 2009 il No Berlusconi Day in Piazza San Giovanni. Un anno prima c’era stato il No Cav Day, anello di congiunzione del primo e del secondo antiberlusconismo, la piazza di MicroMega e Beppe Grillo. Nanni Moretti già li odiava tutti. In un incontro a Fiesole dice: «Sono avvilito, sono frastornato, hanno sporcato i girotondi». C’erano tante red flag, in quelle due piazze, c’era il futuro, Moretti era preoccupato: «Come si fa a invitare Grillo, che ha insultato tutto e tutti allo stesso modo, “topo gigio, psiconano” ma cos’è? Devo ridere, che roba è?». Questa timeline oggi ci lascia una grande domanda di fondo: se ci sia una sola linea, che porta dal popolo dei fax ai girotondi, dal No Cav Day al Movimento 5 Stelle. «Per me assolutamente sì, i girotondi hanno fatto danni disumani», dice Orsina, «sono stati una profezia che si auto-avvera, la loro denuncia dei malfuzionamenti della politica non ha fatto che amplificarli. Grillo ha raccolto il testimone e ha aggiunto la cattiveria». L’antiberlusconismo ha incubato una parte del populismo italiano. In questo, il fondatore dei Cinque Stelle è stato ceto medio riflessivo nel significato concepito da Ginsborg: reattivo. Nello stesso contesto di reazione, e nella finestra tra il No Cav Day e il No Berlusconi Day, viene lanciato in edicola Il Fatto Quotidiano, simbolicamente dedicato a due avversari del Cavaliere: Enzo Biagi (il nome, omaggio alla trasmissione colpita dell’editto bulgaro del 2002) e Indro Montanelli (il logo, che richiamava quello della Voce). Nel primo editoriale, il direttore Antonio Padellaro enuncia una linea politica figlia di quella stagione, un manifesto girotondino. «Il Fatto sarà un giornale di opposizione. A Berlusconi, certo, perché ha ridotto una grande democrazia in un sultanato degradante. Ma non faremo sconti ai dirigenti del Pd e della multiforme sinistra che in tutti questi anni non sono riusciti a costruire uno straccio di alternativa».

Per Massimiliano Panarari, sociologo e autore (con Guidi Gili) di La credibilità politica: Radici, forme, prospettive di un concetto inattuale, l’antiberlusconismo è stato un’epoca di «slittamenti, con i lemmi che si aprono come scatole che possono contenere tutto e passare facilmente di mano». È un’idea affascinante, perché ci porta a un’altra bandiera in procinto di essere ammainata insieme all’anti-berlusconismo: la purezza della magistratura, un’idea alla quale hanno creduto figure consapevoli e rispettabili. Le prime parole girotondine furono del procuratore generale di Milano, Francesco Saverio Borrelli: «Resistere, resistere, resistere». I girotondi lo prendono in parola e proteggono il Palazzo di Giustizia. «Slittamenti: il giustizialismo di Nanni Moretti è figlio della questione morale di Berlinguer», dice Panarari, «La società civile, fuori dalle liturgie antiche, aveva un grande desiderio: che qualcuno facesse in fretta. È così che nasce il partito dei giudici, perché la magistratura libera un campo, ma non può occuparlo, qualcuno lo deve fare per lei, e quel qualcuno è il Movimento 5 Stelle». Il resto è storia di oggi: non solo la pax berlusconiana, ma anche il caso Palamara («Chi può credere oggi alla storia della magistratura che restituisce moralità dopo una cosa del genere?», si chiede Orsina) e il mistero dell’audio rubato al giudice Amedeo Franco, che mette in discussione l’unica sentenza definitiva contro Berlusconi. Si potrebbe azzardare che è tutto finito, i duellanti possono riposarsi. A questo punto rimane una sola domanda, alla quale Enrico Vanzina, sceneggiatore di Selvaggi con suo fratello Carlo (scomparso due anni fa), forse avrebbe risposte interessanti: per chi vota oggi Mario Nardone?