Il film, con protagonista Leonardo DiCaprio, arriverà nelle sale cinematografiche italiane il 25 settembre.
Amores Perros è un film che non si dimentica. Ha la rara dote di imprimersi tanto nell’immaginario collettivo quanto nel subconscio del singolo, forse per il ritratto palpabile di una Città del Messico che ribolle di passione e rabbia, forse per la struttura corale tripartita, forse per il titolo iconico, di sicuro per tutta quella violenza inflitta ai cani. Eppure Sueño Perro, la mostra a Fondazione Prada visitabile fino al 26 febbraio che celebra il 25esimo anniversario del debutto di Alejandro González Iñárritu, chiede proprio di dimenticare il film che celebra per poter essere esperita.
Come le due precedenti collaborazioni di Iñárritu con la Fondazione, e forse più di esse, Sueño Perro è un ibrido difficile da etichettare. È più mostra di Flesh, Mind and Spirit (Seoul, 2009 e Milano, 2016), rassegna di 15 film selezionati dal regista, e meno narrativa di CARNE y ARENA (Milano, 2017), esperienza in realtà virtuale sull’immigrazione. Il sottotitolo la definisce Instalación Celuloide, una sintesi laconica ma forse la più calzante.
300 kilometri e 280 ore
Sette anni fa, Iñárritu scoprì che tutto il girato scartato in fase di montaggio del suo primo film era stato conservato all’Universidad Nacional Autónoma de México. Fin qui nulla di eccezionale, se non fosse per la quantità del materiale: per arrivare ai 4500 metri di pellicola 35 mm che compongono le due ore e trentaquattro minuti di Amores Perros, ne furono tagliati oltre 300 chilometri, pari a 280 ore, che il regista ha impiegato sette anni per esplorare e riportare alla luce.
Il comunicato stampa parla di «poesia visiva delle immagini dimenticate»; Iñárritu di «un invito a percepire ciò che non è mai stato» e dell’«innocenza di forme incompiute». Il tutto assume anche una dimensione politica: Amores Perros uscì settimane dopo le elezioni che posero fine al dominio di un unico partito durato 71 anni, in un Messico in piena transizione. A esplicitare e articolare tale situazione vi è Mexico 2000: The Moment that Exploded, al primo piano della mostra, una raccolta di articoli e reportage curata dal giornalista Juan Villoro che ricostruisce il contesto storico dentro e fuori la pellicola.
Sueño Perro pare dunque voler restituire ciò che un film, immerso fino al collo nell’ecosistema che rappresenta, racchiude accidentalmente: «frammenti […] messi a nudo: nessuna storia a mascherarli», come la mette Iñárritu stesso. Se non fosse che, nella pratica, gran parte degli spezzoni proiettati sono double take quasi identiche alle scene del montaggio finale. Avendolo rivisto la sera prima della mostra, ho spesso provato un senso di déjà vu, l’opposto delle «forme incompiute» e del «ciò che non è mai stato» evocati dal regista. Certo, la pellicola grezza, senza color grading e tagli, svela una nuova estetica e retroscena affascinanti – dal titolo embrionale Amor y Rabia sui ciak ai preparativi per l’impressionante scena dell’incidente stradale. Più ancora che nel film stesso, i protagonisti sono i cani, la cui imprevedibilità animale, a differenza degli attori, rende ogni scena scartata interessante. In un frammento si azzannano davvero e aggrediscono gli attori, in un altro smettono di lottare per accoppiarsi o fanno i bisogni nella ciotola del cibo. In ogni caso, sono l’unico elemento che esula dal controllo umano, l’unico davvero rivelatorio, dato che per il resto la fitta narrazione impregna e subordina anche ogni scena tagliata.

