Non ci avrebbe scommesso nessuno ma la transizione ecologica europea sta funzionando

La notizia più importante e meno festeggiata di questi giorni è che il Green Deal in Europa procede e anche molto bene, nonostante il rigurgito antiambientalista degli ultimi anni.

14 Luglio 2025

La notizia più importante per quanto riguarda la riapparizione della nostra ecoansia da caldo e fulmini di questi giorni era stata diffusa con una nota stampa persa nel rumore di fondo, alla fine di maggio, quando le temperature erano miti e la pioggia sembrava solo pioggia. Noi eravamo come sempre occupati a fare altri piani, e la notizia non è apparsa sulle prime pagine, né aveva superato la membrana permeabile delle rassegne stampa, il rito laico di cittadinanza digitale attraverso sappiamo tutto quello che c’è da sapere sul mondo. Quella mattina di Trump e Putin, dell’ennesimo terribile femminicidio italiano, dell’attesa per la finale di Champions League. La nota stampa era stata diffusa dalla Commissione Europea e conteneva una buona notizia, proprio bella, per una volta, ma uno dei drammi della nostra vita è che le cattive notizie arrivano con l’eloquenza senza mediazioni della tragedia, mentre quelle buone somigliano più a delle PEC, sia per confezione che per linguaggio, e quindi nemmeno le apriamo. Però quella PEC andava aperta, perché conteneva informazioni importanti per la nostra ecoansia.

A fine maggio la Commissione aveva completato la valutazione dei piani nazionali energia e clima dei paesi membri, aveva fatto i suoi complicati calcoli e dai suoi complicati calcoli era uscito un risultato sorprendente: stiamo rispettando gli obiettivi di lotta ai cambiamenti climatici. Rispettarli non è una garanzia di sicurezza durante i temporali presenti e futuri, perché la termodinamica della Terra è troppo complessa e in parte (solo in parte) già compromessa, ma è comunque lo strumento migliore che abbiamo per non avere ondate di calore ancora più lunghe e downburst ancora più potenti.

L’impegno rispettato era quello di tagliare le emissioni di gas serra del 55 per cento al 2030. La Commissione, con la sua buona notizia travestita da cartella esattoriale, ci stava comunicando che hey, alla fine, continuando così, sbuffando e scalciando, arriveremo al 54 per cento al 2030. Insomma, europei: bravi. Rispettare quella tabella è uno dei più improbabili e imprevisti successi dell’era moderna. L’obiettivo era stato fissato dal Consiglio europeo nel 2020, pieno Covid, era il primo anniversario del Green Deal, la notte del negoziato era stata insonne, la Polonia terra di santi e carbone si era opposta fino alla fine. «Il nuovo obiettivo richiede un ripensamento complessivo di tutta l’economia europea in tutti i settori, per farcela il lavoro deve cominciare ora», scrivevano perentori e non proprio ottimisti i corrispondenti di Politico. Pat pat, proprio il genere di frase che ti fa pensare: questi non ce la faranno mai. Buona fortuna. E invece eccoci qui.

Ripensare radicalmente l’economia di paesi diversi tra loro come possono esserlo il Portogallo e la Polonia per più che dimezzare l’intensità carbonica continentale nel giro di un decennio cominciato con una pandemia e col crollo dell’economia era un progetto di dimensioni spropositate, per di più affidato a istituzioni con la stessa capacità di coinvolgere i cittadini di un ispettore sanitario. Ursula von der Leyen, quando era ottimista, riscuoteva un consenso trasversale e gli ingrati lupi tedeschi non le avevano ancora ucciso l’amato pony (è successo davvero, ma si è vendicata), aveva paragonato il Green Deal allo sbarco sulla Luna, con la notevole differenza che quelli erano gli anni ’60, l’ottimismo era di serie in ogni cittadino dell’occidente, e alla fine di tutto quel cammino di ambizione non ti veniva inviata una PEC multilingue, ma vedevi davvero un tizio della tua specie camminare sulla Luna, che fa molto più effetto di 440 milioni di tizi della tua specie che dimezzano in dieci anni la secolare e capitalista propensione alla combustione.

