Attualità

Come stanno gli scrittori?

Lunga inchiesta sugli scrittori italiani e quello che pensano del loro lavoro: Saviano, Durastanti, Pacifico, Lagioia, Masneri e molti altri parlano di che problemi ansiogeni comporta il pubblicare, che rapporto hanno con lettori e presentazioni, con i colleghi, con il fallimento, con i modelli.

di Cristiano de Majo

Sappiamo dalle interviste sul metodo quante pagine al giorno scrivono o quante ore stanno seduti alla scrivania, difficilmente invece veniamo informati dei loro stati d’animo in relazione all’attività che svolgono. Eppure nelle conversazioni tra scrittori è un argomento prevalente soprattutto se si ha un libro che sta per uscire o è appena uscito. “Come stai?” o “come sta andando?” si chiede e ci si sente domandare – e la domanda è rivolta con tanto più garbo quanto più chi fa la domanda ha provato l’esperienza – perché l’uscita di un proprio libro è un momento che mette alla prova sul piano emotivo qualunque scrittore, anche di successo. Per combattere le mie altalene (con un libro in libreria da poco più di un mese), ho condotto una specie di studio epidemiologico sulle emozioni degli scrittori italiani. Ne è venuto fuori un altalenante collage di voci, dichiaratamente ispirato alle biografie orali di George Plimpton. A parte qualche fuori quota, voci di scrittori, più o meno di successo, della mia generazione, con cui mi è capitato di avere a che fare in queste settimane. Le ho divise per argomenti trattati in tre capitoli: la pubblicazione, i lettori, il rapporto con gli altri scrittori.

1. La pubblicazione

Si sta meglio a scrivere un libro che a pubblicarlo. (Roberto Saviano)

Ne ho pubblicati un bel po’ e dovrei averci fatto l’abitudine ma più s’avvicina il giorno, più s’accentua quel vago senso d’inquietudine comunemente detto strizza. Poi tutto lo decidono le recensioni e le vendite. Generalmente, lo scrittore di medio successo può contare almeno su qualche recensione o intervista, a libro ancora in bozze; ed è già una boccata d’ossigeno. Le vendite però, rimangono un’incognita. E c’è poco da dire, anche il genio più di rottura e apocalittico integralista quando entra in classifica zomperà di gioia; ben attento a non farsi vedere. Ma se non vendi e nemmeno ti recensiscono, be’, sei fottuto. L’editore comincerà a evitarti e sarà facile ammalarsi anche gravemente. (Gaetano Cappelli)

L’uscita di un libro a me comunica un’euforia discretamente idiota, accompagnata da una lieve inquietudine. Poi te ne freghi e, con il passare dei giorni, quel pensiero esilarante e inquieto diventa più stabile e routinario, un po’ come l’amore. Mi aspettavo che il primo romanzo mi facesse uscire dal guscio, ma niente di più, visto che la tiratura era bassissima e un piccolo editore può farti girare fino a un certo punto: così è stato. Il secondo libro l’ho semplicemente detestato e perfino osteggiato. Da lì mi sono imbarcato in un romanzone che non è mai uscito (croce e angolo di compiacimento ferito) e nel frattempo ho tirato fuori due libriccini, uno di poesie e uno di musica, uno per divertimento e l’altro perché avevo un buco tra una traduzione e l’altra. Infine, con L’unico scrittore buono è quello morto mi aspettavo più o meno quello che è accaduto: qualche apprezzamento per la comicità dolceamara, qualche critica perché troppo per addetti ai lavori, ma anche questo partiva come libro di nicchia (non è un romanzo, non è un libro di racconti, non è una raccolta di aforismi: annamo bene). (Marco Rossari)

Se dovessi dire qualche stato d’animo: inquieto, curioso, emozionato. Poi a un certo punto, abbastanza presto, interviene una specie di menefreghismo e me ne distacco un po’: ci vuole circa un mese per questa fase, tra i fattori che incidono di più c’è una buona rassegna stampa iniziale. Dopo il secondo romanzo ho smesso di andare in libreria i primi giorni e di capire come è sistemato tra gli scaffali, era un brutto vizio che sono contento di aver perso. (Marco Missiroli)

«L’uscita di un libro a me comunica un’euforia discretamente idiota, accompagnata da una lieve inquietudine. Poi te ne freghi e, con il passare dei giorni, quel pensiero esilarante e inquieto diventa più stabile e routinario, un po’ come l’amore». (Rossari)

Nei giorni intorno all’uscita di un libro mi sento sempre un po’ distratto e inadeguato. Come se non sapessi dove mettermi. Non è del tutto spiacevole, in realtà. La reazione è quasi sempre di immergermi subito in qualche altro lavoro, in modo da non pensarci. E questo sì, in parte è spiacevole. (Paolo Giordano)

Io sono quel tipo di scrittore (cioè italiano, letterario, di nicchia) che viene esaltato dall’editore e dagli editor prima dell’uscita e poi abbandonato durante. Escono le belle recensioni, ti esalti, ma poco a poco capisci che non sta vendendo perché l’editore non ti telefona. Almeno credo sia così. Comunque, ogni volta ti aspetti che ti cambi la vita, e in effetti ogni volta te la cambia, ma mai con un successo tipo patto col diavolo, che ti rovini la vita, fai dei soldi, diventi famoso. Ti cambia nel senso che c’è più gente che ti legge e ti stima, che puoi lavorare facilmente nell’editoria (giornalismo, traduzioni, redazione di qualcosa). Ti cambia nel senso che hai qualche editore straniero e ti fai dei viaggetti. Ma non ti cambia davvero. Tanto che ormai non dico mai che sono scrittore quando mi presento. Preferisco dire che lavoro nell’editoria. Odio perdere i capelli e avere pochi lettori. Averne pochi a 26 anni è carino, è giusto. Averne pochi a 37, con tutte le rinunce che fai a livello di serenità per scrivere, è un dolore. Questa volta sono stato in tuta per due mesi, e il primo mese l’ho passato per lo più a letto, incapace di fare alcunché. (Francesco Pacifico)

