Cultura | Libri

Camminare per raccontarlo

Dai libri alla politica: per alcuni è un'azione che sta perdendo il suo valore, per altri non è mai stata così di moda.

di Fabrizio Spinelli

Nel 1910 il venticinquenne Aldo Palazzeschi compone una delle sue poesie più antologizzate semplicemente trascrivendo i nomi dei negozi e le insegne commerciali in cui si imbatte durante una passeggiata. Anche se, con ogni probabilità, lo scrittore fiorentino ha inventato tutto di sana pianta, la poesia ci dimostra come sia cambiata, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, l’esperienza di un camminatore solitario: la società di massa, l’industrializzazione, l’elettricità, hanno reso in pochi decenni irriconoscibile il paesaggio urbano, modificando irreversibilmente la psiche di chi vi cammina.

Se camminare altro non è che leggere uno spazio, leggere non è altro che camminare attraverso un testo

Peccato che Rebecca Solnit, saggista statunitense e autrice di Storia del camminare (che Ponte alle Grazie ha appena ripubblicato dopo un’edizione Mondadori del 2000, trad. it. di Gabriella Angrati e Maria Letizia Magini), non abbia familiarità con la letteratura italiana. Il libro è una storia del camminare abbastanza singolare, poiché non procede secondo un ordine lineare (come ad esempio un’altra opera preziosa sullo stesso tema, Walkscapes di Franco Careri) ma per macrosezioni tematiche (tipo: “camminare e pensare”; “camminare in campagna”; “camminare in città”) in cui i singoli capitoli sono incastonati in una cornice autobiografica che accompagna blandamente la trattazione vera e propria. In un piccolo riquadro rettangolare sotto il testo, scorrono citazioni composite sull’argomento, dai Vangeli a Ivan Illich. L’idea di fondo è quella di una sostanziale equivalenza tra leggere e camminare: se camminare altro non è che leggere uno spazio, leggere non è altro – secondo una metafora così automatica da essersi calcificata nel nostro linguaggio – che camminare attraverso un testo. «Le storie dunque sono viaggi, e i viaggi storie. È perché immaginiamo la vita come un viaggio che […] tutte le camminate hanno tanta risonanza. È difficile immaginare l’opera dell’intelletto e dello spirito, come è difficile immaginare la natura del tempo; per questo tendiamo a metaforizzare tutti gli oggetti intangibili come oggetti fisici collocati nello spazio. In questo modo il nostro rapporto con essi diventa fisico e spaziale: ci muoviamo verso di essi o ci allontaniamo da essi». La Solnit non vuole quindi percorrere la via più breve per arrivare da un punto A a un punto B, ma perdersi in digressioni, tracciare lente circonvoluzioni, sbagliare strada, conversare.

 

Secondo la Solnit la pratica del camminare si sta lentamente estinguendo, e con essa (ecco la tesi) il fondamento stesso della democrazia moderna. Questo fondamento risiederebbe nell’appropriazione, da parte del popolo, di uno spazio pubblico, le strade, e di una loro trasformazione in un territorio politico. Ciò sarebbe accaduto tra il XVIII e il XIX secolo in virtù di differenti fattori, su tutti il diffondersi dei principi dell’illuminismo e la lenta modernizzazione delle grandi città, che fino ad allora versavano in drammatiche condizioni igieniche, ed erano prive di infrastrutture basiche come marciapiedi, tombini, lampioni (attraversarle, soprattutto di notte, era insolito e pericoloso), aspetti che limitavano fortemente la libertà urbana. Insomma, con la rivoluzione francese si apre «l’età dell’oro del camminare», che, ci dice ancora la Solnit, può essere considerata conclusa già nel 1970, quando, solo pochi anni dopo le manifestazioni studentesche di Berkeley e NY, da un censimento risultò che la maggioranza dei cittadini americani abitava in zone suburbane. Il sobborgo suburbano, vero e proprio Angra Mainyu del passeggiatore, era di fatto destinato ad erodere l’esperienza del camminare: «Il camminare (così come qualsiasi altro sforzo fisico), seguendo il processo di deprivazione sensoriale caratteristico dell’uomo contemporaneo, si è così ridotto ad essere un puro esercizio ricreativo da svolgere al chiuso (il tapis-roulant), un’attività privata della sua millenaria funzionalità. Se percorrere uno spazio pubblico, soprattutto collettivamente, risulta un’esperienza sempre più rara nelle città del XXI secolo (e non a caso molte pagine del libro sono dedicate a descrizioni di feste pagane, manifestazioni, processioni e pride a cui l’autrice ha preso parte), presto quest’esperienza scomparirà definitivamente».

