Attualità

A. Payne e il cinema indie Usa

Storia del regista di Paradiso Amaro, candidato a cinque Oscar, e del concetto di indipendente a Hollywood

di Federico Bernocchi

Difficile dare una definizione precisa di cinema indipendente americano, soprattutto se pensiamo agli anni che hanno caratterizzato la fine dell’ultimo secolo. C’è stato un momento in cui Hollywood s’è resa conto del potenziale di un cinema a lei estraneo. Un modo di pensare e realizzare cinema diverso per budget, metodo produttivo e tematiche. Perché, se proprio vogliamo dare una definizione di quella corrente, di questo si tratta. Registi che portano a casa i loro film spendendo poco, con troupe poco numerose e trattando temi che solitamente non interessano il cinema cosiddetto mainstream. Facciamo qualche titolo esemplificativo. Nel 1994 escono Vento di Passioni Clerks. Il primo è una storia familiare piagnucolosa, ambientata nei primi del ’900 dove, a un certo punto, tra un violino e un altro, un personaggio che si chiama Tristan (Brad Pitt) guida al rallentì una decina di cavalli selvaggi più pettinati di lui. Clerks racconta di un commesso di una videoteca e del suo amico che sta al banco di un drugstore. È girato in bianco e nero e per la maggior parete del tempo si trattano argomenti come la misteriosa esistenza dell’autofellatio o del socialismo applicato a Star Wars.

Non vogliamo qui dare giudizi come “meglio o peggio”. Si vuole solo evidenziare due modi antitetici di intendere il Cinema negli stessi anni e nello stesso paese. Ma succede una cosa: accade che il pubblico impazzisce per due losers che parlano di Guerre Stellari. Capita che, avendo speso pochissimo, il guadagno in relazione a quello di un film il cui budget è simile al P.I.L. del Mozambico (sempre Vento di Passioni) è significativamente superiore. Quindi si verifica la strana circostanza per cui Hollywood si interessa al non Hollywood. Dal 1995 in avanti il cinema mainstream americano ha cominciato alcune lente mosse di avvicinamento al cinema indipendente americano. Anche in questo caso, per aiutarci, facciamo un titolo: American Beauty. L’esordio di Sam Mendes, scritto dall’outsider Alan Ball (creatore di quel capolavoro assoluto che è Six Feet Under) è un esempio piuttosto chiaro di questa tendenza: si raccontano storie di “perdenti” in modo distante dal canone narrativo americano, ma lo si fa in quel circuito da cui un tempo si scappava. American Beauty si porta a casa cinque Oscar tra cui Miglior Film, Miglior Regia e Miglior Sceneggiatura.

Le conseguenze non si fanno attendere. L’Industria – quella pesante, quella con la I maiuscola – corre ai ripari e tenta di accaparrarsi il regista “più indipendente” in circolazione. Un festival come il Sundance, fino a quel momento guardato con un certo disprezzo, diventa un serbatoio pressoché inesauribile di nuove leve da gettare sul mercato. Nomi come quello di Terry Zwigoff, che in sole tre mosse passa dal documentario su Robert Crumb del 1994, a Ghost World, adattamento del fumetto omonimo di Daniel Clowes nel 2001 alla commediona Babbo Bastardo del 2003. Oppure come James Mangold che nel 1995 con il suo esordio Dolly’s Resturant vince il Premio Speciale della Giuria proprio al Sundance e che in men che non si dica si trova al Kodak Theatre con Ragazze Interrotte prima (uno degli Oscar più misteriosi della Storia dell’Umanità, vinto da Angelina Jolie) e con Quando l’Amore Brucia l’Anima poi (altra misteriosa statuetta omaggiata a Reese Whiterspoon). O ancora il caso David O. Russell che esordisce nel 1994 con il piccolissimo Spanking The Monkey e che solo tre anni dopo gira un film come Three Kings con un cast che vanta stelle del calibro di George Clooney e Mark Whalberg. Quest’ultimo verrà di nuovo utilizzato da O. Russell per il suo fortunatissimo The Fighter. Insomma, più che mille non più mille, indie non più indie.

