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L’alter ego di Angelo Flaccavento

Il giornalista, firma de Il Sole 24 Ore e Business of Fashion, inaugura la sua prima mostra di disegni da Marsèll Paradise, a Milano. Con lui abbiamo parlato di spazi creativi, avatar digitali e della differenza tra scrivere di moda e disegnare.

Si intitola Le avventure di Ubi M. ed è l’esposizione che inaugura lunedì 21 marzo negli spazi di Marsèll Paradise a Milano. La mostra raccoglie i disegni di Angelo Flaccavento, giornalista e critico di moda già firma de Il Sole 24 Ore e Business of Fashion tra gli altri, alla sua prima volta ufficiale nella veste di disegnatore. Chi lo segue su Instagram, dove è @poeticallypunk, conosce già i suoi disegni, che popolano il suo account al posto di quei contenuti (sfilate, location di lusso, la polemica del giorno) che ci si aspetterebbe da uno dei giornalisti più riconosciuti del settore. Chi è abituato a leggerlo, invece, riconoscerà nei suoi disegni la stessa capacità di racconto – anche nei titoli come “Combusto”, “Tout cul”, “Caldazza” e “Doccetta” – e l’ironia precisa che contraddistingue la sua scrittura. Ubi M. è “una beata minchia”, un delizioso fallo antropomorfo che si ritrova nelle situazioni più disparate: la mostra è il risultato di due anni passati a disegnare (sì, ha iniziato nel 2020), riscoprendo una passione antica e allo stesso tempo un nuovo canale di ispirazione, come ci racconta in quest’intervista.

Raccontami com’è nato questo progetto, dal libro alla mostra.
La mostra come progetto è nata in realtà con un messaggio diretto alla fine dell’estate del 2021 da parte di Loris Moretto e Massimiliano Monteverdi, che lavorano per Marsèll, che è un marchio che da sempre supporta le arti in varie forme [di Marsèll abbiamo parlato sul numero 48 di Rivista Studio]. Quella di fare una mostra con i miei disegni era un’idea che mi aleggiava in testa già da tempo, ma non sapevo bene come avrei potuto realizzarla, soprattutto perché non mi considero un artista, quindi avevo un po’ di remore. Da lì è iniziato un dialogo. L’ultima cosa a venir fuori è stato il titolo, Le avventure di Ubi M., sempre con l’idea che questo lavoro grafico fosse non l’opera di un artista che si ritiene tale, ma qualcosa di spontaneo che coltivo quotidianamente. Volevo anche un titolo che riflettesse il mio sense of humor, che cerco di instillare in tutto quello che faccio, a cominciare da come mi vesto. E quindi alla fine visto che “questa minchia” è la protagonista di molte scene, ho pensato di voler dedicare a lei questo racconto. Naturalmente non volevo esplicitarlo. I disegni che ho accumulato negli ultimi due anni sono ben oltre il migliaio, di varie forme e dimensioni, dal santino fino al foglio A5, anche se di base sono tutti molto piccoli. Un giorno avevo disegnato un fallo antropomorfo con un’aureola e ci avevo scritto sotto “Ubi M.” appuntato. Questo in un’altra grafia potrebbe essere il titolo, ho pensato, così l’ho proposto a loro e l’idea è piaciuta.

“Sbocciolo”, Le avventure di Ubi M., Angelo Flaccavento

Che rapporto c’è tra il giornalista e il disegnatore?
Sicuramente è un po’ uno sfogo, è una parte legata al mio Io più spontaneo. Diciamo che nella vita mi è capitato in sorte di fare per lavoro quello che facevo in maniera accessoria, e di fare in maniera accessoria quello che avrei voluto fare per lavoro. L’abilità grafica, nel mio caso, si è sviluppata sin da bambino molto prima della scrittura. Ok, la scrittura poi è stata un’attitudine che è venuta fuori subito sin dalle elementari, ma la mia vera vena creativa si è sempre espressa disegnando. Diciamo che nella mia esistenza ho sempre disegnato in maniera periodica. Potevo farlo per due anni e poi smettere per tre e poi ricominciare esattamente dove avevo lasciato. E questo è stato uno di quei casi perché avevo smesso di disegnare suppergiù intorno alla mia alba professionale di giornalista. Avevo anche illustrato dei miei pezzi per Tank nei primi anni 2000 e l’ho fatto anche successivamente. Diciamo che poi la vena si era un po’ seccata. È rimasta lì, stranamente, fino all’inizio di quel fatidico 2020: mi era tornata la voglia di disegnare ed era spuntata a gennaio, che per chi fa il lavoro di critica di moda sul campo è il periodo peggiore, perché si è sempre in giro fino a marzo. Tornato a Ragusa dopo le sfilate avevo comprato della carta per disegnare, non sapendo che da lì a qualche giorno non avrei più potuto uscire di casa. Per me questa mostra è, in parte, il frutto di un lockdown, non mi sono messo a cucinare ma ho fatto qualcosa che per me era produttivo.