È difficile essere d’accordo con la Solnit, nonostante l’arguzia con cui descrive le diverse evoluzioni sociali e simboliche del camminare

La città è un linguaggio, un’enciclopedia che viene attivata dai piedi di chi vi transita. La città del futuro è perciò una città muta, «una lingua morta le cui frasi colloquiali, le facezie e le imprecazioni sono destinate a scomparire, anche se la sua grammatica formale sopravviverà». È difficile essere d’accordo con la Solnit, nonostante l’arguzia con cui descrive le diverse evoluzioni sociali e simboliche del camminare. Da un lato, se è vero che, storicamente, il camminare, e soprattutto il confondersi nella folla, si è sempre accompagnato a un certo livellamento delle differenze sociali, a una commistione di alto e basso, di sublime e degradato (per il passeggiatore «le cose più sublimi e le più umili, le più serie come le più allegre, sono in ugual misura care, belle e preziose. Neppure una traccia di ombroso amor proprio deve albergare nel suo animo, ma bensì egli deve lasciare che il suo sguardo sollecito erri e si posi dappertutto con spirito fraterno, deve saper aprirsi solo alla vista e all’osservazione, e viceversa essere capace di tenere a distanza i suoi propri lamenti, bisogni, mancanze, rinunce» scrive Robert Walser in La passeggiata), ciò non ci permette di non ritenere faziosa l’ingenua equivalenza camminare in strada = democrazia = Bene che ci viene propugnata a ogni torno di pagine (in strada hanno avuto luogo anche le parate nazionalsocialiste degli anni ’20, ad esempio, o la recente marcia suprematista di Charlottesville).

England, 1967, Richard Long

 

Dall’altro, proprio negli ultimi anni, abbiamo assistito a una vera e propria “walking revolution”, in molti casi favorita da quella stessa tecnologia che l’autrice riteneva mortale. Dai contapassi, alle app motivazionali, al bitwalking, a esoscheletri robotici che permettono alle persone paraplegiche di tornare a camminare, senza considerare le infinite evoluzioni dell’equipaggiamento e dell’abbigliamento tecnico. Inoltre, sono sempre di più le amministrazioni comunali che hanno sposato i famosi Aalborg commitments, le dieci direttive in materia di sostenibilità ambientale che riguardano nello specifico lo sviluppo dei centri urbani. Il punto 6 si impegna di garantire un numero sempre crescente di mq percorribili a piedi (aree pedonali, zone a traffico limitato, parchi) e a ripensare quartieri progettati per uno spostamento esclusivamente automobilistico.

Ma soprattutto camminare è, in questo momento, allo zenit del suo hype. Da marzo, oltre a Storia del camminare, sono usciti in Italia almeno altri tre volumi sull’argomento: Camminare di Thomas Bernhard (Adelphi), A piedi di Paolo Rumiz (Feltrinelli) e ancora Camminare, ma di Erling Kagge, esploratore e collezionista d’arte norvegese (Einaudi). La rivista che ho trovato sul sedile del Frecciarossa su cui sto viaggiando mi consiglia di togliermi le scarpe e iniziare un lungo viaggio a piedi scalzi nei boschi. Secondo le stime dell’Oficina del peregrino, nell’ultimo ventennio il numero delle persone che percorre il cammino di Santiago è decuplicato, passando dai 30.126 pellegrini del 1998 ai 301.036 del 2017 (e il trend è in ulteriore crescita). Ancora più rilevanti le statistiche inerenti la via Francigena, per quanto probabilmente contengano un margine più ampio di errore (si tratta di un cammino che da Canterbury arriva a Roma, e che di solito viene percorso solo parzialmente, non nella totalità dei suoi 1900 km): dai 2.500 pellegrini del 2012 stimati da una oscura guida inglese, ai 40.000 che il sito ufficiale registra nel solo 2017.