Quando il libro esce, quella specie di tensione assume derive paranoiche. Proprio da fumo cattivo. Non mi fido di nessuno, non credo a quello che mi dice la gente, se mi trovo in contesti letterari, vedo gli altri come dei mostri di insincerità. Mi sembra che niente abbia senso, che gli scrittori siano le peggiori creature esistenti, false, diplomatiche, narcisiste. Quindi cerco rifugio in tutto ciò che non abbia a che fare con libri e letteratura, qualsiasi altra forma di alienazione va bene. Non ho mai pensato che un libro potesse cambiarmi la vita, se con questo si intende soldi o notorietà. (Veronica Raimo)

Sono contento di aver iniziato a pubblicare a quarant’anni. Come diceva Alberto Sordi nel Dentone, «ho l’energia di un ragazzo ma l’esperienza di un uomo». A parte gli scherzi, a vent’anni avrei avuto aspettative “magiche” rispetto all’uscita del libro. Adesso sono più realista. Poi sono circondato da amici molto cinici che nei tremori e timori della vigilia mi dicono “sai quanti libri escono ogni giorno in Italia?”. O mio padre che è totalmente fuori dall’ambiente, e all’inizio chiamava il mio editore “Millennium Fax”, e insomma l’ambiente intorno a me mi riporta molto alla realtà. (Michele Masneri)

Prima dell’uscita del libro faccio il conto alla rovescia dei giorni che mancano. E così sale la tensione. Poi il giorno arriva, e comincia un nuovo tipo di tensione: recensioni (se ce ne sono), presentazioni (che non amo perché ho un carattere schivo e troppe domande sui perché del testo, sulle scelte, sui personaggi, sul tema, mi fanno sentire inadeguato, dal momento che non ho quasi mai una risposta su quello che ho scritto). Quando poi sono passati circa due mesi dall’uscita, comincio a tirare il fiato. Ma arriva anche una sorta di malinconia, mi chiedo: è già tutto finito? (Christian Frascella)

Prima dell’uscita di un libro sono in ansia. Poi provo fastidio. Fastidio per una massa di azzannatori che senza alcuna buona fede tenteranno di vivere di luce riflessa, di diffamare, inventare, sputare. Poi felicità quando ho l’oggetto tra le mani. E’ un susseguirsi di sensazioni. Nei giorni successivi cambia. Inizi a capire che le cose funzionano se il sito di retroscena su cui non hai comprato la pubblicità dice che non stai vendendo, capisci che il libro inizia a passare di mano in mano leggendo i messaggi che i lettori che ti scrivono, i commenti, le analisi. Percependo che l’argomento inizia a infiammare, insomma ascoltando la condivisione. (Roberto Saviano)

L’autore attraversa spesso senza apparenti motivi fasi di tranquilla fiducia, di sfrenato e allucinatorio velleitarismo in cui si immagina scrittore di successo, autore di bestseller, rispettato opinionista, profumatamente pagato rubricista su fogli patinati – e fasi down in cui i sogni si rovesciano in fantasie di abbandono, solitudine e fallimento. Poi il libro esce, e inizia la fase di attesa. Quello che l’autore attende è la rottura del silenzio – una recensione, buona o cattiva, lunga o corta, approfondita o svogliata, sul Corriere della Sera o sul Bollettino di Quartiere – purché qualcuno ne parli e attesti l’esistenza del libro. Se il silenzio si prolunga, l’autore prima si attaccherà al telefono e darà il tormento all’ufficio stampa della sua casa editrice, poi inizierà a chiamare i suoi amici scrittori per chiedere consiglio, quindi – in mancanza di avvenimenti significativi, abbandonato da tutti coloro cui ha rotto le palle con le sue lamentazioni – sprofonderà nella più cupa depressione. (Ernesto Aloia)

La pubblicazione del secondo libro è stata una faccenda completamente diversa: non pensavo a quello che avrebbe detto mio fratello, ma se quel giornalista avrebbe fatto il pezzo come aveva promesso, se quel critico che mi aveva apprezzata anni fa lo avrebbe fatto anche questa volta, in quante shortlist sarei finita, se il lettore a cui era piaciuto il primo avrebbe detto di me le stesse cose che si dicono di un autore che toppa la seconda prova, etc. (Claudia Durastanti)

Il mio esordio per alcuni era un capolavoro e per altri uno schifo tale da dover correre in bagno a lavarsi le mani appena terminata la lettura. Fortunatamente, essendomi fatto le ossa una quindicina d’anni fa nella palestra di un newsgroup letterario, riesco a mantenere un discreto equilibrio, ma capisco che per altri può essere uno shock. È come fare un figlio – per usare una metafora abusatissima – e poi, dopo lo svezzamento, portarlo fuori nella carrozzina tutto orgoglioso e sentire la gente per strada che lo sbircia ed esclama: “che schifo!”, “è un mostro!”, “neanche al cottolengo”. L’unico vantaggio di un’accoglienza così cruda è che ti passano in fretta i sogni di gloria, e se a tutto questo si aggiunge il monitoraggio quotidiano della posizione in classifica su Amazon, che quando va di lusso attesta il tuo libro fra i primi duemila, il ridimensionamento è immediato. (Sergio Garufi)

«Se trovassimo sconveniente vendere i nostri libri, li metteremmo on line a disposizione di chiunque, senza passare per le case editrici». (Lagioia) 

Nei giorni successivi ho l’ansia da riscontro, voglio sapere se la storia è riuscita a toccare qualcuno, sia tra i conoscenti (c’è un gruppo ristretto che mi segue dagli inizi e non ha problemi a criticare spietatamente), sia, magari, tra gli sconosciuti. Ci metto comunque pochi giorni a realizzare che il mondo ha altro a cui pensare che non il mio nuovo libro, e tutto si stempera velocemente. (Simone Marcuzzi)

