Israele si è assuefatto alla violenza ben prima del 7 ottobre, per Anna Momigliano

Il libro Fondato sulla sabbia ripercorre la storia del Paese, le speranze disattese fino all'arrivo dell'estrema destra negli ultimi anni.

18 Giugno 2025

Un Paese di nemmeno 10 milioni di persone da tre anni occupa le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Più dell’America, della Russia, della Cina, dell’Ucraina o dell’Europa. Israele non è del tutto Medio Oriente e non è del tutto Occidente, ha una ricchezza unica per il contesto geografico e politico in cui si è insediato e vive da oltre 70 anni in uno stato di guerra più o meno ininterrotto. Anna Momigliano ha scritto una storia di Israele per fare un punto su un Paese che per decenni è stato descritto come “l’unica democrazia del Medio Oriente” ma che non è mai stato, a ben vedere, una democrazia a tutti gli effetti. Nel libro si parla di Palestina mandataria, di sionismo, di Nakba, di Intifada, di Olp, di Likud e di terrorismo. Non ancora di Iran: è uscito il 29 aprile 2025, gli attacchi israeliani alla Repubblica islamica non erano ancora incominciati. Ma si parla anche di cultura, di lingue, di cognomi, di tecnologia e di demografia. Si chiama Fondato sulla sabbia. Un viaggio nel futuro di Israele ed è uscito per Garzanti.

ⓢ Partiamo dal principio-principio. Israele è uno stato ebraico, ma venne fondato, scrivi, da persone atee. Theodor Herzl, il padre del sionismo politico, parlava di Judenstaat, uno “Stato per gli ebrei”. Ma oggi Israele è uno “Stato ebraico”. Quando arriva questo cambiamento fondamentale?
Herzl è il padre del sionismo come ideologia, però l’immigrazione sionista in Palestina inizia vent’anni prima di lui. Il fatto che lui, da intellettuale austriaco, abbia provato a codificare la cosa, non vuol dire che poi lui sia il demiurgo per tutti quelli che sono andati in Israele. Tanto che, appunto, la prima ondata migratoria è di prima che lui esistesse come intellettuale pubblico. Detto questo, cosa succede? Alla vigilia della nascita dello Stato di Israele Ben Gurion, che era il leader della comunità sionista in Palestina, deve giungere a patti con gli ultra-ortodossi, che a quel tempo erano parte dello Yishuv Yashan, la comunità ebraica che in Palestina che esisteva da sempre. Loro guardavano con sospetto l’idea di uno Stato, perché vedevano l’ebraismo come un’identità religiosa. Allora lui fa questo compromesso storico, per cui dice: voi ci fate fare questo Stato che non vorreste, ma noi vi diamo un amplissimo potere, un’amplissima autonomia sulle questioni di vita quotidiana, non solo strettamente religiose. E loro dicono di sì, a questo punto. Quindi al momento dell’indipendenza Israele dichiara: noi siamo uno Stato ebraico democratico.

ⓢ Nel libro spieghi l’importanza dell’esercito nella società civile di Israele: una tale importanza di un corpo militare nello Stato e nella società è qualcosa che in Europa non conosciamo da secoli, forse. Dal Medioevo, mi è venuto da pensare?
Secondo me la parola giusta inizia con “Med” ma non è Medioevo: è Medio Oriente. Si tende a vedere Israele come un corpo esterno al Medio Oriente, ma in realtà ha caratteristiche che sono molto in comune ad altre realtà mediorientali. Il ruolo dell’esercito come una cosa completamente centrale è altrettanto forte, se non in alcuni momenti storici ancora più forte, in Paesi come la Turchia o l’Egitto. Israele non è un’eccezione: noi lo paragoniamo alla Norvegia o all’Italia, ma forse questa cosa andrebbe un po’ rivista.

