Teorema di Pasolini, Tre passi nel delirio di Fellini, Una stagione all'inferno di Nelo Risi e molti altri: negli anni '70 Stamp, morto il 17 agosto a 87 anni, fu "adottato" dal cinema italiano.
Stati Uniti, una cittadina di provincia. Tutte le case si somigliano, villette di uno o due piani con i tetti a falda, in una sobria rivisitazione dello stile neocoloniale e di quello folk vittoriano, con verande che affacciano su vialetti puliti e marciapiedi curati. Alle loro spalle incombe una vegetazione disordinata, pronta – sembrerebbe – a inghiottire tutto l’abitato. Gli edifici pubblici sono bassi e squadrati, in mattoni rossi, qui e là spuntano drugstore e pompe di benzina. È l’America apparentemente sonnolenta di film come Il Giardino delle Vergini Suicide, The Myth of the American Sleepover, Welcome to the Dollhouse o Elephant. Cosa succede in quelle tavernette? In quegli scantinati? In quei cortili difesi da anonime facciate silenziose e severe?
Qualcuno pensi ai bambini
Una notte, alle 2 e 17, i bambini della terza elementare della maestra Justine Gandy (Julia Garner) si svegliano, escono di casa, e spariscono silenziosamente nell’oscurità della notte, senza lasciare tracce o indizi. Il giorno dopo solo un bambino, Alex, si presenta in classe. Che fine hanno fatto? Perché solo gli alunni della Justine? È lei la colpevole, deve sapere, così decidono i genitori, frustrati e fuori di senno. Inizia così Weapons, il nuovo film Zach Cregger.
L’horror è il genere cinematografico più mutevole, vivace ed estemporaneo, ha per sua natura (eccentrica, anarchica) la capacità di intercettare le istanze del contemporaneo più del dramma o di altri generi (per quanto oggi possa essere sempre più complesso andare a identificarli con certezza). Questioni razziali, sociali, sessuali… Decennio dopo decennio l’horror è riuscito a leggere e a reagire alle complessità che ci hanno investito: dalla dimensione politica (la guerra, il terrorismo), a quella domestica (famiglie disfunzionali, traumi e possessioni). Eccolo allora, il cinema dell’orrore, essere il primo tra gli altri in grado di rinnovarsi, di mutare, di emergere con nuovi linguaggi, nuovi format, nuove ossessioni, nuovi volti (e nuovi corpi), nuovi filoni e… Nuovi epigoni.
Oggi, a più di dieci anni da It Follows (David Robert Mitchell), stiamo ancora facendo i conti con l’ondata dell’elevated horror (per chi crede in questa definizione). Cuckoo di Tilman Singer, con Hunter Schafer alle prese con un inquietante mistero in un inquietante hotel sperduto in un inquietante bosco; Strange Darling di JT Mollner, storia di serial killer e inseguimenti all’ultimo sangue tutta plot twist; Longlegs di Osgood Perkins, un horror alla ricerca dell’assassino con Nicolas Cage; Bring Her Back (Danny e Michael Philippou), orfani alle prese con il lutto e una madre affidataria da incubo… La sensazione generale è di trovarsi di fronte un solo unico grande film, liquido ma sempre uguale, un palinsesto di formule. Musica elettronica tesa, immagini simmetriche, impianto algido con exploit gore improvvisi e schifosi ma ben ordinati, il marchio è quello di A24 e Neon.
Believe the hype
Al di là degli algoritmi ci sono intenti, mode, tendenze e (forse) scuole, ma il catalogo dei film in sala (o in streaming) sembra segnare un netto aumento e quindi un appiattimento delle proposte. Ecco allora subentrare, allo stupore, all’orrore, allo sgomento, la prevedibilità. In questo calderone, nero – spesso di ottima fattura – ma ormai confortante, si era distinto per una certa verve eccentrica Barbarian, di Zach Cregger, americano di Arlington, prima comico e attore, poi regista, un horror sotterrano sorprendente e tutto matto, grottesco e spassoso, a tratti delirante. Ecco allora la grande attesa per l’uscita del suo nuovo (pubblicizzatissimo) film, Weapons, previsto inizialmente per gennaio con Pedro Pascal e Renate Reinsve nel cast, è ora al cinema (dal 6 agosto) con Josh Brolin e Julia Garner.
