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La diplomazia a un diplomatico


Qualcuno ha definito il Consiglio dei ministri che è stato presentato oggi come il “governo dello spread.” Che l’economia – e, nella contigenza più stretta, la credibilità davanti ai mercati internazionali – sia la priorità della squadra Monti è sicuro. Eppure non vanno prese sotto gamba le sfide diplomatiche che il nuovo esecutivo dovrà affrontare, che peraltro della “riabilitazione economica” fanno parte.

Senza troppi giri di parole: nei prossimi mesi il nuovo capo della diplomazia dovrà riorganizzare le relazioni con l’Unione europea, e in particolar modo il rapporto difficile con Francia e Germania, confrontarsi con degli Stati Uniti che si stanno preparando a una fase di transizione. Dovrà trovare una voce credibile nei confronti delle economie emergenti (formula ricorrente ma infelice, visto che sono emerse già da un decennio) come Cina e Brasile; mettere a punto una strategia efficace per rilanciare il rapporto economico con la nuova Libia e una formula sostenibile per i nostri interessi in Russia e in Iran. E, possibilmente, sfruttare i recenti cambiamenti in Medio Oriente e la nostra posizione geografica per trovare il modo di estendere l’influenza italiana nella regione, instaurando con l’islam sunnita un rapporto all’insegna dello “smart power” – per utilizzare un’espressione cara a Hillary Clinton.

Ora, non so se Giulio Terzi di Sant’Agata, appena nominato a capo degli Esteri, abbia tutti i numeri per farlo. Certo, il suo curriculum – e in particolare le cariche ricoperte all’ambasciata di Tel Aviv e a quella del Palazzo di Vetro – lascia intendere una conoscenza approfondita dei nodi più caldi delle relazioni internazionali e dunque pare una buona premessa.

Si potrebbe parlare di deficit di democrazia, certo, visto che come la stragrande maggioranza dei suoi colleghi nuovi ministri, Terzi di Sant’Agata non è stato scelto dagli italiani. Non è questa la sede per discutere una questione così complessa. Si potrebbe fare notare, forse, che negli Stati Uniti il Segretario di Stato è quasi sempre un diplomatico di carriera, tanto che Hillary Clinton rappresenta più un eccezione che la regola. Si potrebbe ribattere che il sistema politico americano è molto diverso, che è un presidente eletto dal basso a conferire la sua legittimità ai suoi tecnocrati. Verissimo. Ma ciò non toglie che talvolta lasciare la diplomazia ai diplomatici può tornare utile.

Anna Momigliano