Se trovassimo sconveniente vendere i nostri libri, li metteremmo on line a disposizione di chiunque, senza passare per le case editrici. Dunque, una volta uscito il libro, il mio desiderio è che raggiunga i lettori cui idealmente è destinato. Tutti quelli che – se sapessero che esiste – lo amerebbero o almeno lo troverebbero interessante. Ma come fare nell’epoca in cui i mediatori tradizionali sono saltati? Le recensioni sui giornali di carta servono, ma fino a un certo punto. Ricordo, a proposito di un libro che curai come editor, un’apertura di cultura del Corriere della Sera (tutta pagina e molto positiva) che fece guadagnare al libro medesimo non oltre 50 copie vendute in più rispetto al suo andamento della settimana prima. La radio funzionicchia. La televisione (o meglio, certa televisione) funziona eccome, ma è un po’ come una lotteria (devi essere tu il fortunato). I blog e le riviste letterarie mi danno a volte l’impressione che chi li legge sia molto interessato a ciò che accade nel mondo dell’editoria, ma poi alla fine non compri tantissimi libri. Non più di certe anziane signore che hanno letto tutto Burgess, tutto Proust, tutto Simenon, si bevono la Ferrante in pochi giorni, e poi continuano a leggere e a comprare. (Nicola Lagioia)

È una tale cazzata eppure uno ci pensa sempre. Ma allora toccherebbe almeno provarci a scriverlo, il libro che ti cambia la vita – rendendoti milionario, in che modo sennò? Tipo quello del Padrino che, dopo qualche romanzo anche d’avant garde, stanco della sua vita miserabile, si mette al tavolino e partorisce il famoso best seller proprio con l’intenzione di vendere. E, nonostante l’ antico adagio “pecunia non olet”, Puzo, proprio con quel cognome, s’è arricchito. Ha avuto un gran culo, diciamocelo. La ricetta per il libro campione d’incassi infatti non esiste. Sennò gli editori pubblicherebbero solo quelli. E, sapendolo, uno continua a scrivere le proprie cose: non ti cambieranno la vita ma almeno non dovrai vergognarti per esserti sputtanato e senza nemmeno alzare una copia, come ehm… potrei farne di nomi. Senza contare che lo scrittore sfarzoso alla Fitzgerald, alla Capote, alla McInerney, per gli scrittori italiani, tutti “imbegnati” per statuto se non addirittura comunisti, è tabù. (Gaetano Cappelli)

Con I segnalati è stato completamente diverso. Mi ha di fatto cambiato la vita. Non in termini materiali, ma sarei uno squilibrato a pensare che la pubblicazione di un romanzo mi possa cambiare la vita (e la parte squilibrata di me che ci pensa è la stessa che poi, prendendo vie più ragionevoli, mi dice che alla fine “il mio tempo verrà” – anche da parte del pubblico dei lettori. Tutto qui). Per le due settimane immediatamente seguenti l’uscita dormivo con I segnalati sul comodino. Dormivo poco, in effetti, perché ero esultante, sebbene in modo apparentemente sedato. Ero esultante e sedato dal senso di realtà. Ma qualcosa si è aperto, dentro di me, e se posso esprimermi in modo ridicolo, è come se avessi fatto un incantesimo dal quale non si può più tornare indietro. Ancora adesso, a distanza di un anno e mezzo, l’effetto trasformativo di quel libro sulla mia percezione del mondo è attiva. Non posso neanche lamentarmi di una certa trascuratezza da parte dei giornali e delle recensioni, è stato un libro ideato e lavorato col motto “mihi ipsi scripsi”. Insomma: avevo un’aspettativa di felicità legata alla creazione di un oggetto indiscutibilmente personale, e questa aspettativa è stata pienamente colmata. (Giordano Tedoldi)

L’idea di ritrovarmi a pubblicare un libro che non vende mi toglie il sonno. Eppure non riesco a smettere, ne ho cominciato un altro. Scrivere un romanzo è l’unica cosa che mi piace fare. Per un paio di mesi ho pensato che non sarei più riuscito a scrivere un libro, e il solo pensiero di lavorare nell’editoria a queste condizioni (ipotetiche) mi disgustava (ipoteticamente). Poi allora ho cominciato un romanzo. Che ti devo dire, spero venda più di questo. Nel romanzo ci sono parti vere, di cui sono protagonista io, e ci sono conversazioni tra me e te, e là dentro dico da qualche parte che è incredibile il modo in cui si diventa scrittori falliti: si diventa scrittori falliti con le buone recensioni. Credendo che stia andando bene. Ma come fa ad andare bene se non ti legge nessuno? Sei finito in una realtà parallela dove “andare bene” significa qualcosa di sfuggente. Non dico che debba essere il mercato a decidere del tuo valore, e sono senz’altro pronto a farmi riscoprire da morto. Però i quarant’anni sono vicini, e le domande me le faccio. (Francesco Pacifico)

A proposito della mia “carriera”, avevo molte aspettative dopo un primo libro di immeritato successo. Poi tutto è tornato nella normalità di uno scrittore che deve sempre cercare di migliorarsi. Il numero di copie vendute è importante solo perché ti garantisce di poter fare come unico mestiere lo scrittore, perché questo vorrei essere. (Christian Frascella)

Il castigo della consacrazione ha un senso solo se ti permette di fare come Donna Tartt, che scrive un libro ogni dieci anni. (Sergio Garufi)

2. I lettori

A volte capita che una persona trovi qualcosa che non ha neanche il critico più avvertito. Altre volte ti fanno cascare le braccia. Oppure ti arrivano mail che ti fanno stare davvero bene. Un libraio mi ha detto che L’unico scrittore non era per nulla comico, ma alla lunga stremante, angosciante, e ne sono stato contento. Ma anche lì: non è un po’ ridicolo galvanizzarsi per i commenti in sintonia con quello che abbiamo voluto fare? (Marco Rossari)

