Attualità

Verbinski for dummies

Uno dei creatori della saga I Pirati dei Caraibi, l'uomo che ha tenuto insieme Johnny Deep, un camaleonte sceriffo e Nicholas Cage, e sta tornando al cinema.

di Federico Bernocchi

Con un giorno d’anticipo rispetto alle altre uscite della settimana, esce oggi mercoledì 3 luglio, The Lone Ranger, il nuovo film della trimurti Johnny Depp, Gore Verbinski e Jerry Bruckheimer. Parliamo del trio dietro al successo planetario de I Pirati dei Caraibi, forse una delle cose più noiose che siano mai successe al cinema d’intrattenimento negli ultimi anni. Ovviamente lo dico a titolo personale e probabilmente non siamo in tantissimi a pensarla così visto che la suddetta saga conta ben quattro film (nel 2015 dovrebbe uscire il quinto) oltre a un numero assolutamente impressionante di gadget, videogiochi, libri per ragazzi e chi più ne ha più ne metta. Non solo: la serie I Pirati dei Caraibi ha forse avuto più influenza sulla carriera di Johnny Depp di tutto quello fatto in anni di cinema con il suo mentore Tim Burton e ha dimostrato che un attore che nel nostro immaginario è sempre stato legato al personaggio dell’artista bello e dannato, con una vita votata al Sacro Fuoco dell’Arte, è in grado di guadagnare (curiosamente) credibilità agli occhi della massa e (molto meno curiosamente) milioni di milioni di dollari, recitando una parte volutamente frivola come quella del pirata salterino. Depp, nel corso di una carriera che si sta facendo ormai trentennale, ha sempre operato delle scelte personali e volutamente anticommerciali, lavorando con registi come John Waters, Julian Schnabel o Terry Gilliam, per poi raggiungere il vero successo nei panni di Jack Sparrow. Per peggiorare la situazione ci tengo a ricordarvi che nel 2003, anno di uscita del primo film di questa saga, La Maledizione della Prima Luna, uscì sul mercato italiano il singolo d’esordio di Francesco Facchinetti, all’epoca conosciuto ai più come DJ Francesco. Il pezzo si intitolava La Canzone del Capitano e, stando quanto mi racconta Wikipedia, è il singolo più venduto in Italia nel XXI secolo. Quanta sofferenza, quanto dolore. Tutto da buttare, dunque? No, sicuramente.

I Pirati dei Caraibi, in un momento in cui l’80% dei blockbuster sono tratti da videogiochi, fumetti o sono remake di Grandi Classici di fine ’80, prende spunto da una serie di giostre

La saga de I Pirati dei Caraibi ha segnato grandi passi in avanti nel campo degli effetti speciali digitali, in gran parte curati dalla Industrial Light & Magic. Un altro grande merito di questo progetto è stato quello di far vedere come Hollywood sia in grado di – per usare una belle espressione – cavare il sangue dalle rape. I Pirati dei Caraibi, in un momento in cui l’80% dei blockbuster sono tratti da videogiochi, fumetti o sono remake di Grandi Classici di fine ’80, prende spunto da una serie di giostre. Nel 1967 a Disneyland, per volere di Walt Disney stesso che morirà tre mesi prima dell’inaugurazione ufficiale, apre la prima dark ride dedicata ai Pirates of the Carribbean. Si tratta di un percorso tra vascelli e velieri, arricchito da pupazzi animatronici, qualche canzone e trabocchetto. Insomma, immaginate un qualcosa di simile a quello che è il vostro ricordo di quella volta che a 9 anni siete stati nel Tunnel dell’Orrore al Luna Park. L’attrazione è stata poi leggermente sviluppata per rimanere al passo coi tempi, fino ad arrivare nel 1992 a Disneyland Paris. Successivamente, nel 2003, è diventato un film e da allora, come abbiamo detto, il franchise è diventato uno dei più ricchi della storia del cinema. La cosa stupefacente è come la fonte d’ispirazione per tutto questo sia stata una giostra. Cosa dimostra questo? Che a livello produttivo Jerry Bruckheimer è bravissimo (e che forse è il demonio) e che ha avuto anche la fortuna di avere dalla sua un grande regista: Gore Verbinski. Ma chi è quest’uomo? Forse sono strano io, oppure ho una concezione vecchia del mestiere, ma per chi scrive un regista deve avere una personalità, qualcuno potrebbe addirittura dire “una visione del mondo”. Questa personalità è il marchio di fabbrica del regista, quello che lo rende diverso e che ce lo fa riconoscere e distinguere dagli altri. Un regista che si trasforma in Autore nel momento in cui riesce a rendere sua qualsiasi storia tramite l’unicità del proprio linguaggio. Gore Verbinski è un ottimo regista, ma al tempo stesso è forse il regista con meno visione del mondo della storia.

