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Spoiler: R.I.P.

La morte nelle serie tv: da The Wire a Six Feet Under, fenomenologia della scomparsa dei protagonisti che ci hanno accompagnato per mesi.

di Daniele Manusia

Spoiler alert: ogni periodo di questo articolo contiene anticipazioni di episodi piuttosto cruciali di svariate serie tv.

I morti delle serie tv ci fanno soffrire in modo diverso rispetto ai morti dei film. Si fa presto a elaborare un lutto avvenuto all’interno di una narrazione di un’ora e mezza, due ore, con cui una volta usciti di sala non dovremo più avere a che fare. Quando muore il personaggio di una serie, invece, restiamo in quella narrazione per chissà quanti episodi ancora, nei casi peggiori per intere stagioni, continuando a guardare la serie senza quel personaggio. Le morti cinematografiche possono sconvolgerci per il loro significato all’interno della storia, quelle delle serie tv ci fanno soffrire perché poi i personaggi ci mancano.

C’è da dire che le serie tv che ci hanno intrattenuto nell’ultimo decennio affrontano quasi tutte il tema della mortalità, in modo più o meno diretto e con scopi narrativi diversi (naturalmente non sto parlando di quelle serie tipo CSI, Desperate Housewife o Misfits in cui i personaggi muoiono o scompaiono perché nella realtà gli attori che li interpretano hanno chiesto l’aumento).

Nei Soprano la morte non è solo descritta come un rischio del mestiere di mafioso, ma anche come la giusta punizione per i crimini/peccati commessi dai personaggi. Una catarsi necessaria per lo spettatore che ha assistito con complicità a furti e omicidi, che serve in sostanza a prendere le distanze da personaggi con cui è facile immedesimarsi (ne ha parlato su queste pagine Anna Momigliano, e più o meno le stesse cose le dice David Chase nell’intervista pubblicata all’interno di Sopranos: The Book). La freddezza con cui i personaggi dei Soprano si eliminano a vicenda (in linea con la tradizione dei film di mafia di Scorsese) dovrebbe ricordarci che quelle persone, vittime e carnefici, non sono come noi. Il problema principale per uno spettatore sensibile, però, non è la banalizzazione della morte, quanto il suo potenziale repressivo.

In questo senso la morte più dolorosa per noi è quella di Adriana La Cerva. Dopo averla vista indossare l’abito da sposa e vomitare sul tavolo dell’FBI per lo stress della sua situazione asfissiante, diventa impossibile accettare che debba morire, l’idea che ci sia un motivo per cui sia giusto che sparisca dalla serie (Non possiamo trovare una soluzione narrativa, per piacere?). Per un attimo, crediamo sul serio in un destino diverso insieme a Christopher, non importa dove purché insieme, come due novelli Adamo ed Eva pronti a fondare una nuova umanità, vivendo finalmente del sudore della loro fronte. E invece la vediamo fuggire a quattro zampe tra le foglie secche, in un bosco isolato dove le sue urla strazianti non verranno sentite da nessuno tranne dal suo killer.

Il mondo in cui ci lascia la morte di Adriana è di un cinismo senza speranza, senza neanche più l’illusione della speranza, di un’ipocrisia manifesta. E probabilmente questo è quello che Chase pensa del mondo. «Date un’occhiata al Mito di Sisifo di Camus», dice nel libro sopra citato, «La vita non sembrerebbe avere scopo, eppure ci comportiamo come se ne avesse, ci relazioniamo come persone capaci di amare».

Anche in The Wire la morte dei personaggi più amati dovrebbe servirci da lezione. David Simon, sulle pagine del Believer, spiega che se i Soprano è un dramma shakespeariano, incentrato sulle macchinazioni e i tormenti interiori dei suoi personaggi, The Wire attinge alla tragedia greca, mostrando «personaggi schiacciati dal fato, costretti a confrontarsi con un gioco truccato e l’idea della loro stessa mortalità». Al posto delle divinità greche ci sono quelle che Simon chiama “istituzioni postmoderne”, come il traffico di droga, il dipartimento di polizia, le forze macroeconomiche, e in The Wire «le istituzioni hanno sempre la meglio, e quei personaggi che per hybris decidono di sfidare il costrutto postmoderno dell’impero americano vengono inevitabilmente derisi, emarginati, schiacciati». Uno a uno vedremo morire i personaggi più carismatici della serie, prima Dee, poi Stringer Bell e infine Omar. Tutti colpevoli di non essersi accontentati, di aver giocato contro il gioco, di aver pensato di essere più importanti del gioco stesso (su Youtube c’è un video divertente in cui un fan della serie viene ripreso mentre muore Omar, e dice: «I don’t even wanna watch the rest», e naturalmente non potrà smettere comunque di guardare il resto della serie).