Come far vivere il proprio libro il più a lungo possibile? Io me ne vado in giro per librerie a presentare La ferocia. Batto il territorio. Ho iniziato a fine settembre, andrò avanti credo fino in primavera. Incontro i lettori, ci parlo, li vedo acquistare i miei libri, e questo fa bene all’umore. Poi incontro i librai. Parlo anche con loro, cerco di capire com’è vivere la faccenda da quel lato della barricata. Frequentare le librerie è molto istruttivo. Innanzitutto viaggi, ti rendi conto (dopo essere stato chiuso, come nel mio caso, quattro anni a scrivere in casa) cosa sta accadendo fuori, come reagiscono loro alla crisi. E poi stringi contatti e aiuti il libro anche molto tempo dopo il giorno della presentazione. (Nicola Lagioia)

Le presentazioni? Be’, ci ho messo un po’ a capire di che grandissima stronzata si tratti. A meno che tu non sia un televisivo, o che la faccenda non sia organizzata da una di quelle benemerite associazioni di lettori, in genere vengono a sentirti i soliti quattro gatti spelacchiati che proprio non sanno cos’altro fare e sperano nel prosecchino tiepido e la tartina avariata – almeno una volta, perché oggi chi li offre più? –, né manca mai qualche aspirante scrittore, pronto a insultarti. E nessuno che compri il tuo libro. Quelli che, a ogni uscita, si sbattono in giro per l’Italia, io proprio non li capisco. (Gaetano Cappelli)

C’è chi mi ha chiesto di scrivere “il seguito” di Deep Lipsia, e mi sono detto: se c’è anche una sola persona che desidera il seguito di DL vuol dire che il mondo è davvero irreale. Avendo bisogno di irrealtà, mi piace incontrare i lettori. Voglio essere onesto – non che ne senta il bisogno ma un po’ per umiltà – un “rapporto diretto” con i miei lettori, data l’esiguità di questi ultimi, è spesso uno scambio di battute in un locale, un tipo che ti dice “ti ho letto, complimenti” sulla chat di Facebook e cose del genere. Insomma, è una cosa talmente rada e delicata e finora gentile che dovrei essere uno spaventoso arrogante per lamentarmene. Le presentazioni sono utili, immagino, soprattutto quelle degli altri. Io, al momento, non intendo farne per i miei libri, non ho proprio voglia. Non è un problema con i “miei” lettori, è un problema con il “loro” scrittore. Magari cambierà in futuro. (Giordano Tedoldi)

Purtroppo non ho social network e questo mi limita molto. In me vince ancora la convinzione che uno scrittore debba fare un passo indietro rispetto al libro che ha scritto. Allora mi dedico alle presentazioni, soprattutto a quelle nelle scuole, nelle biblioteche, nei circoli di lettura o nelle librerie indipendenti che fanno un lavoro a monte. In questo caso mi piace moltissimo rapportarmi con le persone. Mi sento a mio agio anche se divento rosso in viso, è un dettaglio che mi porto dietro da sempre. Però accade: appena mi siedo in presentazione avvampo anche se parlo con disinvoltura.(Marco Missiroli)

Non cerco davvero un rapporto diretto con i lettori. Per questo non ho creato alcun profilo “social”. E la mia incursione come persona al di fuori dei libri in genere m’imbarazza. Sto imparando lentamente a selezionare le situazioni pubbliche in cui mi sento a mio agio. Sono poche, ma non tutte sono sbagliate, perché a volte è piacevole parlare del proprio lavoro, mostrarne alcune possibili espansioni. C’è della meschina vanità in tutto ciò. (Paolo Giordano)

Questa settimana a Milano un ragazzo mi ha fatto una domanda sul finire della presentazione. Con aria molto arguta ha detto che nessuno sembrava essere assolto nel mio libro… tranne l’autore. Mi hanno riferito poi che gli ho imbruttito. Gli ho detto guarda io non so proprio cosa sia l’assoluzione, e le parti peggiori di Class sono quelle in nota, che nel colophon è definita autofiction anche se i nomi sono cambiati. D’altra parte i lettori mi dicono che soffrono per i miei personaggi, o che ci tengono. Non posso farne a meno. Vorrei averne di più, ma scelgo titoli freddi e presento male i libri, quindi finisce che non li coltivo. Vorrei averne di più, e vorrei essere più semplice quando ci parlo: sbilanciarmi, dire: guarda, se non mi parli sto male. Mi pento sempre alle presentazioni in cui si parla troppo per addetti ai lavori e finisce che la gente normale non fa le domande alla fine. Mi sembra sempre un’occasione mancata. Io poi non sentendomi un intellettuale, uno che educa la gente, ma solo un romanziere, mi troverei molto meglio a una presentazione sentimentale dove ci si dice delle cose coi lettori, una cosa da libro commerciale, da grandi sentimenti, invece che a discutere dello stato dell’Italia usando il libro come sintomo. “Quel sintomo si sta scopando mia moglie”. Hai presente la battuta? I sintomi sono cose reali che potremmo prendere di per sé e non sempre come metafora dell’Italia. (Francesco Pacifico)

È la cosa per cui scrivo: i lettori. Esistono libri comprati e mai letti, se ne parla poco, se rientri tra questi è la condanna peggiore. Non mi sento a mio agio quando sono riconosciuto per strada, ma alle presentazioni sì.  Molti lettori mi abbracciano, mi toccano la testa con una confidenza che io non ho nemmeno con le persone più care. È una confidenza che gli lascio prendere perché è voglia di dare una carezza e in molti casi io ho davvero necessità di prenderla. Le persone che ti portano solidarietà, che dicono che sei nelle loro preghiere, che indicano un me sempre più imbarazzato ai loro bambini, insomma tutto questo è spesso esperienza difficile perché senti di non essere all’altezza. Una volta durante un giro di presentazioni capitò la stessa sera che tre diverse lettrici mentre firmavo copie hanno provato a baciarmi sulle labbra. Una sensazione strana, una persona che non conosci che ti chiede di girarti e bacia lasciandoti spesso strisciate di rossetto. Mai avrei immaginato nella vita di dovermi difendere da assalti di baci. Ma divertente. (Roberto Saviano)