In questo contesto si inserisce un personaggio paradigmatico come Alexander Payne. L’esordio, La Storia di Ruth – Donna Americana, è datato 1996. La trama è quella di un’incallita sniffatrice di colla (Laura Dern) che si scopre incinta. La sua storia diventa il pretesto per una battaglia tra antiabortisti e chi invece sostiene la libertà di scelta. Il film è forte e decisamente provocatorio: l’idea è quella di mettere al centro una protagonista per cui è difficile provare simpatia e mostrare luci e ombre dei gruppi che la attaccano o la difendono, andando contro tutti gli stereotipi. Tre anni dopo Alexander Payne gira quello che è ad oggi il suo capolavoro: Election. La storia è quella di un modestissimo professorino di un liceo di provincia (un Matthew Broderick ritirato fuori dal magico cilindro del teen movie americano anni Ottanta) che si trova a contrastare con ogni mezzo a sua disposizione l’ascesa della candidata alla presidenza del consiglio studentesco, una petulante Reese Whiterspoon. Election è una commedia geniale, impregnata di cinismo e cattiveria che riesce nella difficile impresa di preservare una libertà tematica invidiabile pur essendo già realizzata in maniera molto più mainstream del precedente film.

Alexander Payne viene scelto come rappresentante del cinema indipendente americano e infilato a forza sotto l’ala produttiva di Hollywood. Che lo ripaga in maniera quantomeno bizzarra: nel 2001 lo mettono a firmare la sceneggiatura di un film come Jurassic Park III (a quanto pare è sua anche una prima stesura, non accreditata, di Ti Presento i Miei). Ma Payne per i suoi progetti personali sviluppa una sua poetica. Con i successivi A Proposito d SchmidtSideways – In Viaggio con Jack, Payne diventa l’esempio più lampante di un’aggressività latente del nuovo cinema indipendente americano. Lo sguardo del regista è dall’alto verso il basso; sembra divertirsi nel giudicare quella piccola America che fino a pochi anni prima era arrivata ad essere protagonista di questa nuova ondata di film. Alexander Payne mette in scena un mondo in cui ci si può concedere il lusso di prendere in giro piccoli provincialotti trentenni con il mullet che ascoltano i Van Halen nel 2000. Cinema indipendente passato totalmente dall’altra parte della barricata: grandi attori in piccole storie piuttosto banali la cui principale fonte d’intrattenimento è il disprezzo verso il prossimo. Grossa parte del pubblico sembra abboccare (come farà poi in massa con il caso Little Miss Sunshine dove il grado d’indipendenza del film è dato dal numero di righe dei calzini dei protagonisti) e il cinema di Alexander Payne diventa una scusa per far sentire più colti e raffinati coloro che hanno sempre fieramente riempito i multisala per le commedie con Rob Schneider e che oggi invece vanno a vedere un film su uno scrittore fallito che apprezza il buon vino (ma che poi scappa nudo da una finestra dopo aver fatto l’amore con una ciccione redneck e ubriaca).

Non nutrivo quindi grosse aspettative per The Descendants, ultima pellicola di Payne che gli ha fruttato fino ad ora cinque candidature agli Oscar e già due Golden Globe (Miglio Attore, George Clloney e Miglior Film Drama). Paradiso Amaro, questo il titolo italiano, è un buon film. Ormai il concetto di film indie fa parte del cinema mainstream americano e nessuno si sconvolge più nel vedere una stella come George Clooney in ciabatte e occhiaie o davanti a una storia di famiglie disfunzionali. Una volta assorbito questo genere, si riesce anche ad evitare sgradevoli barricate tra chi è loser inloser outParadiso Amaro evita accuratamente ogni tipo di giudizio di fronte ai personaggi che mette in campo. Certo, Payne è più interessato alla scrittura che alla regia, sempre piuttosto convenzionale, ma qui sembra essere più a fuoco del solito. Ovviamente non mancano quelle macchiette che dovrebbero subito far pensare al peggio (l’innocente bambina paffutella incapace di non dire la verità o l’idiot savant in attesa di epifanie), ma s’è aggiustato il tiro, è diminuita la spocchia e s’è centrato il bersaglio.