Il primo tassello di quello che dovrebbe diventare un intero universo narrativo dedicato ai Blues Brothers.
«Sono arrivato tardi alla narrativa, con un’interpretazione particolare del suo scopo. Un’estate avevo vissuto un’esperienza molto forte, leggendo Furore di notte, in un vecchio camper sul vialetto di casa dei miei ad Amarillo, dopo lunghe giornate passate nei campi petroliferi a stendere cavi per i sismografi.[…] Mentre leggevo Steinbeck dopo una giornata così, il romanzo prendeva vita. Capivo che stavo lavorando in un prolungamento di quel mondo fittizio. Era la stessa America, decenni dopo. Io ero stanco, Tom Joad era stanco. Mi sentivo sfruttato da una forza grande e opulenta, come si sentiva sfruttato il reverendo Casy. Il gigante capitalista stava schiacciando me e i miei nuovi amici, proprio come aveva schiacciato i migranti dell’Oklahoma che avevano attraversato lo stesso Panhandle per andare in California nei primi anni trenta. Anche noi eravamo sottoprodotti del capitalismo, il prezzo da pagare per fare affari». Come racconta con minuzia nel suo saggio Un bagno nello stagno sotto la pioggia, George Saunders ha vissuto molte vite. Proveniente da una famiglia operaia, cresciuto cattolico (e poi avvicinatosi al buddismo), ha svolto una serie di lavori improbabili – tra cui il «disarticolatore in un mattatoio», come ricorda nel suo celebre discorso L’egoismo è inutile – ed è stato ingegnere geofisico nei campi petroliferi di Sumatra. Solo in seguito ha intrapreso un percorso accademico, insegnando scrittura creativa alla Syracuse University, la stessa in cui aveva mosso i primi passi da scrittore. Il suo esordio letterario è arrivato relativamente tardi, a 38 anni, con la raccolta Il declino delle guerre civili americane, pubblicata nel 1996. Da allora, è diventato uno degli autori più rilevanti della sua generazione, un innovatore capace di ridefinire la narrativa americana contemporanea insieme a scrittori come Jonathan Franzen, William T. Vollmann e David Foster Wallace. Dopo il successo internazionale del romanzo Lincoln nel Bardo (vincitore del Man Booker Prize 2017), si è affermato come un’istituzione letteraria, capace di attraversare contesti diversissimi: dagli incontri alla Biblioteca del Congresso alle apparizioni Late Show di Colbert, fino al bookclub di Dua Lipa.
Con Giorno della liberazione (Feltrinelli 2025, traduzione di Cristiana Mennella), Saunders torna alla forma breve, il suo terreno naturale, con storie che esplorano manipolazione, coscienza e libertà in tempi segnati da derive autoritarie e realtà distorte. Anche se scritto molto prima, il titolo originale Liberation Day risuona oggi con una forza quasi profetica. I suoi personaggi si muovono tra follie interiori e prigioni imposte dall’ipercapitalismo, immersi in universi che riflettono in modo inquietante le tensioni dell’America contemporanea — e non solo. Il tono è più cupo rispetto alle raccolte precedenti, ma resta intatta l’ironia tagliente e la verve che contraddistinguono la sua scrittura.
ⓢ Questa ultima raccolta appare come un punto di congiuntura tra tutti i tuoi lavori precedenti: troviamo temi come libertà e oppressione già visti ne Il declino delle guerre civili americane, bizzarri parchi a tema come in Pastoralia, fantascienza come in 10 Dicembre, l’interesse per personaggi storici come il generale Custer (o Lincoln)…
Sono sicuro che sia vero, sì. Credo che sia una funzione del duro lavoro sulla propria arte. Le cose si condensano e si purificano. A volte penso che, per me, l’editing sia un modo per concentrarmi su chi sono veramente come persona: queste stesse ossessioni e interessi continuano a ripresentarsi, in forme (si spera) più elevate e precise.
ⓢ Partiamo dal primo racconto, “Giorno della liberazione”. Come hai scelto questo titolo e in che modo rispecchia la tua raccolta?
Con quella storia e più in generale, riflettevo su quanto spesso le persone desiderino essere liberate – da una situazione politica, da un lavoro, da una relazione, da un’abitudine distruttiva e così via. Spesso cerchiamo una via d’uscita facile, che si trasforma in un’altra trappola. Questo accade nel racconto che dà il titolo all’opera: i liberatori sono violenti e limitati, ma lo sono anche gli oppressori – e poi ho notato che questa idea, di liberazione, percorre tutto il libro.
ⓢ I tuoi personaggi si trovano spesso intrappolati in situazioni che riflettono tensioni sociali e politiche, ad esempio la perdita della libertà, l’alienazione e l’uso della manipolazione mentale. È un tema più calcato rispetto alle altre tue raccolte. Perché hai sentito l’esigenza di scriverne adesso?