Io odio parlare in pubblico, quindi le presentazioni mi costano molta energia. Però ho capito che c’è una fondamentale differenza. Quelle fatte a Roma, con gli amici, i conoscenti, il critico, l’aperitivo, sono una cosa di pubbliche relazioni, devi fare il personaggio. E sono energie abbastanza sprecate; dopo, mi assale una certa malinconia. Sono rimasto molto colpito invece dalle presentazioni in giro per l’Italia: dall’entusiasmo di librai e soprattutto di lettori, che hanno speso 15 euro, si sono letti il libro, e sono venuti e mi hanno fatto domande precise: perché quel personaggio a un certo punto fa quella cosa e non un’altra. Cioè loro avevano speso soldi, poi erano usciti di casa, avevano atteso l’ora della presentazione e poi facevano la loro domanda. Questa cosa mi ha molto toccato, anche commosso. Poi sono con persone che non conosco, e che presumibilmente non vedrò mai più in vita mia, quindi sono molto sincero, c’è una grande empatia con il pubblico, è una specie di psicanalisi per me, che mi dà molto. (Michele Masneri)

In genere sono a mio agio alle presentazioni, come in tutte le situazioni in cui si parla di argomenti che conosco bene, come per esempio i miei libri e me stesso. (Ernesto Aloia)

Giusto ieri ho partecipato a una presentazione collettiva, nove autori. Il moderatore ha cominciato a farmi domande convinto che io fossi un altro. Non sapevo come dirglielo, ma alla fine ho dovuto farlo, anche perché le domande vertevano sulla mia presunta attività di poeta. Ho cercato di essere garbato. (Paolo Giordano)

«Molti lettori mi abbracciano, mi toccano la testa con una confidenza che io non ho nemmeno con le persone più care. È una confidenza che gli lascio prendere perché è voglia di dare una carezza e in molti casi io ho davvero necessità di prenderla». (Saviano)

Mi piace ricevere mail dai miei lettori, riesco a rispondere con più tranquillità. Durante le presentazioni rispondo a monosillabi, e l’intervistatore fa sempre una gran fatica, poveraccio. Alcune volte – ma potrei contarle sulle dita di una mano – mi sono anche divertito, ma c’erano fattori contingenti che avevano prodotto quei piccoli miracoli, che esulavano dalla presentazione stessa. Qualcuno mi ha trovato persino divertente. Le presentazioni sono utili all’ego dell’autore, a patto che siano ben frequentate e stimolanti. Ho assistito a presentazioni molto interessanti, caotiche ma con brio, al termine delle quali mi sono detto: “Perché non sono un oratore del genere? Potrei farci i milioni!” (Christian Frascella)

Nella maggior parte dei casi mi deprimo, e mi sembra di nuovo di scivolare in quella sensazione totale di non sensatezza. Rispetto al rapporto col lettore, quando gli scrittori parlano del “lettore medio” come “l’uomo della strada” mi sembra una roba veramente snob. Quindi non so bene che significhi il rapporto con i lettori. Mi capita a volte di ricevere messaggi di chi ha letto il mio libro che mi fanno molto piacere, ma anche lì, solo se mi sembra di stare dentro una relazione effettiva, e non: “Toh, in arrivo il messaggio da un lettore medio!”. (Veronica Raimo)

Non sono mai del tutto a mio agio, devo superare una timidezza congenita prima di iniziare a parlare, e peraltro trovo vagamente triste l’autopromozione sfacciata di tanti scrittori-profeti. Cerco di parlare veramente del libro e delle motivazioni che mi hanno portato a comporlo, ma non è la miglior strategia di marketing. Ho comunque un ricordo che mi porto dentro e tengo buono nei momenti di scoramento: qualche anno fa a Pordenonelegge ho assistito a un incontro con Richard Powers, che presentava Il tempo di una canzone. Dopo un romanzo del genere poteva permettersi ogni cosa, se avesse ruttato o fatto i gargarismi al microfono sarei stato comunque entusiasta. Lui invece ha risposto alle domande quasi timidamente, ha letto un brano, e poi si è sottratto all’applauso finale mettendosi in un angolo del palco. (Simone Marcuzzi)

Le presentazioni sono sempre in bilico tra stand-up comedy e agitazione da piazzista di enciclopedie. Il problema è che a un certo punto ho scoperto che non mi dispiace del tutto farle, e non solo la diffidenza è venuta meno, ma ho iniziato a fare una cosa che ho sempre valutato con sospetto: mettere il pubblico a proprio agio, azzardare una battuta, semplificare contenuti al limite degli slogan. Non lo faccio apposta, forse è solo gestione dell’imbarazzo. So che il pubblico non va tediato a morte, ma quando sento delle risate in sala mi chiedo se non stia facendo tutto nella maniera sbagliata. Non sono una performer: non sono tenuta ad avere una bella voce, a saper leggere i miei passi, non sono tenuta a incantare. (Claudia Durastanti)