ⓢ Dedichi ampio spazio alla Grande rivolta araba del 1936. Questa è una data che si trova poco nei riassunti fatti dai media occidentali. Si parla di 1948, di 1967, tu invece fai capire come il 1936 fu una data cruciale e, probabilmente, sottovalutata. È quando nasce un movimento di liberazione arabo che vuole cacciare i nuovi arrivati.
Fin dall’inizio della migrazione ebraica in Palestina ci sono state forti tensioni. Il primo caso di sangue è stato il pogrom di Hebron del 1929, che però col senno di poi non lo leggiamo come una cosa legata al conflitto israelo-palestinese, magari era una cosa isolata come capitava un po’ in tutto il mondo. Nel 1931 nasce l’Irgun Tzvai Leumì, un gruppo terroristico sionista. Però con la Rivolta araba degli anni Trenta cambia qualcosa. C’era una migrazione di massa di ebrei in Palestina, a un certo punto i palestinesi dicono: noi non vi vogliamo qui. Questa cosa ha tre significati. Il primo è che è chiaro che i palestinesi, come comunità organizzata, non vogliono che gli ebrei si trasferiscano lì, e che sono pronti alla guerra per fermarli; la seconda è che gli inglesi si spaventano molto e cambiano casacca, perché prima sostenevano l’immigrazione ebraica in Palestina, e da lì cominciano a osteggiarla, peraltro proprio mentre sta arrivando il nazismo in Europa. Il terzo risultato è che Israele diventa un po’ quello che conosciamo adesso: una comunità armata fino ai denti. Che dice: se noi vogliamo continuare a sopravvivere dobbiamo essere una comunità di combattenti, non i contadini dei kibbutz. Comunque sì, ci sono tanti dubbi su quando far risalire l’inizio del conflitto israelo-palestinese, ma secondo me una buona data può essere la Rivolta araba del 1936.

ⓢ Quanto è sottile però il confine tra un movimento migratorio e un movimento coloniale?
Il colonialismo classico presuppone la presenza di una metropoli, di una madrepatria: per cui tu, potenza europea di turno, conquisti un territorio o lo acquisisci, e a questo punto ti puoi comportare in due modi. O puoi controllarlo da lontano, con una piccola classe dirigente che mandi lì. Oppure puoi mandare dei coloni, come per esempio hanno fatto gli inglesi negli Stati Uniti, e lì diventa il famoso settler colonialism. Israele è un caso particolare, perché è vero che in un certo senso può essere considerato colonialismo di insediamento, perché c’è tanta gente che si sposta e si trasferisce in un posto, tra l’altro scontrandosi con la popolazione locale che non la vuole. Però ha due particolarità. La prima è che non c’è nessuna madrepatria a cui tornare. La seconda ragione è che è gente che scappa perché è perseguitata. Io penso che il tema del colonialismo di insediamento israeliano non sia da mettere sotto il tappeto o da nascondere, però te lo giro anche così. Una filosofa politica marxista, Maria Grazia Meriggi, ha scritto: «Il rifiuto da parte delle popolazioni arabe di questo flusso di migranti (….) fa pensare – nel contesto coloniale in cui si colloca – a un’anticipazione nazionalistica di una forma di resistenza alla “contaminazione” etnica che oggi vediamo all’opera come “resistenza alla sostituzione etnica” nelle destre radicali in tutto il mondo».

ⓢ È vero che però i coloni ebrei compravano pezzi di terra, cosa che oggi i migranti che arrivano attraverso il Mediterraneo non fanno.
In quel caso parte degli ebrei che sono venuti in Palestina hanno acquistato, tra l’altro quasi sempre da famiglie palestinesi, e non da famiglie ottomane come spesso si racconta, lotti di terreno in transazioni private. A complicare ulteriormente il contesto c’era la servitù della gleba, all’epoca. Quindi cosa succedeva? Che tu, famiglia di contadini ebrei, compravi il podere dal possidente palestinese. Poi però cacciavi dal podere i contadini palestinesi che nel podere ci abitavano. E ci abitavano perché era un contesto di servitù della gleba.

ⓢ Torniamo all’Israele di adesso. Tu hai conosciuto il Paese prima della Seconda Intifada.
Sì, ero molto giovane, però mi ricordo com’era.

ⓢ È molto interessante quando scrivi del fatto che la metà degli israeliani di oggi è così giovane che non ha il minimo ricordo di cos’era il Paese prima della Seconda Intifada: un Paese in cui sì, c’era un’occupazione militare condannata dalla comunità internazionale, ma di fatto un tempo in cui si poteva sperare ancora in una soluzione politica a quell’oppressione. O forse era ingenuo sperarci anche negli anni Novanta?
Chi si ricorda Israele prima della Seconda Intifada era esposto a due cose a cui adesso non si è esposti di più. Il primo è il fatto che tu vedevi i palestinesi. Li vedevi nelle città, e parlo dei palestinesi di Palestina, non dei palestinesi con cittadinanza israeliana. La seconda è che c’era una fetta importante della popolazione convinta che l’occupazione era qualcosa che prima o poi sarebbe finita, che non era la normalità. Magari si poteva essere in disaccordo su come farla finire, però c’è questa idea che comunque ci sarebbe stata una soluzione politica, e questa soluzione politica avrebbe portato alla fine dell’occupazione.

