Il film arriverà nella sale italiane a novembre e, secondo le prime indiscrezioni, potrebbe essere tra quelli in concorso a Venezia.
Anche i cinefili più combattivi a questo punto hanno mollato il colpo. A parte rarissimi casi – vedi il successo di I peccatori di Ryan Coogler questa primavera – i film originali tendono a schiantarsi al botteghino, ignorati dal pubblico, come avvenuto in questi giorni all’ultima film Pixar, il delizioso Elio. Il pubblico si lamenta per l’onnipresenza in sala del già visto, ma poi cerca storie familiari. Perciò non stupiamoci troppo se quest’estate (e il successivo autunno, anno, decennio) saranno all’insegna di film con specifica numerica nel titolo: franchise, sequel, prequel, spin-off.
La crisi creativa che vive il cinema commerciale statunitense oggi è resa ancor più evidente dal come queste vecchie storie vengono ripescate, rispolverate e riportate su grande schermo. Sono operazioni guidate dalla più mercenaria nostalgia, che spesso in una cornice narrativa già esplorata non riesco a far altro che ricalcare le forme del film sottostante, vedi alla voce live action di Dragon Trainer.
Perché siano originali o franchise, la differenza tra un film che funziona e uno che non va è sempre la stessa: le idee, le teste. Ci volevano, insomma, Danny Boyle e Alex Garland per dimostrarci che può essere emozionante anche quella che sulla carta è la mossa commerciale più bieca di tutte: il revival di un vecchio successo in chiave franchise, per giunta con la vituperata formula della trilogia.
28 anni dopo arriva ventitré anni che 28 giorni dopo divenne un caso cinematografico, spiazzando il pubblico di tutto il mondo. Fa da apripista a una trilogia che torna sul luogo del misfatto, l’intenzione è quella di costruire un’epica zombie in un Regno Unito isolato dal resto del mondo, assediato dall’epidemia di rabbia che ha trasformato gran parte della popolazione in mostri. Le due personalità dietro questo revival sono Danny Boyle, alla regia, e Alex Garland, alla sceneggiatura. Le stesse che stupirono nel 2002 con un film ruvido nella forma, duro nei contenuti, che guardava ai classici dello zombie horror per dire cose molto nette e molto poco lusinghiere sull’Inghilterra di allora.
Zombie Brexit
28 anni dopo non riparte dagli zombie, ma appunto dal Regno Unito, isolato in una quarantena in cui è finito per gli errori commessi, guardato dal mondo con sospetto. Ne esploriamo appena qualche ettaro di costa a nord dell’Inghilterra, a partire dall’“isola santa” di Lindisfarne: protetta dall’alta marea, ospita una piccola comunità di sopravvissuti che si avventura sulla terra ferma lo stretto necessario, solo per trovare cibo e materiali. Per difendersi dai rabbiosi e dalle loro nuove mutazioni sono diventati arcieri, una figura militare così strettamente connessa all’identità anglosassone da chiarire sin dall’avvio che questa è ancora una volta una storia che riflette su cos’è il Regno Unito. Su cosa sia divento questo Paese, su che mali si porti dentro dopo la Brexit e la quarantena in cui si è chiusa volontariamente.
Le figure che popolano il film sono archetipi, quasi stereotipi, ma vengono mosse in direzioni inaspettate da Garland, che tiene le carte ben coperte quasi fino alla fine. Il protagonista è Spike, un 12enne che partecipa al rito d’iniziazione all’età adulta della sua comunità: andare sulla terra ferra e sopravvivere, al fianco del padre interpretato da Aaron Taylor-Johnson. Nella prima parte 28 anni dopo è un film sulle insidie di una paternità dolorosa ma sentitissima, almeno fino a quando la madre psicologicamente debole si rivela il personaggio cardine emotivo del film. Isla è interpretata da una Jodie Comer ancora una volta eccezionale: un altro sintomo della grande crisi di Hollywood è non essere ancora riuscita a consacrare un talento come il suo.
