E potrebbe non essere un male: finalmente un po' di coraggio in una fashion week a cui mancava ormai da diverse stagioni.
Prima dell’inizio della sfilata tra le più attese della fashion week parigina, quella di Dior firmata da Jonathan Anderson, gli invitati – il gotha della moda ma pure tante attrici del calibro di Jennifer Lawrence ed Emma Stone, Greta Lee e Charlize Theron – hanno assistito alla visione di un corto firmato dal documentarista britannico Adam Curtis, uno che si è poco o niente occupato di moda e molto invece di come il potere e la paura si esercitano storicamente sulle società (ed è strano che questo corto non sia arrivato prima, perché a modo suo, in maniera subliminale, la moda esercita il suo potere tramite le immagini e un marketing privo di qualunque vergogna).
Sullo schermo triangolare si susseguono immagini del passato della maison e del suo retaggio, questione tutt’altro che di poco conto. Se nella sua prima sfilata – quella per la collezione maschile, andata in scena a luglio e che ha incontrato plausi più o meno unanimi – la questione relativa agli avi e ai progenitori stilistici era stata evitata con leggerezza, in questo caso Anderson ha deciso di affrontare a viso aperto le ombre che si stagliano su di lui, i paragoni e i metri di giudizio che saranno usati per definire il suo debutto un successo o qualcos’altro: c’è Monsieur Dior, certo, ma pure le sfilate di Maria Grazia Chiuri, di Kris Van Assche e Kim Jones, Raf Simons e Gianfranco Ferré, inframezzate dalle immancabili sarte e i bei défilé di un volta, tutti abiti da sera e da cocktail. Non manca neanche John Galliano, e le sue roboanti uscite a fine sfilata, con quella più celebre nella memoria collettiva degli addetti ai lavori: il John Galliano in tuta spaziale. Un urlo hitcockiano interrompe il fluire nostalgico dei ricordi, le immagini si succedono con un ritmo forsennato, la colonna sonora si interrompe, sembra diventato di tratto un incubo. E poi, inizia la sfilata.
Dior and I
E forse è già tutto qui, il motivo del successo di Jonathan Anderson presso gli addetti ai lavori, di cui rappresenta il figlio prediletto già dai suoi esordi con il suo brand e poi da Loewe, marchio di borse nato quasi 180 anni fa che l’irlandese ha trasformato in un successo commerciale e pure di critica. Perché Anderson, un po’ come Warhol, ironizza su miti e mitologie, ammette implicitamente, grazie all’aiuto di Curtis, di trovarsi in una posizione invidiabile ma con un peso sulle spalle che farebbe crollare molti (e che ha fatto crollare pure Raf Simons, per chi si ricorda di averlo visto in lacrime nel documentario Dior and I). Nel comunicato stampa diramato dal brand dopo la sfilata, l’obiettivo dichiarato con il video – e con la conseguente collezione– è quello di fare i conti con la propria storia, decodificarne i linguaggi, divenuti parti dell’immaginario collettivo, e poi infilarli in una scatola, non per cancellarli, ma per conservarli, guardando avanti.
E guardando avanti, l’obiettivo sembra chiaro: tornare ad abitare le strade, adagiarsi su corpi di clienti forse più giovani. Si spiegano così i denim morbidi e le minigonne con motivi presi dalla sartoria maschile, gessati e micro check: capi che arrivano da un guardaroba quotidiano, quasi ordinario, del quale Anderson vuole mostrarci il lato giocoso, abbinandoli a un tricorno dalle fattezze piratesche. Ci sono molte Bar Jacket ridotte nelle proporzioni, appaiate alle minigonne a pieghe, oppure con la baschina trasformata in un maxi fiocco; ci sono i vestiti con linea ad A fatti da petali ricamati (richiamo dichiarato all’abito Junon del 1949); non mancano le stampe floreali traslate su camicie e short, a ricordare l’ossessione del fondatore per il giardinaggio appreso sin dalla più tenera età dalla madre, con la quale partecipava all’annuale festival dedicato nella natale Granville.
Un ripasso del vocabolario “secondo Dior” a cui si aggiunge la firma stilistica di Anderson, che si auto cita, riportando in scena sue ossessioni del passato, così come elementi già apparsi nella sua sfilata maschile, dai papillon in velluto alle maxi cappe, passando per le gonne con il tessuto che sembra accartocciarsi sui lati, come in un origami couture, e che sono contrappunto dei pantaloni cargo andati in passerella a luglio.
Il metodo e il merito
Non tutto però è riuscito alla perfezione: il punto vita si abbassa – forse come si spera si abbassi l’età media delle compratrici – confezionando volumi infelici. È il caso dei vestiti con pannier – che avevamo visto già indosso ad Alba Rohrwacher alla Mostra del cinema di Venezia. Una costruzione, quella con il pannier, il cui obiettivo già dal Settecento era esasperare i fianchi. Purtroppo, nella vita reale del 2025, e non sui red carpet, o nella corte di Versailles, sono semplicemente una cattiva idea su quasi qualunque fisicità.
Il principale problema forse è nell’approccio metodologico di Anderson, abituato per conformazione professionale all’astrattismo, al gioco tessile che finisce per diventare manipolazione corporea: a volte funziona, altre sembra un progetto concepito da uno zelante studente di qualche scuola d’arte più interessato a creare sculture concettuali che a lavorare su corpi il cui obiettivo principale rimane vivere il proprio quotidiano, andare al lavoro o ad un appuntamento galante, possibilmente sentendosi eleganti, o semplicemente a proprio agio nei vestiti che si indossano (e con le cifre che probabilmente appariranno sugli scontrini, sembra una richiesta oltre modo ragionevole). Christian Dior ha d’altronde fatto sempre quello, guardando a silhouette del secolo passato: far sentire le donne, anche quelle che non erano celebrity o divinità del red carpet, all’interno di un film di cui erano indubbiamente le protagoniste principali, senza mai ammantare di un’aura intellettuale le sue creazioni (anche perché non ne avevano bisogno, erano dei piccoli miracoli di ingegneria artigianale a cui non serviva la validazione di nessuno).
E mentre la nuova donna Dior sfila, risuonano nella stanza le parole di “She Walks in Beauty”, poesia di Lord Byron del 1815, declamate da Marianne Faithfull (una composizione presente nell’omonimo album del 2021 realizzato insieme a Warren Ellis). Il componimento originale fu ispirato al poeta dall’incontro con Anne Beatrix Wilmot, moglie di suo cugino che Byron incrociò per la prima volta a una festa a Londra, rimanendo incantato dalla sua bellezza. In fondo anche Anderson, a modo suo, vuole far sentire le donne protagoniste di poemi ed epopee romantiche, invitandole a giocare con la sua visione, e con il proprio corpo. Se sarà l’inizio di una nuova storia d’amore o di un film di Hitchcock, ce lo dirà solo il futuro.