La morte più rappresentativa del modo in cui si muore in The Wire è quella di Felicia “Snoop” Pearson. Nella vita reale Snoop (si chiama proprio così) spacciava già a quattordici anni ed è finita in prigione per omicidio, poi ha scritto il libro Grace after midnight prima di venire condannata di nuovo per traffico di droga. Una che conosce le regole del gioco, insomma. Lei, che si veste come un uomo e parla come un uomo, è morta (nella serie) specchiandosi nel vetro della macchina e chiedendo a Michael, l’assassino che le punta una pistola a pochi centimetri dalla sua testa: «Come mi stanno i capelli?».

Il fatalismo può essere usato in modo più strumentale (e meno poetico). In Sons of Anarchy, la morte è lo strumento sadico con cui il creatore Kurt Sutter tiene alta l’attenzione dei suoi spettatori (nascondendo i limiti di una trama decisamente troppo incasinata) e i personaggi migliori (RIP Opie) vengono usati come filetti da aggiungere al fuoco.

E non ci dicono molto di più le serie con mostri di vario tipo come Dexter, Breaking Bad (Vince Gilligan ne parla come la storia di un Dottor Jeckyll che diventa Mister Hyde, il protagonista che diventa antagonista) o The Walking Dead in cui, semplicemente, è necessario che gli zombie addentino qualcuno dei protagonisti di tanto in tanto.

Nonostante ciò The Walking Dead raggiunge vette di disperazione notevoli spingendo il concetto di mortalità al limite. L’atmosfera di quel mondo post-apocalittico è talmente pesante che i personaggi riflettono continuamente se ne valga davvero la pena. Per tutta la seconda stagione concentrano i loro sforzi sulla ricerca di una bambina dispersa, Sophia, per poi ritrovarsela davanti sotto forma di zombie. Per i personaggi di The Walking Dead, schiavi del puro e semplice istinto di sopravvivenza (depressi), il pensiero della morte è un sollievo e al tempo stesso per andare avanti bisogna fare a meno di ogni sentimentalismo: i morti non vanno in paradiso ma diventano zombie, a prescindere se siano stato morsi o meno, e bisogna piantargli una bella pallottola nel cervello, prima di piangerli.

Forse è colpa del periodo storico in cui sono nate, ma le serie tv sembrano dirci che la libertà è un’illusione e che nessuno è protagonista di nessuna storia (in Games of Thrones al termine della prima stagione muore quello che credevamo essere il protagonista, la serie va avanti e i protagonisti diventano altri). Per forza di cose la serie che riflette più compiutamente sulla nostra caducità è Six Feet Under. Nei commenti all’ultima scena dell’ultima puntata Alan Ball, che da piccolo ha visto la propria sorella morire sul sedile di fianco al suo in seguito a un incidente d’auto, dice che: «Quando uno è circondato dalla morte, per bilanciare ha bisogno di vivere esperienze di una certa intensità. (…) È la forza vitale che cerca di farsi strada attraverso tutto quel dolore, lutto e depressione».

Nel corso delle stagioni i morti di Six Feet Under tornano a far visita ai personaggi superstiti in visioni oniriche, dialogano coi vivi e ne influenzano le scelte, li spingono a forza attraverso i momenti difficili e la depressione, ricordando loro di essere vivi in mezzo ai morti (nei Sopranoinvece i morti che vede Tony in sogno sono la personificazione del suo senso di colpa).

L’ultima puntata di Six Feet Under, veder morire tutti i personaggi che abbiamo amato per cinque anni nel giro di una canzone, è l’esperienza più dolorosa che sia possibile provare standosene fermi davanti alla tv. Ma è anche estremamente formativa: sta scomparendo quel micro-mondo sensato, fatto di relazioni, che abbiamo creduto eterno proprio come facciamo con il nostro micro-mondo fatto di relazioni, sensato o meno. Se stiamo piangendo però, fino a prova contraria, noi siamo ancora vivi.

Durante una delle loro conversazioni, raccolte nel libro La brutalità delle cose (Quaderni Pier Paolo Pasolini) Francis Bacon disse a David Sylvester: «Vidi uno stronzo di cane sul marciapiede e d’un tratto capii: ecco cos’è la vita. Mi tormentai per mesi, poi finii per accettarlo Sì, è proprio così: viviamo il tempo di un istante, e poi siamo spazzati via come mosche». E Bacon poco dopo aggiunge: «Siamo nati per morire e nel frattempo dobbiamo dare significato a un’esistenza insensata».