Il film, però, cambia improvvisamente, prendendosi il lusso di tirar fuori all’ultimo un Ralph Fiennes dapprima indecifrabile e poi leader spirituale. Nell’atto finale sconvolge rivelando cosa significhi essere adulti e soli, senza mai smettere di essere figli: è uno dei passaggi più emotivamente toccanti visti quest’anno al cinema.
In questa storia intensissima sui legami familiari, Garland riesce persino a sovvertire la nostra percezione degli infetti, che diventano molto di più di un pericolo, si trasformano in un dilemma morale con cui fare i conti. Sono evoluti, sono diventati qualcosa di diverso, così come gli umani sopravvissuti: a tenerli insieme è l’istinto di sopravvivenza, la protezione dei loro simili. Nel finale spiazzante di 28 anni dopo, così spiazzante da spaccare a metà il pubblico e il dibattito sui social, è la stessa figura di Spike a essere in bilico. Abbiamo visto la genesi di un personaggio che ha appena messo piede nella vita adulta, ma c’è il forte dubbio che abbia portato con sé in una cesta una sorta di colpa irredimibile, un peccato originale.
Un horror per piangere
28 anni dopo non è quel film horror fatto tutto di mostri, jump scare e scene gore (che pure ci sono e sono tante). È quel perfetto connubio di cinema d’intrattenimento e produzione d’autore, che diverte e spaventa, ma lascia domande, interrogativi, emozioni. Tanto che Sony si è data un gran daffare per promuoverlo come un horror, occultandone la natura “troppo commovente”, per paura di spaventare il pubblico (il paradosso, sì). Dimenticando forse quanto anche l’originale toccasse il cuore con personaggi che si vedono strappar via la propria innocenza, la propria famiglia.
L’unica differenza è che il duo che sta dietro al revival ha vent’anni in più di esperienza sulle spalle. Un duo particolare, che nelle interviste spiazza per l’approccio caratteriale opposto: il regista Danny Boyle sempre curioso di tutto ed entusiasta, Alex Garland ombroso, cupo, perennemente scettico. Nel ventennio intercorso da quel primo film a basso budget a cui lavorano assieme Garland è diventato regista ed entrambi si sono mossi in direzioni differenti, incappando anche in diversi fallimenti, ma rimanendo fedeli a quella che, un po’ esagerando, potremmo definire una poetica.
Si sono ritrovati con in mano 60 milioni di dollari – ovvero un budget che rimane molto basso per un blockbuster hollywoodiano – e la scelta di evitare la via più semplice. Anche se ora la saga è popolare, Boyle si è voluto cimentare in una sfida tecnica simile a quella che lo portò nel 2002 a girare l’intero film con una videocamera DV prosumer semi-professionale. Stavolta ha girata con un iPhone, anzi, con una pletora di smartphone fissati su supporti appisiti. Il suo direttore della fotografia, Anthony Dod Mantle, ha spiegato a Indiewire quanto lavoro ci sia dietro la fluidità delle espressioni dei protagonisti mentre corrono in mezzo alla natura rigogliosa. Di come per realizzare quello scatto “da Polaroid” a ogni uccisione sia servito il supporto di una squadra di tecnici di Apple per hackerare i loro stessi dispositivi, piegarli alla visione di Boyle.
Un po’ come gli infetti del film – spaventosi, grassi, lentissimi, consunti – 28 anni dopo è tante cose assieme. Carne cinematografica viva che rigenera una storia rappresentativa della sua epoca, che ha rivelato talenti poi entrati nel gotha del cinema (qui Cillian Murphy si limita a produrre, ma dovrebbe tornare nei prossimi capitoli). Solo con un po’ più di soldi (me neanche troppi), un po’ più di pregiudizi da parte del pubblico, ma senza mai scordarsi che la priorità dovrebbe essere l’urgenza di dire qualcosa, non la necessità di farlo a costo di rianimare film e storie morti e sepolti.