Attualità

Le mille, calme luci di New York

Uzoamaka Maduka e Jac Mullen hanno fondato una rivista letteraria mensile a New York chiamata The American Reader. Una conversazione a tre sull'esagerata macchina dell'hype dei media newyorkesi e le tranquille rivoluzioni generazionali.

di Timothy Small

Quello che segue è un articolo dalla storia di copertina del n.18 di Studio, “Cool Nigeria”.  Un altro dei protagonisti della cover story, Chude Jideonwo, sarà a Milano: faremo due chiacchiere con lui giovedì 13 febbraio, h 19, al Calligaris Flagship store, foro Buonaparte 24 (mappa).

(Read it in English, here)

In un’intervista concessa a VICE, Uzoamaka Maduka ha dichiarato che non ama il mondo della letteratura newyorkese perché trova che ci sia «un’ auto-censura costante, un costante trattenersi». È un mondo in cui «la vera conversazione non accade mai». Uzoamaka Maduka vive a New York. Dice di farlo suo malgrado. Per chiarire, si autodefinisce «Nigeriana. Americana. Del Maryland». Al telefono mi dice, «Sono letteralmente africana-americana, nel senso che sono l’unica persona nella mia famiglia ad essere nata in America, ma i miei genitori sono nigeriani, e culturalmente io mi sento nigeriana. Crescere, per me, è stato molto diverso dall’immagine mentale che uno si crea quando pensa all’esperienza “afro-americana”. Che, poi, è un concetto costruito – perché anche in quel caso, stiamo parlando di Caraibi? Di Africa? Ma poco importa».

Max sembra molto intelligente, e, a giudicare dalle foto che ho trovato su Internet, sembra anche molto bella, sicuramente molto alta, e ha un modo di fare estramente affascinante. Gran risata, voce nervosa, sembra una versione nigeriana di Annie Hall. Più cool di così si muore. Max – è così che ama farsi chiamare – ha studiato a Princeton. È lì che ha incontrato Jac Mullen, con cui ha co-fondato la rivista letteraria The American Reader che in pochi mesi l’ha portata sulle pagine di Forbes, del Guardian, del New York Times, del Washington Post, di Vogue. Da oggi, anche di Studio.

Quando chiedo a entrambi come abbiano fondato la rivista, è Max a prendere parola. «Tutto è iniziato un anno fa, da una serie di conversazioni costanti tra me e Jac, all’università. Parlavamo spesso di cosa mancasse nel discorso culturale americano e ci eravamo resi conto che ce n’era una parte essenziale, una voce fondamentale, che mancava, e una sera abbiamo capito che potevamo effettivamente fare qualcosa – entrandoci in prima persona. In pratica abbiamo deciso di smettere di lamentarci del discorso culturale – sulle lettere, sulla critica – e di partecipare a quel discorso». Pausa. Faccio due passi indietro. Vi racconto cos’è The American Reader.

È finanziata da un investitore misterioso di cui nessuno sa l’identità, e sembra una rivista classicissima –  una cosa a cui potrebbe essere abbonato mio padre.

TAR è una rivista mensile (mensile, esatto!) di letteratura, poesia, critica. L’hanno fondata un anno fa. Ogni numero include uno o più racconti, una manciata di poesie, un breve saggio, una sezione di critica letteraria e un focus su un paese diverso con poesie e altre lettere in traduzione esclusiva. Ha anche un sito. Contiene pochissima pubblicità. È finanziata da un investitore misterioso di cui nessuno sa l’identità, e sembra una rivista classicissima – a vederla nei news-stand newyorkesi ti sembra una rivista che è lì da 50, 60, 70 anni. Sembra una cosa a cui potrebbe essere abbonato mio padre. Sicuramente non sembra lì da undici mesi. Poi, però, se guardi bene, ti rendi conto che ci sono delle piccole decisioni di design che la separano dalle riviste veramente classiche. Un tocco di follia in più. Ma la sensazione trasmessa dal giornale è comunque quella di un organo che fa già parte dell’establishment letterario – anche per via della scelta di pezzi contenuti nel giornale: gente come John Ashbery, Diane Williams. Certo, a volte includono anche opere nuove, fresche, come i racconti di Robert Lopez, ma la scelta dei contenuti sembra fatta un po’ a caso. Come giudicare la pubblicazione sul secondo numero, con tanto di strillo in copertina, di un racconto di James Baldwin, racconto disponibile da anni, gratis, su Internet, racconto con addirittura la sua pagina su Wikipedia? Perché pubblicarlo? Secondo me, errori di fretta. Max e Jac sono giovani, giovanissimi: ci sta che si facciano prendere dalla foga iniziale. E l’idea di scrivere “A story by James Baldwin” in copertina dev’esser stata troppo seducente.