Beh, in generale, questo fenomeno di “intrappolamento” è insito in noi. Nasciamo credendo di essere separati, dominanti ed eterni, grazie a una consapevolezza che il nostro corpo crea in ogni istante, ma poiché non è vero che siamo separati da tutto il resto, o dominanti su tutti gli altri, e poiché non siamo eterni, il tutto può iniziare a sembrare una trappola: falsi impulsi molto potenti che ci arrivano (a causa nostra) in continuazione, e il mondo là fuori che ci frustra nel nostro obiettivo di durare per sempre e di essere sempre vincenti. In un modo più particolare, la vita in America in questo momento sembra molto limitante. Anche prima del recente disastro politico, le condizioni economiche e le innovazioni tecnologiche stavano mettendo sotto pressione le persone – inondandoci di propaganda, rendendoci robotici, sminuendo l’umano e l’intimo, e così via. Credo che questo libro sia solo un autentico grido di protesta contro tutto ciò, e che mostri anche (spero) in alcuni casi cosa potrebbero essere inclini a fare gli esseri umani nel tentativo di restare tali, mentre lottano per conservare la propria umanità.

ⓢ La maggior parte dei racconti di Giorno della liberazione, sembrano infatti ruotare attorno a una scelta morale di qualche tipo. Difficilmente però si arriva a una conclusione morale chiara. E’ stata una scelta intenzionale?
Sì, beh, dopo tutti questi anni passati a scrivere storie, sono giunto alla conclusione che la cosa più importante che una storia possa fare (e qui parafraso Čechov) è esporre correttamente un problema (invece di offrire una soluzione). Una storia può mostrare la piena complessità di una situazione, può suggerire alcuni degli strati interconnessi di causa ed effetto che rendono l’essere morali così complicato. Una storia che offre una risposta semplice spesso deve omettere la complessità. Quindi, una buona storia può condurci a quel tipo di momento sacro in cui pensiamo: “Non conosco davvero la risposta giusta… è complicato”. O anche solo: “Ah, sì, è proprio così che funziona in questo mondo”.
ⓢ La tua scrittura è spesso caratterizzata da un linguaggio colloquiale e diretto, che crea un legame immediato tra i lettori e i tuoi personaggi. Come scegli il tipo di linguaggio da utilizzare per ciascun personaggio?
Di solito è il contrario: inizio a scrivere, trovo una voce che mi piaccia e che mi diverta, e poi, a un certo punto, mi chiedo: “Perché parla in quel modo?”. E così nasce il “personaggio”. Parliamo come parliamo perché siamo chi siamo, ma siamo anche chi siamo perché parliamo come parliamo.
ⓢ L’ultima volta che ti ho visto qui in Italia era il 2017 (al festival di Mantova) dove avevi tenuto una rilettura sui racconti di Isaak Babel. Qualche anno dopo, hai pubblicato Un bagno nello stagno sotto la pioggia su altri grandi scrittori russi. Cosa ti affascina in particolar modo della letteratura russa? E in cosa varia completamente rispetto a quella americana?
Mi sono sempre sentito in sintonia con l’intento morale palese degli scrittori russi – il modo in cui sembrano dare per scontato che lo scopo di una storia sia quello di aprire la mente a ciò che è la vita – ciò che conta, come ci perdiamo e così via – in contrapposizione a un approccio più apertamente “intellettuale” o concettuale. La narrativa americana, in gran parte, comunque, è stata influenzata dai russi, ma la trovo spesso un po’ più “personale”, se così si può dire – ovvero interessata all’esperienza o al percorso di una persona – meno comunitaria, suppongo, il che ha senso, dato il nostro modo di vivere. Ma onestamente, non penso molto all’influenza. Cerco solo di leggere molto e abbastanza spesso da… assorbire quest’influenza.
Penso che una persona, un artista, che ha già fatto molta strada, possieda un nucleo essenziale dentro di sé che ha quasi una mente propria, e il lavoro degli altri artisti – di qualsiasi altro artista – finisce per accelerare il suo processo creativo. Perfino leggere un brutto racconto, di questi tempi, sembra aiutare il mio lavoro.
ⓢ Chiudiamo con una curiosità. Hai parlato spesso del tuo background atipico, del tuo percorso come ingegnere e così via. Ma è vero che sei stato un musicista prima di diventare uno scrittore?
Beh, in effetti, sono stato un musicista professionista: prima di andare a studiare a Syracuse, mi sono guadagnato da vivere per circa cinque mesi come chitarrista solista in una band country di Amarillo, in Texas. Suonavamo in uno di quei grandi locali da ballo, dalle 19 alle 2 di notte, sette giorni su sette, tutti i classici del country, in continuazione. Suono ancora, ma solo per divertimento (e per entrare in contatto con quella che credo si chiami “beginner mind”: quella sensazione di agitarsi, imparare cose nuove, ecc.).

Intervista alla scrittrice in occasione dell'uscita del suo nuovo romanzo, risultato di tre anni e mezzo di conversazioni con il boss Peppe Misso, con cui Ciabatti ha parlato di carcere, guerre di camorra, plastiche facciali e avvistamenti di Ufo.