Io spesso sbrocco ai lettori quando fanno le domande. Ho capito che presentare i libri faceva schifo fin dalla prima o seconda presentazione fuori Roma del mio primo romanzo. Partimmo io e l’editore per Palermo, ma la birreria di birre belghe che ci aveva invitati non aveva convinto nessuno a venire e ci aveva sistemati su un divanetto al centro del locale. Intorno, rialzati, c’erano i tavolini degli avventori. Col microfono in mano, l’editore ha cominciato a presentarmi come fosse un talk show. Nessuno si è voltato verso di me, anzi mi hanno dato più decisamente le spalle per non ascoltare. Ho dovuto parlare del mio libro davanti alle spalle di tutti. Da subito ho capito cos’erano veramente le presentazioni. E ora, quando vado in giro per l’Italia a presentare il mio romanzo, so che devi ingoiare brutti bocconi e la sera, in treno per Roma o in albergo, fare i conti con cosa pensi veramente di te stesso: ti va bene parlare a otto persone del romanzo che ti ha fatto litigare con la tua ex e che ha fatto esaurire la tua fidanzata? E ti piace sentirti uno scrittore esordiente e incompreso a trentasette anni? (Francesco Pacifico)

Era per il primo libro, alla FNAC di Napoli. Ricordo di essere entrato puntuale nella saletta presentazione e di aver visto solo una nonnina in seconda fila che aspettava. Il direttore della FNAC ha fatto sedere alcuni commessi nelle prime file e io ho parlato davanti a questi ragazzi in divisa un po’ in imbarazzo e a questa nonna che dopo tre minuti ha iniziato a pendere di lato e si è addormentata. Russava. L’ho guardata per tutto il tempo, si è svegliata con i quattro applausi finali. Allora ha iniziato ad annuire come avesse sempre seguito il discorso, è venuta da me e mi ha detto «Sei stato proprio bravo». (Marco Missiroli)

Mi ricordo una presentazione in una libreria completamente vuota, a parte una coppia di vecchietti capitati lì per caso che sono stati più o meno costretti a sedersi e subire la presentazione. Io ovviamente volevo solo andarmene, ma chi mi presentava non ha battuto ciglio parlando come avesse una marea di gente davanti. Quando ha finito, i due vecchietti sono andati da lui a complimentarsi, a dirgli quanto era stato bravo, eccetera, e chiedergli dove si potesse comprare il suo libro. (Veronica Raimo)

«I pochi pensionati annoiati che si mescolano alla claque dei parenti e amici precettati adorano inscenare delle buffe lotte di classe». (Garufi)

Il peggio naturalmente è il rapporto coi lettori. I pochi pensionati annoiati che si mescolano alla claque dei parenti e amici precettati adorano inscenare delle buffe lotte di classe, per cui al fatidico momento delle domande si esibiscono in delle controconferenze interminabili, che hanno l’unico scopo di ribaltare la gerarchia che li vede confusi fra il pubblico anziché sul palchetto degli oratori. Bisogna essere molto diplomatici e autoironici, per questi motivi io non presento mai di persona, ma uso una controfigura. (Sergio Garufi)

Una volta prima di una presentazione è andata via la luce in libreria. Io e la libraia abbiamo dovuto spostare tutti i tavoli con le copie e le tartine e i beveraggi in una zona più illuminata. Fatica inutile, perché non è venuto nessuno. Mi sono sentito stanco e depresso come non mai. Immaginavo che la libraia stesse pensando: “Questo porta sfiga”. (Christian Frascella)

Per Vorrei star fermo mentre il mondo va ricevo l’invito di una grande libreria per una presentazione infrasettimanale. Mi viene promessa (senza che avessi chiesto niente in merito) grande affluenza e decine di copie vendute. Come sempre accetto. Il giorno della presentazione ho 38,5° di febbre e pazienza, prendo una tachipirina, guido per 150 chilometri, mi identifico con la ragazza alla cassa. Lei sorride e si scusa: la persona che doveva introdurmi ha avuto un contrattempo e “se non è un problema” dovrei fare da solo. La sala è grande, direi con almeno ottanta posti a sedere, ma la libreria è deserta, e alla fine mi autopresento di fronte a cinque persone: la mia ragazza, un amico venuto con un collega, e due signore pericolosamente vicine ai novant’anni che per lunghi tratti, dalla prima fila, seguono l’incontro a palpebre calate e bocca schiusa. Un’esperienza mistica e formativa, lo dico senza ironia. (Simone Marcuzzi)

C’è questo sindaco di un paese del Nord, non faccio nomi… Pusiano, provincia di Como. È un mio grande ammiratore: continua a dirmi al telefono o per mail, e mi vuole assolutamente lì, a Pusiano sul lago di Pusiano, dove affaccia la foresteria del nobile palazzo del comune in cui sarò ambitissimo ospite. A un certo punto inizia a farmi telefonare dalla bibliotecaria… una voce orgasmica. Io resisto per un anno, anche alla bibliotecaria orgasmica. Poi, mi sembra troppo scortese e insomma parto. Mi faccio mille chilometri, tra auto e aereo e auto. E finalmente arrivo a Pusiano, nella favolosa foresteria con vista sul lago di Pusiano. In realtà, una squallidissima camerata con sei letti e bagno privo di asciugamani. Rapido trasferimento, dopo telefonata avvelenata, in albergo decente ma con vista su auto-scasso. Cena, alle sette di sera, con sindaco e bibliotecaria –orgasmica solo di voce – in ristorante non male sul lago di Pusiano con pesci di lago di Pusiano. Vabbene,  mi dico, guardando il sindaco che gongola come avesse davanti Milan Kundera, mentre mi scolo l’ultimo sorso di un barolo Conterno non male, ci ha tenuto tanto, avrà organizzato le cose in grande, ci sarà almeno tutto il paese di Pusiano, senza calcolare i villici limitrofi. Salgo la bella scala affrescata sotto la luce d’una telecamera. Entro e, compreso i due della tivvù, siamo in sette. (Gaetano Cappelli)

Quest’anno finalmente è capitato anche a me il lettore che fa l’intervento incongruo; un signore si è alzato e ha detto: «Sì, abbiamo capito che questi si amano e si lasciano, ma vogliamo spiegare se era colpa del sesso che facevano?» e da lì è partito un lungo sermone sulla sessualità tra gli anziani e l’incidenza dei divorzi dovuti alla frigidità. È stato buffo. (Claudia Durastanti)