Un film dentro un film
«Quanti film esistono dentro un film?», ci chiede il regista nell’introduzione alla mostra; nel caso di Amores Perros, la risposta è: uno. Iñárritu non inseguiva altro che la sua storia: che il film sia oggi così evocativo dipende dalla regia viscerale, dalla fotografia tattile di Rodrigo Prieto e dal suo collocarsi in un momento cruciale della storia messicana, non da un’intenzione documentaria del regista. Basta confrontarlo con un altro esponente del cinema messicano, Alfonso Cuarón, che dal rivelatorio Y Tu Mama Tambien (2001) all’elegiaco Roma (2018) ha fatto del worldbuilding la sua firma. In una mostra come Sueño Perro, il materiale inedito di Cuarón avrebbe valore evocativo indipendente dalla trama; non è questo il caso di Iñárritu.
Paradossalmente mi sono trovato a pensare che sarebbe stato meglio non rivedere il film prima di visitare l’esposizione che nasce per onorarlo. Ed è a questo punto che ho capito che, per quanto controintuitivo, Sueño Perro non vuole onorarlo, ma distaccarsene. Che non è un’appendice o “contenuto speciale” di Amores Perros, ma un’entità a sé stante: una mostra d’arte. Serve uno sforzo iniziale per vederla come tale, ma solo così si può spostare l’attenzione dalle scene proiettate alla proiezione stessa, fenomeno fantascientifico a cui non siamo più abituati e che a Fondazione Prada è in mostra tanto quanto il girato. In questo senso è arte: non solo trasmette contenuto, ma si presenta in primis come medium a sé, e solo così la mostra funziona.
Se le immagini sono forti e richiamano i momenti più memorabili di un film ancora più forte, altrettanto magnifici sono gli enormi proiettori Kinoton, la pellicola che sfreccia tra gli ingranaggi, il loro rumore squisito da orologeria, i raggi di luce resi palpabili dal fumo diffuso nelle sale, che ricreano un ambiente onirico più simile alla biblioteca quadridimensionale di Interstellar che a una comune sala cinematografica. Sullo sfondo di una cacofonia urbana registrata nell’habitat di Città del Messico, fasci luminosi disegnano lo spazio come elementi architettonici, si incrociano e lampeggiano, creando un paesaggio astratto nel quale i macchinari sembrano apparizioni terrene, come Cooper nella Loggia Nera di Twin Peaks. I proiettori, infatti, non sono nascosti nelle pareti ma occupano il centro delle stanze, esposti come opere d’arte, spediti da Locarno proprio come prestiti da una collezione museale.

Cinema miracoloso
Amores Perros diventa allora pretesto per mettere in scena e rendere protagonista il fenomeno che lo rende esperibile. Come il Mont Sainte-Victoire di Cézanne o le Cattedrali di Rouen di Monet, che ritornano ossessivamente per richiamare l’attenzione sul piano materiale della tela o sull’impressione retinica, così Iñárritu ritorna al film che l’ha consacrato per celebrare il miracolo del cinema. Quindi se, di fronte all’ennesima sequenza ripetuta, vi sorprenderete a seguire le volute di fumo illuminate e avrete la tentazione infantile di toccarle, invece che osservare immobili le riprese come gli educati appassionati di cinema che siete, non sentitevi in colpa, anzi: siete sulla strada giusta. È Iñárritu stesso che, presentando la mostra, ha incoraggiato un’esperienza «sensoriale e fisica» e letteralmente a «giocare con le ombre».
«Non mi piace rivisitare il passato. […] Il film è fatto. Non mi piacciono gli omaggi, le director’s cut sono stronzate». Così, prima di posare il microfono e inaugurare la mostra, il regista sancisce oltre ogni dubbio che Sueño Perro non è un tributo autoreferenziale ad Amores Perros, ma un’ode alla «bellezza del cinema e delle sue macchine, perché stanno per scomparire».

Vincitore del Premio Speciale della Giuria alla Mostra del cinema Venezia, il nuovo film di Rosi, appena arrivato nelle sale, riesce dove tanti in questi anni hanno provato e fallito: raccontare Napoli in modo diverso.

Dalla vita ha avuto tutto: fama, bellezza, successo, ricchezza, riconoscimento. Ma erano altre le cose che gli importavano: la democrazia, il cinema indipendente, le montagne dello Utah, e opporsi a un'industria che ormai disprezzava.