Come cambia l’approccio nell’esprimersi con le parole e nel farlo invece con matita e carta da disegno (a proposito, su cosa lavori? I tuoi disegni hanno una bellissima “porosità”)?
La carta è sempre carta di cotone. La mia carta preferita è quella della Cartiera Amatruda, che ho scoperto con piacere essere una delle botteghe selezionate dal progetto di Bottega Veneta lo scorso Natale. È una carta che ha una certa texture quindi utilizzando gli inchiostri che uso io e i pennini giapponesi da manga, ultra sottili, si crea un rapporto molto “fisico”. Considero i disegni una sorta di oggetto tridimensionale, nel senso che per me la materia che si forma sulla carta, graffiandola, facendo altre attività, è importante almeno quanto il segno che traccio. Utilizzo spesso carta ruvida, quindi non quella per la china, che invece prevederebbe la carta liscia. Poi più disegnavo più sperimentavo tecniche, all’inizio utilizzavo i classici timbri da catasto, poi ho rispolverato una tecnica che tutti abbiamo utilizzato alle scuole elementari o all’asilo, ovvero il pastello a cera dato in maniera uniforme su tutta la carta e ricoperto con uno strato di china da asciugare e poi graffiato. Da bambini lo facevamo col pennino, io invece ho comprato un bulino da incisione che è uno strumento spaventoso con una punta di acciaio capillare: il disegno diventa una sorta di “graffio” che si vede solo in certe condizioni di luce. La mia tecnica di elezione sarebbe in realtà l’incisione, ma non ho una formazione da liceo artistico o scuola d’arte. Quella che mi ispira è proprio quel tipo di ritratto duro, per questo cerco molto spesso di riprodurre l’incisione in altre forme.

“Svetta”, Le avventure di Ubi M., Angelo Flaccavento

Quando disegni solitamente? Leggendo la descrizione del progetto ho immaginato fosse per te quasi un atto compulsivo più che qualcosa di meditativo.
Essendo abbastanza scrupoloso, lo faccio generalmente di sera quando finisco di lavorare. In realtà, quando mi viene voglia di disegnare, e può avvenire in ogni momento, poi devo farlo immediatamente. Qualche giorno fa riguardavo uno dei libri che stanno sempre sul mio comodino, Suite 347 di Picasso, che è una raccolta di 347 incisioni che l’artista realizzò nel ’68 in maniera continua nello spazio di pochi mesi. Incideva furiosamente ogni giorno una o due lastre che dava poi ai suoi stampatori di fiducia e in queste lastre, che sembrano dei disegni a china, c’è una varietà di scene e di tecniche che mi ispira tantissimo. Un giorno ho pensato a un corpo che mi sarebbe piaciuto disegnare e l’ho fatto subito, interrompendo quello che stavo facendo. Però sono anche abbastanza veloce a farlo, a parte quando devo preparare il fondale. E per me quanto più questo processo è rapido, meglio è, perché se affronto il foglio bianco come uno schizzo vado tranquillo, mentre se immagino che debba essere un disegno “bello”, qualunque cosa significhi, mi blocco. 

Forse perché sei condizionato a vedere il foglio bianco come qualcosa da riempire con le parole?
Sì, è esattamente quello stesso tipo di scrupolo e desiderio di performare bene che hai quando scrivi, assolutamente.

I tuoi disegni compaiono sempre sul tuo profilo Instagram, dove hai costruito un racconto di te alternativo, in qualche modo, a quello della tua professione. Immagino una scelta voluta, ma devo chiedertelo: è un modo per tenere la moda, e il tuo lavoro “ufficiale”, fuori dal tuo avatar digitale?
Sì, diciamo che la “trasformazione” in gallery di disegni è stata un processo organico e spontaneo che è coincisa con il momento in cui ho ripreso a disegnare. Anche prima, in realtà, il mio Instagram aveva poco a che fare con la mia attività professionale, so che magari può essere considerata una scelta sbagliata o poco fruttuosa, ma non ho mai pensato che Instagram dovesse essere un veicolo per strombazzare la mia vita. Innanzitutto perché Instagram comunque è una grandissima fiction per tutti noi ma è anche una fiction che “chi guarda” può credere reale. Trovo molto poco corretto far pensare che il “lifestyle” di un giornalista [che lavora nella moda, ndr], tra viaggi e hotel a cinque stelle, sia una cosa reale. I nostri viaggi molto spesso sono pagati dai marchi che ci invitano. Mi sembra che tutte queste cose restituiscano un’immagine fuorviante [della professione, ndr], che non mi piace molto. Mi interessa il lavoro della scrittura, dell’osservazione, della critica, della lettura del presente, ma tutta questa fanfara che sembra dare importanza a delle cose che neanche sono nostre, non mi interessa molto.