È questo il problema culturale del Green Deal: un decennio di sforzi, di investimenti, di trattative, una quantità abnorme di soldi spesi per raggiungere un obiettivo esistenziale come l’azzeramento delle emissioni, e poi nella tappa più ripida (questo decennio) scopri che ce la stai facendo, ma non importa più a nessuno. È un problema degli europei ed è un problema dell’Europa, un continente diligente e senza gioia. L’entusiasmo è un capitale politico che andrebbe coltivato come riserva a cui attingere per le future salite. Il 2 luglio è arrivata una seconda PEC: la Commissione, viste le raccomandazioni della scienza, ha proposto ai paesi membri un taglio del 90 per cento al 2040. Da due anni, una delle formule preferite dei dottorandi in politologia è green backlash: il rigetto anti-ambientalista che ha avvinto l’Unione in una nube di gilet gialli e nazisti anti pompe di calore. I fatti ci dicono che in Europa c’è ancora una vasta approvazione popolare per la lotta ai cambiamenti climatici, che le istituzioni stanno affrontando il problema con serietà, che l’ambizione è stata in parte smorzata, ma siamo ancora lì. Insomma, siamo arrivati in cima a una montagna ripidissima, nessuno ci ha detto nemmeno bravi, ed ecco una montagna ancora più ripida, ma invece di chiamare un elicottero, siamo ancora qui, a sbuffare a scalciare.

Questo articolo non vuole essere un elogio dell’Unione Europea, quanto uno sfogo per lo spreco che sarebbe smantellare il Green Deal ora, che ha nemici ovunque e sembra aver perso ogni alleato. Il nuovo obiettivo del 90 per cento è stato criticato dagli ambientalisti per una serie di clausole non ideali, come il 3 per cento di riduzione che può essere raggiunto in outsourcing, comprando dei crediti sui mercati internazionali. Non è una cosa bella, perché quel mercato di crediti negli ultimi anni ha visto un crollo di credibilità, è diventato l’equivalente climatico di un diplomificio per ripetenti, però il 3 per cento è una quota bassa e dal 2024 c’è l’ONU a supervisionare tutto. E poi è utile ricordare che dall’altra parte dell’oceano, Trump non sa più come dircelo che gli Stati Uniti da gennaio sono partner dell’apocalisse, l’unico fornitore a cui non metterebbero dazi: regole saltate, centri di ricerca chiusi, scienziati licenziati, fondi tagliati, accordo di Parigi cancellato, soldi per la cooperazione finiti, rinnovabili in un angolo. Non è nemmeno più negazionismo climatico, è che vogliono vedere il mondo bruciare.

La proposta della Commissione è passata al parlamento, dove è stata affidata al gruppo dei Patrioti, il gruppo di conservatori euroscettici e filo negazionisti che include anche la Lega, Orbán, Le Pen. Faranno di tutto per svuotarlo, indebolirlo, annacquarlo. Ma il problema non è cosa faranno Orbán, Salvini o Le Pen, il problema è se a noi importa davvero che quell’obiettivo rimanga tale, ambizioso e controcorrente rispetto agli Stati Uniti. Dobbiamo capire cosa vogliamo fare con la dissociazione che durante uno di quei temporali ci fa chiedere disperati se qualcuno ce l’ha un piano per questo mondo in frantumi, ma poi i piani veri (noiosi e illeggibili come tutti i piani) li ignoriamo, soprattutto quando funzionano. Perché l’Unione Europea un piano ce l’ha. Comunicato male, raccontato peggio, riluttante e imperfetto, ma ce l’ha. Col cambiamento climatico non esistono piani perfetti, ma esistono piani credibili per risolvere la parte di crisi che possiamo ancora mitigare.

Non possiamo capire questo snodo se non ci guardiamo intorno. A Est abbiamo la Cina, che sta cucendo la transizione sulle sue esigenze di dominio commerciale del mondo. A Ovest c’è Trump nella sua piena fase Nerone. In mezzo ci siamo noi, poco meno di un decimo delle emissioni globali ma in grado di indirizzare il resto del mondo. È sicuramente nel nostro interesse provarci: siamo il continente che si riscalda di più tra tutti i continenti. L’alternativa è spegnere il Green Deal, produrre auto a benzina fino a metà secolo, scegliere la via dell’obsolescenza programmata, diventare poveri e deindustrializzati in un pianeta sempre più invivibile, magari provare a vivere di turismo proprio mentre i turisti imparano a evitare i paesi più caldi. Oppure possiamo salire sulla seconda montagna, il 90 per cento al 2040, e poi la terza, il net zero al 2050. Sono montagne impervie, è faticoso, è difficile, la decarbonizzazione di un’economia grande come quella europea in trent’anni è una delle imprese più complesse che l’umanità abbia mai affrontato. Saranno anni interessanti, stimolanti, difficili, umidi e caldi: l’Europa non può pensare di fare questa transizione senza coinvolgere, economicamente ed emotivamente, gli europei. È per questo che quando stiamo rispettando impegni così importanti, è molto meglio farci caso.

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