Verbinski ha ormai dalla sua esperienza e professionalità e, anche se il film rimane un pasticcio difficilmente difendibile, grazie a lui si evita il disastro totale

Nato nel 1964 nel Tennessee, Gregor detto Gore è il figlio di Laurette e del fisico nucleare di origini polacche Victor Verbinski. Dopo essersi trasferito a San Diego, Gore si butta nel mondo della musica: prende parte a una lunga serie di band tra il glam e il punk e finisce per suonare nei The Little Kings, gruppo che all’apice del successo accompagnerà il mitico Stiv Bators dei The Dead Boys nella registrazione della sua versione di Have Love Will Travel finita poi su qualche compilation. Niente di trascendentale, ma quest’esperienza serve al futuro regista per farsi qualche amico in ambito musicale. Verbinski si iscrive poi all’Ucla School of Theater, Film and Television dove comincia a farsi le ossa nel mondo del cinema. Dopo una serie di corti in 8mm, comincia a girare qualche video musicale di band come NOFX, i 24-7 Spyz, Bad Religion e Monster Magnet. Insomma, l’ambito è il punk e il rock: cose per l’epoca estreme e di rottura. Ma come hanno poi fatto gran parte di quei gruppi, Verbinski si prepara a fare il grande salto. Dopo i video musicali nella classica gavetta del regista c’è la pubblicità: Nike, Canon, Budweiser e Coca-Cola. Pochi anni dopo il diploma, Verbinski è già un regista affidabile e sicuro, abituato a lavorare con grosse compagnie e grossi budget. La volontà di fare qualcosa di indipendente e autonomo c’è ancora: nel 1996 scrive e dirige il cortometraggio The Ritual, ma l’anno successivo le cose cambieranno per sempre. Nel 1997 gli viene affidata la regia di Un Topolino Sotto Sfratto, una piccola commedia per bambini con Nathan Lane e Lee Evans alle prese con dei pestiferi roditori. Il film incassa molto bene e Verbinski viene ingaggiato per un film con due protagonisti come Julia Roberts e Brad Pitt. Il risultato è il mediocre The Mexican – Amore Senza Sicura (forse uno dei sottotitoli più brutti di sempre) una commedia romantica che riesce a perdersi a metà strada tra il thriller e il road movie che però, proprio grazie all’appeal dei due divi, funziona al box office. Nel 2002, a dimostrazione che Verbinski è uno di cui ci si può fidare, viene chiamato d’urgenza sul set del remake di The Time Machine per salvare il salvabile. Il regista originale, quel Simon Wells pronipote di H.G. Wells, autore del romanzo da cui è tratto il film, dovette infatti ritirarsi a poche settimane dalla fine delle riprese per un esaurimento nervoso. Verbinski ha ormai dalla sua esperienza e professionalità e, anche se il film rimane un pasticcio difficilmente difendibile, grazie a lui si evita il disastro totale. Per ora abbiamo messo in magazzino: una serie di video punk, un film per bambini con dei topolini simpatici, una commedia rosa con Brad Pitt e Julia Roberts e una vera e propria marchetta fatta per non far perdere i soldi alla Dreamworks e alla Warner Bros.

Quando la Dreamworks acquista i diritti per un remake a stelle e strisce di The Ring, chi sceglie di mettere dietro la macchina da presa? L’affidabile regista di Un Topolino Sotto Sfratto. E Verbinski cosa fa? Non delude di certo le aspettative: riesce a rendere il J-Horror un successo anche negli Stati Uniti

Nel 2002 esce negli Stati Uniti The Ring, remake del capostipite dei J-Horror, Ringu di Hideo Nakata. Ed è qui che le cose si fanno interessanti. Il cinema hollywoodiano, soprattutto quello horror, è in un momento di profonda crisi; mancano soggetti originali, si comincia a saccheggiare da quelli che sono i grandi classici del new horror (il primo remake di Non Aprite Quella Porta è del 2003) e quelle poche cose originali che si vedono sono piuttosto deludenti. In Giappone invece sembra muoversi qualcosa: Ringu, tratto dal romanzo di Koji Suzuki, è un incredibile successo capace di creare un vero e proprio genere cinematografico. La caratteristica principale (oltre alla onnipresente bambina con i capelli lunghi e neri davanti alla faccia) è una lunga e lenta costruzione della tensione. Ringu punta tutto sull’atmosfera, spiazzando lo spettatore e portandolo in territori inaspettati. Il film di Nakata comincia a circolare tra gli appassionati di genere e in poco tempo diventa un vero e proprio caso non solo in patria ma anche nel resto del mondo. La Dreamworks ne acquista i diritti per un remake a stelle e strisce e chi sceglie di mettere dietro la macchina da presa? L’affidabile regista di Un Topolino Sotto Sfratto. E Verbinski cosa fa? Non delude di certo le aspettative: riesce a rendere il J-Horror un successo anche negli Stati Uniti. The Ring, il remake di Ringu, è un buon horror che ha la capacità di recuperare molte delle atmosfere del film originale, riuscendo al tempo stesso a rendere potabili per il pubblico americano, abituato a un ritmo di narrazione molto più serrato.