 

Se il numero delle persone che decidono di intraprendere un viaggio a piedi è in continuo aumento, per motivi religiosi (quasi mai), artistici, spirituali, legati al benessere personale, o semplicemente per rendersi più interessanti alle cene di lavoro, in continuo aumento è anche il ventaglio delle offerte per camminatori: dal pole walking (quello con i bastoncini) all’urban trekking, dal barefooting al deep walking (quello con cui, ad occhio, potreste rimorchiare di più). In Europa si sta gradualmente diffondendo, attraverso gli Stati Uniti, il mall walking, una pratica per cui gruppi di persone (solitamente donne over 50 e uomini in aria di obesità) si incontrano nei centri commerciali con indosso magliette traspiranti, pantaloncini attillati e scarpe da ginnastica per percorre a passo spedito anche 10 km al chiuso. I mall-walkers, di solito attivi di primissima mattina, talvolta anche senza compagnia, apprezzano particolarmente l’aria climatizzata dei grandi centri commerciali, la loro sicurezza, le loro superfici lisce e il facile accesso a bagni e fontanelle per bere.

Privata della sua funzionalità, camminare è diventata un’attività ricreativa dall’altissimo gradiente estetico e simbolico

Al di là delle semplici motivazioni salutistiche ed ecologiche, le ragioni di un simile fenomeno culturale vanno cercate, a mio avviso, più indietro negli anni. Privata – come nota la Solnit – della sua funzionalità, camminare è diventata un’attività ricreativa dall’altissimo gradiente estetico e simbolico. Tendenza iniziata, probabilmente, dalle azioni di certi land artists. Nel 1967 Richard Long realizzava la sua opera più famosa, A Line Made by Walking, la fotografia di una linea retta “scolpita” nel paesaggio semplicemente calpestando l’erba che ricopriva il terreno. Nello stesso periodo lo scultore Carl Andre esponeva una serie di opere che erano come il negativo di quelle di Long, dei lunghi piedistalli appiattiti (solitamente in acciaio, ma non di rado in legno o cemento), che funzionavano come delle piccole strade (lo spettatore al loro cospetto non sa se seguirle, camminare intorno oppure salire sopra e passeggiarci). Le mostre di Hamish Fulton, di poco più giovane di Long, consistono tutt’ora nell’esposizione di documenti raccolti o prodotti durante le sue escursioni a piedi: grafici con le altezze altimetriche sorpassate, fotografie, brevi poesie zen scritte su pezzi di carta o stampate in caratteri macroscopici sui muri, mappe a grande scala con sopra tracciati con il pennarello gli itinerari percorsi, oggettistica varia.

A Line Made by Walking 1967, Richard Long

 

Per quanto appesantito da un’eccessiva base ideologica, solo in parte giustificata dal fatto che sia stato scritto alla fine degli anni ‘90, Storia del camminare rimane una lettura consigliatissima. In uno dei capitoli più riusciti, quello dedicato alla letteratura sul camminare, l’autrice individua un nodo tematico particolarmente problematico: «Verso la fine del XIX la parola vagabondo “tramp” e il relativo verbo vagabondare erano diventati popolari tra gli scrittori del camminare, come anche i termini girovago e zingaro e, più lontano in un mondo diverso, nomade, ma giocare a fare il vagabondo e lo zingaro è pur sempre un modo per dimostrare di non esserlo realmente. Bisogna essere complessi per volere la semplicità, stabili per desiderare questa forma di mobilità. Diversamente da Bruce Chatwin, i beduini non fanno giri escursionistici a piedi».