ⓢ Con il fallimento degli accordi di Oslo cambia tutto.
Su Oslo ci sono due scuole di pensiero. C’è chi dice che è stato fatto fallire dagli estremisti di entrambe le parti, in particolare i terroristi ebrei che hanno ammazzato Rabin, e poi anche da Hamas, perché è lì che Hamas diventa la grande Hamas, che si inventa questa cosa di mettere le bombe sugli autobus israeliani con una regolarità piuttosto frequente, anche questa una relativa novità, e che quindi fa vincere le elezioni a chi è contrario a Oslo perché passa il messaggio che Oslo porta più terrorismo. Questo è uno dei due modi di vederla. Un altro modo di vederla è dire che Oslo aveva delle pecche così grosse che sarebbe fallito comunque. Ora, secondo me c’è una verità in entrambi questi ragionamenti, però io penso che sì, c’erano delle pecche enormi in Oslo, però poi nei fatti ha fallito perché sono intervenuti Yigal Amir e Hamas, e noi non possiamo sapere cosa sarebbe successo se non avessero vinto. Non sappiamo cosa sarebbe successo se non fossero riusciti a farla saltare. Magari sarebbe collassato sotto le sue contraddizioni, ma magari si sarebbero trovati dei correttivi.

ⓢ Tu scrivi che i fatti che si sono verificati post 7 ottobre, la distruzione completa di Gaza ma anche l’escalation della violenza in Cisgiordania, sono stati sì la reazione alla strage di Hamas, ma sono anche il risultato della traiettoria che la società israeliana aveva assunto da un po’. Israele stava quindi già gonfiandosi di una sete di violenza che cercava soltanto un modo per esplodere?
Non proprio così. Chiaramente il trigger, la scintilla, è il 7 ottobre. Però quello che ha reso possibile il fatto che la violenza si sia scatenata in quelle modalità… Ok, qualunque Stato avrebbe risposto in modo violento. La domanda è: perché con questa violenza senza limiti? Questa violenza senza limiti non sarebbe stata ammissibile se non ci fossero stati i round precedenti: i bombardamenti su Gaza a partire da Piombo Fuso nel 2008-09, che hanno creato un’assuefazione, un’anestetizzazione alla violenza su Gaza, che diventa una cosa ciclica e quindi tutti si abituano a questa cosa. Se sommi questa assuefazione alla violenza al fatto che è cambiata la demografia della popolazione israeliana, per cui gli elementi estremisti non sono più marginali come erano prima, c’è la tempesta perfetta. La miccia è il 7 ottobre: senza la miccia il fuoco non si sarebbe acceso. Però sotto c’era la catasta di legna.

ⓢ Ci parliamo mentre ci avviamo alla fine della prima settimana di reciproci bombardamenti tra Israele e Iran. Ci abitueremo anche a uno stato di guerra continua?
Questa guerra tra Iran e Israele non penso sia una cosa di pochi giorni. Un’altra cosa è invece il senso di insicurezza in cui siamo precipitati tutti: dall’invasione dell’Ucraina al 7 ottobre, l’illusione della fine della Storia è finita. Invece siamo ri-precipitati in un mondo proprio novecentesco, in cui le guerre tra Paesi, e non tra attori non-statali, fanno parte della vita.

ⓢ Un’ultima cosa: in questi giorni ho visto su RaiPlay questa intervista di Giovanni Minoli a Netanyahu, di quando era ambasciatore di Israele all’ONU, nel 1986. Nell’intervista, Minoli risponde a Netanyahu colpo su colpo, gli pone domande come: «Perché considerate le bombe di Abu Nidal come terrorismo e le bombe di Begin e Shamir no?». I toni sono civili tra entrambi, ma anche fermi. Inevitabile pensare che sia impossibile, oggi, vedere un confronto del genere in televisione, ma forse anche sui giornali. Cos’è cambiato, e quando?
Secondo me questo è un prodotto, diciamo, dell’era Bush-Berlusconi. Da un lato la questione palestinese in quegli anni finisce nel dimenticatoio. In più c’è questa egemonia delle posizioni pro-americane, dopo l’Undici settembre. Una paura del terrorismo islamico che diventa, per estensione, arabo. Ma ai tempi di Craxi i media erano molto critici di Israele.

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