Se un bravo libraio (un libraio vero, uno che decide in modo autonomo cosa far entrare in libreria, cosa esporre, cosa mettere in vetrina ecc.) decide di adottare il tuo libro, stai sicuro che lo venderà anche mesi dopo la presentazione. Ovviamente bisogna imparare a distinguere (ce ne sono in tutte le categorie) i cialtroni da quelli in gamba. Io, per esempio, ho un metodo abbastanza sicuro. Non anticipare MAI un solo euro. Chiedo giusto i biglietti elettronici del treno, una sistemazione confortevole per la notte, una cena non costosa ma buona. Se devono spendere questi soldi, cercheranno poi di recuperarli vendendo libri. Questo non vuol dire che io non prenda ogni tanto fregature. Ci casco anche io. Alcuni organizzatori di eventi culturali, per esempio, non pagano di tasca loro ma utilizzano piccoli finanziamenti pubblici o si appoggiano agli sponsor. In quel caso, attraverso brevi conversazioni telefoniche, cerco di capire se sono bravi organizzatori o gli interessa più ciò che resta (per loro) dal finanziamento che non l’incontro vero e proprio. E a ogni modo preferisco sempre quelli che pagano di tasca propria. Se la serata va male, almeno il danno e duplice. (Nicola Lagioia)

L’aneddotica da presentazione è sterminata per chiunque. Librerie semivuote (spesso più nelle grandi città che in provincia), matti di passaggio, situazioni grottesche (ho un amico – di successo – che si è trovato a presentare un romanzo in un’area di servizio). (Marco Rossari)

3. Il rapporto con gli altri scrittori

Forse non era così all’inizio, ma ora credo di vivere il confronto in modo sano. Quando leggo un libro veramente bello provo riconoscenza per chi l’ha scritto, e in genere se posso recupero un indirizzo e-mail per congratularmi e comunicare almeno un po’ del mio entusiasmo all’autore. Provo anche invidia, ma è un’invidia “buona”, che mi spinge a lavorare ancora per provare a scrivere qualcosa di così riuscito. Tutto il resto mi interessa poco: è chiaro che mi piacerebbe vendere tanto (cioè essere accanto a moltissime persone una alla volta), ma non per questo sento una vera competizione. D’altra parte caratterialmente non sarei in grado (che significa: non sarei all’altezza) di frequentare l’ambiente letterario per tessere rapporti e crearmi opportunità. Ho un altro lavoro che mi dà da vivere, quindi cerco di conservare una certa purezza intorno alla scrittura. (Simone Marcuzzi)

Tra gli scrittori che conosco, più o meno amici, sono due o tre quelli da cui mi aspetto di leggere cose belle. No, per l’esattezza sono quattro. Quando questo succede, il piacere della lettura riesce a farmi astrarre dai rapporti di prossimità e amicizia. Quindi mi godo il libro. E non voglio dire di essere totalmente immune dall’invidia, ma nel loro caso sono quasi solo felice se il loro libro andrà bene e lo consiglio il più possibile. Sapere invece che scrittori che non stimo hanno successo non è un pensiero molto più profondo o disturbante del sapere che qualcuno ha un paio di scarpe che non posso permettermi. (Veronica Raimo)

Siccome ho pubblicato solo libri minori e vago nel purgatorio di chi scrive cose pseudocomiche (“Non ti prendi abbastanza sul serio” è l’accorato ammonimento che mi viene periodicamente rivolto), non patisco molto il confronto. Cioè, detesto l’esistenza degli altri scrittori come chiunque altro, ma con discernimento. Innanzi tutto, a differenza di tanti, non ho quell’atteggiamento fascistoide di cercare solo cose simili a me, ai miei gusti. E di imporre una poetica: quelli contro lo stile perché non hanno stile, contro la trama perché non hanno trama, eccetera. Mi piace cercare in ogni scrittore la cosa più sua. Gli amici li preferisco strambi, non aderenti a una mia idea. Per i libri, vale lo stesso. Poi se uno scrive una cosa bella, parrà impossibile ma sono contento. Non tanto per lui, quanto per la scrittura, la letteratura, chiamala come ti pare, l’idea in generale che girino cose scritte bene. Mi urta solo vedere incensato un libro che trovo brutto. (Marco Rossari)

«Come diceva Gore Vidal, “ogni volta che un amico ha successo, muoio un po’”». (Masneri)

Non credo di avere competizione, ma invidia verso lavori che avrei voluto scrivere io. Ci sono state alcune volte che mi sono indignato per favoritismi sui giornali o editoriali con libri insulsi, insomma quando c’è di mezzo un potere antecedente: lì mi incazzo proprio. Diverso è quando un libro bello si è finalmente meritato l’appoggio di un editore che ci crede veramente: “libro buono editore che punta” è un legame che mi piace molto. (Marco Missiroli)

Per fortuna vivo competizioni interiori, e basta. Quando leggo un bel libro di un collega sono contento, perché sono un lettore appagato. Ma sono anche molto esigente. (Christian Frascella)

Il solo confronto che accetto è quello con gli autori e i libri che ammiro. Quindi è uno sprone. Non contemplo alcuna altra forma di “competizione” tra scrittori. (Paolo Giordano)

Non vivo alcun confronto e alcuna competizione. Così posso leggermi i libri degli scrittori miei contemporanei in pace, senza paragoni impliciti, invidie, sensi di rivalsa. Se ammiro quello che hanno scritto glielo dico il più chiaramente possibile. Se invece lo disprezzo, non gli dico niente. Considero questa mia assenza di spirito agonistico una grande fortuna. (Ernesto Aloia)