Ciò che i grandi scrittori del camminare condividono è la loro condizione di maschi bianchi in perfetta salute fisica, generalmente benestanti

Ciò che i grandi scrittori del camminare condividono è, nota giustamente la Solnit, la loro condizione di maschi bianchi in perfetta salute fisica, generalmente benestanti, insieme all’essere mossi come da «una inclinazione vagamente clericale» che li porta ad arrogarsi una superiorità morale che traspare fastidiosamente dalle loro pagine (in un capitolo successivo, è ripercorsa anche la storia del camminare femminile, una storia dimenticata, fatta di restrizioni, impedimenti, pregiudizi e vere e proprie torture). Ma, soprattutto, in tutti gli autori presi in considerazione (da Wordsworth a de Quincey e Chatwin), l’autrice nota come non sia mai messo in discussione il rapporto tra uomo e natura: si dà ingenuamente per scontato che la forza ristoratrice di una passeggiata possa ristabilire un accordo profondo tra l’uomo moderno e il suo ambiente circostante, rigenerare quell’unità di senso la cui frantumazione è sempre stata considerata come marchio del moderno. La natura, insomma, come difesa dalla storia.

 

Una simile prospettiva sembra inaccettabile per il nature writing contemporaneo. I più interessanti libri sul camminare apparsi negli ultimi anni (Le antiche vie di Robert Macfarlane, London Orbital di Iain Sinclair, Gli anelli di Saturno di W. G. Sebald) partono proprio da un approccio complesso e ultracritico al rapporto uomo-natura. Se in Sebald c’è come un diaframma impalpabile ma insormontabile tra soggetto e ambiente circostante, sicuramente danneggiato dalla presenza dell’uomo, ma a sua volta per niente innocente («i poteri gemelli della natura e della storia annientano qualsiasi inadeguata difesa il genere umano possa preparare, inevitabilmente portando insignificanza, perdita e morte»), in Macfarlane e soprattutto in Sinclair l’esperienza della natura che ci viene riflessa è confusa e ibrida. Molte pagine di London Orbital sono occupate, ad esempio, dalla descrizione dell’effetto natura che gli urbanisti hanno provato ad applicare alle aree intorno alla M25, l’anello autostradale che circonda la Greater London.

I libri citati sono opere ibride. Leggendoli, si ha l’illusione di spiare un pensiero che si forma sotto i nostri occhi

«Il confine tra letteratura del camminare e scrivere della natura non è ben definito, ma gli scrittori della natura tendono, nella migliore delle ipotesi, a rendere il camminare implicito, a farne un mezzo per gli incontri con la natura che descrivono», aggiunge ancora la Solnit, ed è impossibile darle torto. Se scrivere della natura può risultare difficile, scrivere del camminare, non del camminare come mezzo ma del camminare come “oggetto” (un’azione – a meno di deficienze fisiche o altre costrizioni – totalmente implicita) è praticamente impossibile. Non a caso i libri citati sono opere ibride, a metà strada fra racconto e saggio (o tra prosa e poesia, nel caso di Sinclair), in cui c’è un rovesciamento di sfondo e figura, un’inversione tra il ruolo della digressione (preminente) e quello della narrazione (secondario). Il loro soggetto è il contesto in cui sono ambientati. Leggendoli, si ha l’illusione di spiare un pensiero che si forma sotto i nostri occhi. «Nulla è più istruttivo del veder camminare uno che pensa», scrive Bernhard in Camminare, (in teoria un libro di fiction, anche se molto più simile a una disquisizione di filosofia del linguaggio che a un romanzo breve), «così come nulla è più istruttivo del veder pensare uno che cammina, per cui possiamo dire senz’altro che vediamo come pensa colui che cammina, così come possiamo dire che vediamo come cammina colui che pensa, perché vediamo camminare colui che pensa e viceversa vediamo pensare colui che cammina e così via, dice Oehler. Camminare e pensare sono in un rapporto costante di reciproca intimità, dice Oehler. La scienza del camminare e la scienza del pensare sono in fondo un’unica scienza».