Il suo film successivo è proprio La Maledizione della Prima Luna, primo capitolo della saga dei pirati della Disney. Il successo è senza precedenti, ma ancora una volta parliamo di un film in cui la regia è totalmente assente

L’operazione è più complessa di quello che sembra ed ha aperto la strada a una piccola serie di remake di film horror giapponesi come Dark WaterThe Grudge e ha addirittura fatto in modo di far arrivare Hideo Nakata, il regista dell’originale, in America (dove girerà il seguito del suo stesso film, The Ring 2, e l’orribile Chatroom: I Segreti della Mente). Insomma, Gore Verbinski con solo di genere all’attivo diventa un punto di riferimento nel cinema horror. Solo che nessuno sa il suo nome: tutti parlano di “The Ring, il remake del film giapponese”. In un mondo come quello del cinema horror, dove il nome, la personalità è quasi tutto, Verbinski riesce in un’impresa quasi unica: scompare, non si fa notare. Il suo film successivo è proprio La Maledizione della Prima Luna, primo capitolo della saga dei pirati della Disney. Il successo è senza precedenti, ma ancora una volta parliamo di un film in cui la regia, quella visione del mondo cui si faceva riferimento prima, è totalmente assente, schiacciata dal peso di una produzione gigantesca, fatta per essere un vera e propria macchina da guerra al box office. E Verbinski, ancora una volta, è ineccepibile; non sbaglia nulla, realizza un buon film d’avventura per bambini dove a farla da padrone sono le faccette di Johnny Depp e le linee guida di quello che diventerà poi la saga. L’anno precedente, nel 2002, il botteghino fu dominato dallo Spider-Man di Sam Raimi: oggi, quello che mi ricordo di più del film, erano le polemiche legate alla presunta invisibilità del regista, troppo prono ai voleri degli Studios. Ma come, il regista de La Casa o di Soldi Sporchi, alle prese con un film miliardario e tratto da un fumetto? Ma che fine ha fatto la sua poetica? A confronto Raimi ne esce come un’intransigente artista che non vuol sentire neanche nominare la parola “compromesso”. Verbinski tornerà poi sul luogo del misfatto per ben altre due volte (Pirati dei Caraibi – La Maledizione del Forziere Fantasma del 2006 e Pirati dei Caraibi – Ai Confini del Mondo del 2007), ma a destare maggiore interesse sono altri due titoli.

La storia è quella di un camaleonte che per errore finisce in una piccola cittadina del Far West che necessita a tutti i costi di uno sceriffo. Rango è nettamente il migliore film del regista; non solo: è anche l’unico che mostra un briciolo di personalità

Il primo è il bizzarro The Weather Man del 2005. Il film in questione, scritto da Steve Conrad, sceneggiatore di Ricordando Hemingway e de La Ricerca ella Felicità, è ancora una volta una svolta radicale nella filmografia di Verbinski: la storia è quella dell’uomo delle previsioni del tempo di un famoso telegiornale, interpretato da Nicolas Cage, che attraversa una profonda crisi di mezza età. Una commedia che vorrebbe essere matura, scura e intimista, girata con garbo e classe, ma piena di momenti spiazzanti e “bizzarri”. Targato Paramount, The Weather Man è uno strano ibrido: strizza l’occhio al cinema indipendente di quel periodo, ma lo fa con una confezione che di indipendente non fa nulla. Costa ben 22 milioni di dollari (ne incasserà soltanto 19), ha attori come Cage o Michael Caine e una colonna sonora firmata da Hans Zimmer. E ovviamente non c’è un briciolo di originalità da parte del regista. Verbinski sembra aver studiato la lezione: subito dopo aver fatto un film di più di due ore con Johnny Depp che saltella con una scimitarra in mano, dirige un film di insistiti primi piani dei protagonisti, con una voice over invadente e, all’occasione, campi lunghi e raffinata costruzione del quadro. Un po’ il Curtis Hanson di Wonder Boys, un po’ il Noah Baumbach di Il Calamaro e la Balena.

Ma è nel 2011 che il nostro regista fa qualcosa di realmente inaspettato. Insieme agli sceneggiatori John Logan e James Ward Byrkit, mette la sua firma sullo script di un film d’animazione. Il titolo è Rango e Gore Verbinski, oltre ad averlo in parte scritto, lo dirige. La storia è quella di un camaleonte che per errore finisce in una piccola cittadina del Far West che necessita a tutti i costi di uno sceriffo. Rango è nettamente il migliore film del regista; non solo: è anche l’unico che mostra un briciolo di personalità. Forse è una lettura un po’ forzata, ma non si può notare una certa affinità tra la vita del regista e quella del protagonista del film: uno straniero che ha la capacità di confondersi e mimetizzarsi con quello che lo circonda, che per la prima volta riesce a tirare fuori sé stesso. Rango è un vero e proprio successo: piace al pubblico come alla critica e nel 2011 si aggiudica l’Academy Awards come Miglior Film d’Animazione, battendoIl Gatto con gli StivaliKung Fu Panda 2. Un gioiellino da difendere e da riguardare in continuazione. Il manifesto di un regista che da oggi, grazie a The Lone Ranger, (ri)stenterete a riconoscere.

 

Immagine: una pubblicità di The Lone Ranger