Al centro della storia troviamo una comunità fragile, impotente, che si scopre improvvisamente vulnerabile, destatasi come all’improvviso da un lungo e piacevole sonno stregato: tra gli attoniti genitori rimasti senza figli, il più agguerrito è Archer Graff (Josh Brolin), un costruttore dai modi pratici e dal carattere vigoroso. Punta il dito, non si dà pace, segue il figlio scomparso nei suoi incubi, trascura il lavoro, si arrovella, è intenzionato a scoprire la verità. Justine non è da meno: dolce e fragile all’apparenza, la maestra ha un carattere spigoloso, manipolatorio, è cocciuta e si fa forza tracannando superalcolici (una versione meno psicopatica di Misty, il folle personaggio di Christina Ricci in Yellowjackets); tiene ai suoi alunni più di quanto dovrebbe, le fanno notare, è inappropriata. Non sei un genitore, sei solo una maestra, viene redarguita. Lei, con i suoi occhialoni di tartaruga e i ricci biondi, corti e appunti, non ha intenzione di desistere – anche per riscattare il suo nome, su cui pendono i velenosi sospetti dell’intera cittadina.
Seguendo poi le vicende di diversi personaggi che popolano questa periferia residenziale: un poliziotto scemo con i baffi da scemo, un tossico arraffone in certa di soldi (Austin Abrams, protagonista della miniserie nataliza Netflix Dash & Lily) , un preside burocrate dai modi affettati; su tutti quanti loro incombono ombre scure e mortifere, fino ad arrivare al cuore putrescente della vicenda – una classicissima fiaba costruita attorno alle funzioni basilari individuate da Propp già nel 1928: allontanamento, divieto, infrazione, investigazione, tranello, connivenza… C’è tutto, dal pifferaio magico a Hansel e Gretel, eppure è tutt’altra cosa.
Il regista (sceneggiatore e produttore), va così a costruire un film ellittico, incastrando scena dopo scena, personaggio dopo personaggio, ogni strato della narrazione, orchestrando indovinelli e soluzioni, inganni e sfide, tranelli e premonizioni. Continua qui il discorso cinematografico iniziato con Barbarian, dando vita a un racconto in cui la tensione non si smorza mai, anzi, più svela i meccanismi del racconto, più ci accompagna verso alla conclusione – attraverso boschi e scantinati – e più ci tiene con il fiato sospeso, fino al roboante finale, perfetto, galvanizzate, violentissimo e agrodolce.
Orrori selvaggi
Ecco allora che Weapons svetta come horror selvaggio, imprevedibile, una scheggia impazzita nel lamento sul trauma, del lutto e sulla perdita che l’horror ha cavalcato nell’ultimo decennio, non un film che fa del jumpscare o del plot twist la sua ragion d’essere, ma una macabra e tentacolare avventura che usa gli strumenti in suo possesso senza farsene soggiogare. Cregger non si lascia intrappolare da forme “elevate” (che, va detto, non disdegna), ma le usa a suo piacimento, con grande equilibrio (e astuzia) per confondere i confini tra farsa e orrore, tra perdita e rivalsa.
Se poi vogliamo leggerlo come monito verso la strumentalizzazione dei bambini nella guerra mediatica in cui siamo sprofondati – usati, traumatizzati, esibiti – possiamo farlo, senza paura (credo) di trovarci troppo fuori strada, eppure non è questo che emerge con forza, non è la lezione ad affiorare sulla lugubre superficie del film, ma piuttosto lo spettacolo, l’intrattenimento (finalmente!), la goduria della sorpresa, del soprassalto, facendo propria la lezione di Douglas Sirk, «Sai, devi lasciare uno spiraglio aperto – ammoniva il regista di Come le foglie al vento – il momento in cui si inizia a predicare, nel momento in cui si vogliono dare insegnamenti al pubblico, ecco che allora si sta realizzando un brutto film».