Attualità

Urbanized

L'ultimo documentario di Gary Hustwit, autore di Helvetica è un viaggio a 360° gradi nell'urbanismo

di Nicola Bozzi

Nel 2007 usciva Helvetica, un documentario che ha colpito un po’ tutti per il modo elegante e disinvolto con cui affrontava un argomento come la tipografia, apparentemente ultraspecifico e poco dibattuto nel mainstream. Aldilà delle virtù informative, il primo lungometraggio di Gary Hustwit (che già prima aveva un cv non certo da pivellino) era un film filosofico: si parlava di standard universali e libertà di espressione, di modernismo e postmodernismo, il tutto in termini più eloquenti e cristallini di qualunque libro di Jean-François Lyotard o Fredric Jameson. Un paio di anni dopo, nel 2009, il regista sfornava un altro pregevole documentario, Objectified, concentrato invece sul product design. E adesso, a due anni dal secondo, Hustwit è tornato nelle sale con il terzo capitolo della trilogia, affrontando questa volta un soggetto di portata molto più politica e sociale rispetto ai precedenti: il design delle città. Come da titolo, Urbanized tocca un po’ tutti quei temi urbanistici che stanno facendo discutere sempre di più in giro per il mondo: dal social housing all’infrastruttura, dall’espansione alla riqualificazione, dalla vivibilità alla sicurezza.

Senza annoiarci troppo, il regista ci porta in un viaggio attorno al mondo, mostrandoci orrori del passato e barlumi di speranza per il futuro. In Usa veniamo scarrellati per la spettacolarmente deserta Detroit, “shrinking city” per antonomasia ravvivata però da virtuosi progetti di community gardening, oppure osserviamo dall’alto la monotonia dello sprawl suburbano (tutte quelle casette e cul de sac fatti con lo stampino che Alex McLean fotografa così bene). Ovviamente Hustwit fa anche una fermata speciale a New York, dove discute con i suoi creatori il progetto più chiacchierato degli ultimi anni, la famigerata e già iconica High Line. L’esempio di questo tratto ferroviario dismesso, convertito in un parco con vista panoramica, viene qui usato un po’ come spartiacque per raccontare la svolta epocale dalla pianificazione haussmanniana di Robert Moses (vialoni imperiali che squartano i centri storici, palazzoni e infrastruttura antiumana tipo quella che affascinava tanto Ballard) verso il recupero della strada come spazio pubblico, ispirata dalla sempre più popolare Jane Jacobs. In Sudamerica il regista coglie l’occasione per presentare utopie moderniste (la Brasilia dell’ormai vecchissimo Niemeyer, intervistato e ancora capace di un’invidiabile lucidità) così come innovazioni semplici e socialmente progressiste, che documenta in maniera illustrativa. A Bogotà ci mostra le prodezze infrastrutturali low-cost dell’ex sindaco Peñalosa (bus e piste ciclabili invece di metro), mentre a Santiago de Chile Alejandro Aravena ci spiega il social housing parzialmente partecipativo, dove l’architetto ha seguito le richieste degli abitanti nella fase di design, lasciando a loro un buon margine per migliorie successive.

Per quanto riguarda i problemi delle grandi città, non poteva mancare un’analisi non troppo ottimista della sregolata urbanizzazione cinese, che negli ultimi anni ha pompato ex villaggi di pescatori trasformandoli in città di milioni di abitanti, il tutto senza un grande attenzione per la vivibilità. Si tocca ovviamente anche il tema della sicurezza, con il pannellone CCTV che monitora le favelas brasiliane e un progetto di torrette illuminate in una comunità sudafricana per aiutare la gente a tornare a casa senza problemi. In generale, però, prevale l’ottimismo: la New Orleans toccata dalla tragedia Katrina è spiegata tramite tentativi positivi, da quelli della fondazione di Brad Pitt a progetti molto più astratti di street art come I Wish This Was, che cercano di interrogare la comunità stessa su ciò che vorrebbe diventare. Oltre agli sforzi di noti architetti o sindaci illuminati, infatti, il film dà spazio anche a progetti più bottom-up, come per esempio Tidy Street, che si occupa di far calare i consumi energetici a Brighton tramite graffiti come segnaletica orizzontale.

Come suo solito, Hustwit intervista i protagonisti, strappando loro citazioni parecchio dense. Se da una parte c’è Norman Foster (impegnato nella realizzazione del mega eco-sobborgo di Masdar City ad Abu Dhabi) secondo cui “se non sei ottimista non sopravvivi professionalmente come architetto”, dall’altra c’è il critico Michael Sorkin, che avvisa come “le città [siano] il risultato di lotte”. E a proposito di proteste, uno dei capitoli più corposi del documentario riguarda proprio la lotta dei cittadini di Stuttgart contro il progetto Stuttgart21, un mega progetto di riqualificazione dell’area della stazione fortemente criticato dalle comunità residenti.

Uno dei pregi della narrazione di Hustwit è la sua semplicità, la capacità di raccontare i concetti più importanti attraverso interviste ed esempi concreti, senza sottofondi musicali o voice-over drammatici alla Michael Moore. Del resto Urbanized è un film parecchio ottimista, che si entusiasma (come del resto i due precedenti) per la pratica del design stesso, senza perdersi più del necessario in questioni interessanti ma collaterali. Al contrario del percorso narrativo di Helvetica (dove si assisteva all’affermarsi del font, al suo rifiuto, e infine al suo recupero e rielaborazione) con Urbanized, più che un cerchio che si chiude, il regista ci mostra una curva che si sta tutt’ora arricciando, una forza centrifuga che lui ci tiene a documentare. Se le città sono un’ossessione contemporanea, e lo saranno sempre di più, con questo film Hustwit riesce a dire un sacco, senza parlare troppo.