Penso che negare la competizione sarebbe ipocrita, ma occupa uno spazio davvero residuale nel modo in cui mi rapporto a scrittura e pubblicazione. È che ho sempre altri autori in testa: non è indifferenza verso il contesto, ma quando scrivo è più facile che stia pensando a Clarice Lispector o Joan Didion che non al mio coetaneo che è finito in classifica. Bloom sarà bacchettone, ma ha ragione quando dice che devi stare attento a sceglierti i maestri e ancora di più i nemici: il rancore o l’insicurezza che provo sono rapportati soprattutto a me stessa. Quest’anno in Italia sono usciti romanzi molto buoni, magari pubblicati da autori che non rientrano tra i miei modelli. Ecco, in quella circostanza io penso al libro: se mi è piaciuto lo promuovo, ne parlo, in casi eccezionali lo scrivo all’autore. Se non mi è piaciuto, non mi lascio andare a provocazioni: non è che finiremo nelle antologie del prossimo secolo come Capote che insulta Joyce Carol Oates. Detesto la gentilezza cloroformizzata e credo che sia giusto stroncare anche lo scrittore migliore di una generazione se non ha fatto un libro all’altezza delle aspettative, fa parte del gioco, ma mi aspetto che quella stroncatura sia responsabile, non per forza elegante, ma che dica a quello scrittore dove può migliorare, se può migliorare. Sono allergica a movimenti, cordate e scuole di pensiero e non penso che abbiamo bisogno di tutti. Le affinità tra scrittori si creano spontaneamente, ci sono quelli di cui speri sempre di avere la stima, ma se non succede amen. (Claudia Durastanti)

Per anni, ero talmente distaccato dal gruppo che, mentre pedalavo in solitaria, potevo perfino avere la sensazione d’essere il primo. Dallì, assistevo all’intronizzazione del genio del momento e al suo naturale affossamento. E quanti ne ho visti scomparire, ma, dioddio, mai mi sono divertito tanto come per il caso umano di Busi. Il più grande scrittore vivente che non trova più nessun editore disposto a pubblicarlo è romanzesco puro! Per il resto sono un curioso e certo mi capita di leggere i loro romanzi, e anche se spesso ne resto deluso, quando non disgustato – come con tutti gli altri romanzi – trovo una caduta di stile l’idea che uno scrittore italiano possa giudicare altri autori italiani; almeno per iscritto, perché poi, con quelli che ho come amici, che gran risate ci facciamo. (Gaetano Cappelli)

«Onoro l’arte, ho i miei santi, i miei eroi. Auspico uno spirito idealistico e missionario ai limiti del settarismo. Ma un settarismo fondato sull’obiettiva, quasi impersonale constatazione che un libro è importante, bello. Confronto e competizione, ai livelli d’eccellenza in cui immagino i santi del mio paradiso, non hanno veramente senso». (Tedoldi)

Quando esce un libro bello di qualcuno che conosco reagisco credo come tutti, cioè, come diceva Gore Vidal, «ogni volta che un amico ha successo, muoio un po’». È meglio con gli sconosciuti: quando esce un esordiente italiano che funziona per me (e quindi soprattutto ha una lingua che funziona, per me conta quasi solo quello) sono felice, incuriosito, entusiasta (poi, dopo, penso: ma chi sarà, questo maledetto?). (Michele Masneri)

Un po’ per scherzo (e quindi un po’ sul serio) penso davvero che sarebbe salutare se gli scrittori si odiassero tra loro. Mi fa alquanto ribrezzo questa promiscuità, questo ridicolo spirito di gruppo, o di corpo. A volte c’è quasi un elemento compassionevole, ridicolamente altruistico: “Ha scritto un bellissimo libro, voglio fare qualcosa per lui”. Sono cose schifose in cui si può cadere. E di fatto ci casco anche io. Però in questo tipo di comportamenti bisogna andare alla radice: io, per quanto possa odiare una persona, se leggo il suo libro e il suo libro mi conquista per una qualche ragione, la parte obiettiva della mia personalità mi impone di dare il mio consenso. Questa parte obiettiva è poi la stessa che si agita finché io non faccio qualcosa che comunica agli altri il mio entusiasmo per il libro. Dal che sembra che io sia uno di quelli che compassionevolmente, volontaristicamente, si inorgoglisce di aiutare gli scrittori che gli piacciono. Non è così, io onoro l’arte, ho i miei santi, i miei eroi. Auspico uno spirito idealistico e missionario ai limiti del settarismo. Ma un settarismo fondato sull’obiettiva, quasi impersonale constatazione che un libro è importante, bello. Confronto e competizione, ai livelli d’eccellenza in cui immagino i santi del mio paradiso, non hanno veramente senso. Noi siamo come Buddha e Cristo e Lao Tse. Mi spiace suonare grottescamente mistico, ma più che competere allora preferirei annullare un altro scrittore. Azzerarlo. Il che mi riesce abbastanza bene quando scrivo le mie cose: non penso quasi per nulla agli altri. Mi auguro che facciano altrettanto nei miei riguardi, quando scrivono i loro libri, perché il contrario non gli sarebbe di alcun aiuto. (Giordano Tedoldi)

Ho una comunità di scrittori e scrittrici con cui mi confronto e del loro giudizio ne tengo conto come un responso sacro. Sento spesso degli altri scrittori la loro bile rispetto alle vendite, rispetto alla mia visibilità ma anche ad una certa scelta, come dire di non cedere sulla scrittura eppure provare ad arrivare ad un pubblico grande. In fondo gli scrittori italiani (non tutti per fortuna) si scannano tra loro per rosicchiare un ossicino di mercato che non ha più polpa da anni e di midollo ne è rimasto pochissimo.  Per capire quando sei di fronte a un cattivo narratore ancor prima di leggere le sue pagine, se parla male di ogni scrittore cercando di raccontarti i retroscena, i segreti, le grandi operazioni commerciali i suoi gossip, beh spesso sei difronte a un mediocre. Metro (quasi) infallibile. (Roberto Saviano)

 

Nelle immagini, foto dal magazzino Amazon di Brieselang, nel Brandeburgo. Sean Gallup / Getty