Chiedo loro per chi stiano facendo la rivista. Parla Jac, meno sicuro di sé di Max, ma dalla voce profonda, tra le parole fa pause molto lunghe. «Avevamo quest’immagine di tantissime persone diverse in giro per l’America. Persone che hanno tutte, in casa, una vecchia radio, ma che non la usano. O che la usano sintonizzandola sulle frequenze sbagliate. E noi volevamo creare una nuova frequenza. Secondo noi, queste persone sono ovunque». In che senso? Uzoamaka aveva dichiarato, in precedenza, che «il mondo letterario è uno degli ultimi bastioni del privilegio bianco etero». E che «anche quando porti persone nuove, magari donne, o di colore, è sempre Harvard, Yale, Princeton». Come lei, d’altronde. Continuo a chiedere loro in che modo stiano cercando di «creare nuove frequenze». D’altronde, hanno appena assunto due maschi bianchi del mondo letterario newyorkese come Ben Lerner e Ben Marcus per curare la loro poesia e la loro narrativa. Max riprende parola. «C’è l’ idea che parlare con le masse sia sbagliato, che non si possa farlo. Ci siamo resi conto che ci sono persone in giro per l’America che sono state escluse dal discorso letterario. Queste sono le persone che leggono tutti i giorni, ma che non sono parte della scena, la maggioranza silenziosa». Mi chiedo in che modo Joyce Carol Oates e Diane Williams facciano parte di una strategia per a) parlare con le masse e b) parlare a gente esclusa dal mondo letterario. Ci penso su. Chiedo: si tratta forse di una differenza generazionale? Dall’altra parte della linea c’è silenzio per qualche secondo. «Sì, è generazionale», risponde Max. «Nel senso che ogni generazione ha la responsabilità di ripartire e far ricominciare il discorso artistico, critico e letterario attorno ai temi pressanti dell’epoca contemporanea». Ma l’ultimo numero di TAR include un saggio su Hegel, e io continuo a faticare a connettere quello che dicono Jac e Max e quello che producono. Che sia tutto un ottimamente disegnato, costosissimo biglietto da visita?

L’hype attorno a loro è immenso, in tipico stile newyorkese, e la cosa mi puzza (francamente, questa non è colpa loro, quanto dei media americani, dove ogni novità è “LA MIGLIORE DI SEMPRE!”). Ad esempio, ilNew York Observer: «The American Reader non è la tipica rivista letteraria. Hanno appena chiuso il secondo numero, e già se ne parla come della prossima Paris Reviewn+1». Più avanti si sofferma, giustamente, sugli splendidi abiti della Maduka alla loro festa di lancio. È una festa a cui hanno partecipato sia Sam Lipsyte (in giacca e cravatta, dice) che Shala Monroque, la fashionista, la musa di Prada, la ex di Larry Gagosian («Alle feste normali non c’è mai nulla di interessante da dire, ma alle feste letterarie è diverso», ha dichiarato). Scrivo a Lorin Stein, direttore del Paris Review, per chiedere se non gli pare che questi ragazzi abbiano fondato una rivista letteraria più per diventare gli invitati alla festa di Vanity Fair che parlano di Dostoevskij che per diventare gli editor che stanno a casa la sera per scrivere una critica su Dostoevskij. Lorin, che è molto più saggio di me, mi risponde che bisognerebbe non affrettarsi a giudicare e vedere cosa combinano nei prossimi mesi. Provo a fare come dice Lorin, tenere la mente aperta.

«Ogni cosa associata alla nostra generazione è velocissima, usa-e-getta. Noi vogliamo essere rivoluzionari nel dire: calma. Fermati un attimo»

«Ogni generazione ha la responsabilità di creare un organo critico che possa capire il mondo che la circonda, e che possa stimolarne la discussione», mi dice Jac. Ma allora perché fare una rivista così classica? Anche a livello di design, TAR sembra cercare di volersi infilare senza alcuna presa di posizione nel mondo letterario americano. Le copertine sono quasi indistinguibili da quelle di Harper’s. «In un certo senso per noi una cosa classica è oggi una cosa di rottura, una cosa diversa, proprio perché è generazionale. È di rottura perché siamo noi a farla».

Ok, ora inizio a seguirli. Aggiunge Max: «La vera rottura, oggi, è una tranquilla, sostenibile conversazione culturale. Ogni cosa associata alla nostra generazione è velocissima, usa-e-getta. Noi vogliamo essere rivoluzionari nel dire: calma. Fermati un attimo». E Jac, «La nostra generazione ha 25, 26 anni. Non siamo quelli che hanno creato questo mondo, siamo quelli che lo stanno ereditando. E forse vogliamo rompere col resto e dire che anche a noi piace leggere, che ci piace discutere in maniera calma, ragionata, tranquilla. Siamo molto più calmi, più profondi e più intelligenti di quello che si legge sugli Op-Ed del New York Times sui Millennials». E Max, di nuovo: «Per la mia esperienza personale era molto importante creare la rivista il quanto più possibile umana. Non voglio “il racconto sulla Cina” o “il racconto nigeriano” – e quello se ti va bene, perché nella maggior parte dei casi si parla di “racconto asiatico” o “racconto africano”. Non voglio quei racconti scritti da autori per “raccontare la Nigeria” al pubblico internazionale, così che possano indirettamente bagnarsi i piedi nella piscina dell’Altro. A me interessa la letteratura che arriva alla verità, a quello che c’è sotto, alla condizione umana, che è quella che ci accomuna tutti. Ed è lì che vorrei arrivare. Non sono solo i maschi bianchi ad avere la capacità di parlare della “condizione umana”, mentre tutti gli altri devono raccontare la loro “condizione specifica”. Tipo, cos’è la “letteratura gay”? Esiste? Non è possibile che uno scrittore gay possa scrivere letteratura e basta? È una cosa che odio, tipica delle generazioni prima della nostra. E vogliamo cambiarla».

E poi ho capito: The American Reader è totalmente, al cento per cento, un progetto generazionale. Non mira ad essere in competizione con il Paris Review o con n+1. Vuole essere la rivista letteraria di questa generazione. Vuole essere veramente un manifesto generazionale. È in quest’ottica che vanno viste tutte le cose che mi causavano dubbi: la sua grafica tradizionale, le sue feste chic, le sue decisioni di pubblicare grandi autori, la fretta di affrancarsi dal mondo letterario. Non sono sintomi di una voglia di apparire. Sono parte di un progetto che vuole portare una nuova generazione nel mondo letterario, e che vuole dire alle generazioni precedenti che anche noi nati negli anni Ottanta non siamo dei deficienti che vivono di snapchat e di tweet. Anche noi amiamo studiare Hegel, leggere poesie, discutere di cultura.

«Volevamo sembrare classici perché volevamo dimostrare, in qualche modo, che siamo qui da sempre, che non è una novità, che siamo come gli altri», dice Max. «Pubblichiamo Stephen Dixon e Ashbery ma pubblichiamo anche giovanissimi scrittrici come Diana Chien. Vogliamo creare una conversazione che faccia anche da ponte tra generazioni. Se pubblicassimo solo i vecchi, o solo i giovani, rappresenteremmo male la realtà del mondo delle lettere americane, che è un mondo composto da generazioni diverse, da mondi diversi, da una frizione tra questi mondi. E anche quando pubblichiamo i grandi, diamo loro un certo tipo di spazio che magari riviste come il New Yorker non concede, ad esempio, alla poesia. Noi pubblichiamo le poesie lunghe, difficili. E, inoltre, dare in mano un racconto di Stephen Dixon a un ragazzo della mia età equivale a dirgli “OK, pensavi di conoscerlo, ma te lo ripropongo, dacci un altro occhio”. È così che vogliamo riportare nel discorso tante persone diverse».

Io ritardo a fare una nuova domanda. Sono sedotto. Sono partito prevenuto ma, proprio come Ben Marcus e Ben Lerner, le parole di Uzoamaka mi hanno fatto cambiare idea, e ora sto dalla loro parte. Mi hanno contagiati con la loro passione, la loro voglia di fare, con le risposte impacciate di Jac e le risposte giornalistiche di Max, con il loro rapporto e la loro energia. Non è poco, soprattutto se si è abituati al polveroso mondo della letteratura. E spero sinceramente che mi invitino a una loro festa. Ovviamente, mi aspetterei di ricevere l’invito in una busta, nella casella della posta, elegantemente stampato su bella carta. E mi presenterei in giacca. Se c’è una cosa che ho imparato da Jac e Max, è che essere giovani non vuol dire essere giovanili. Non vuol dire non avere un minimo di classe.

(Dal numero 18 di Studio)

Immagine a cura di Jacopo Marcolini