Cultura | Cinema

Vera Gemma, nepobaby malinconica e attrice da Oscar

Disponibile su Mubi, candidato dell'Austria agli Oscar 2024, è un film poetico che mescola finzione e realtà, ispirandosi alla vita reale della figlia di Giuliano Gemma.

di Clara Mazzoleni

Non ho mai visto una puntata dell’Isola dei Famosi o di Pechino Express (odio i reality) e non ho mai visto uno spaghetti western con Giuliano Gemma (odio i western) e nessun altro film diretto da Tizza Covi e Rainer Frimmel (non li conoscevo, ma dopo aver visto Vera voglio assolutamente recuperare La pivellina del 2009, ambientato nella periferia romana in cui una bambina abbandonata viene accolta dagli artisti di un circo). Quella con cui ho guardato Vera (ora su Mubi), diretto da Covi e Frimmel, Premio Orizzonti per la miglior interpretazione femminile alla Mostra di Venezia e proposto dall’Austria per la cinquina del “Miglior film internazionale” agli Oscar, quindi, è una purezza da alieno. Una purezza che forse farebbe piacere a Vera Gemma, nepobaby malinconica, conosciuta dai più come concorrente dei sovracitati reality (ma nella sua avventurosa vita è stata anche spogliarellista e domatrice di tigri e leoni), che molte volte nel film si lamenta di aver vissuto incastrata nell’ombra imponente del padre, o meglio, nel paragone: «Com’era bello, ho visto tutti i suoi film, ma tu, ecco… non gli assomigli proprio».

Cos’è, veramente, la bellezza? Esiste davvero una bellezza vera, o una bellezza falsa? La bellezza è solo una questione di connotati, pelle e capelli o quello che c’è “dentro” c’entra qualcosa? Lo sguardo, la timidezza, le esitazioni, il sorriso? Vera sembra una transessuale, e lo sa, perché è proprio il suo ideale di bellezza, quello che a un certo punto è riuscita a formarsi da sola, lontano dai canoni inculcati da una famiglia in cui la cosa più importante era essere e restare belli. E il film è prima di tutto una celebrazione del suo personalissimo stile e della sua bellezza unica: il tributo ironico dei cappelli da cowboy, le pellicce, le extension platino, le onnipresenti scarpe col plateu che la fanno sempre camminare come se fosse un po’ ubriaca, il trucco pesante oppure completamente assente. E poi la voce, l’espressione seria, il modo di parlare e la cadenza, che assomigliano così tanto a quelle dell’amica Asia Argento, con cui condivide alcune tra le scene più belle del film. In una, da guardare e riguardare, cantano un duetto di Mia Martini e Loredana Berté del canto popolare romano di Gabriella Ferri, “Te possino dà tante cortellate” (è nel secondo album di Asia Argento, Music From My Bed), un’altra vanno al cimitero vicino a Piramide a vedere la tomba del “figlio di Goethe”: non ha un nome suo, è stato sepolto e ricordato così.

Nel film realtà e finzione si mescolano come in un sogno immerso nella luce rosa pastello della periferia romana: Vera interpreta se stessa, ma la storia è una specie di parabola, un riassunto del modo in cui ha vissuto. Il taxista che invita a salire a casa all’inizio del film (ma lui rifiuta) è Jeda Filal, manager di musica trap e suo reale ex fidanzato, o meglio “baby fidanzato”, come lo chiamavano i giornali per via della differenza di età. Lui nato nel 1999, lei nel 1970: 29 anni di differenza. Il suo rapporto con l’anziano autista, Walter, è la miccia che fa scattare l’evento centrale del film: un incidente che la porterà a fare amicizia con un bambino e suo padre Daniel. Anche loro sono veri: Daniel De Palma è davvero il padre di Manuel, nato quando lui aveva solo 19 anni, abita davvero a San Basilio, ma a differenza che nel film lavora per l’Ama ed è appassionato di boxe.

Manuel si è rotto il braccio, Vera lo porta a mangiare un gelato. Una sera la invitano a cena, un pasto a base di pasta e fagioli con il bambino, il padre e la dolcissima nonna nella loro casa minuscola e sgangherata ma piena d’amore. Vera si siede a tavola con loro e mangia di gusto, lei che è cresciuta nelle ville con parchi e piscine, tra gli attori, le attrici e i grandi registi, pranzando e cenando nei migliori ristoranti del mondo. È stufa del mondo dello spettacolo e della sua cattiveria, adesso ha voglia di “vita vera”, come la chiama lei. Per un momento ho temuto che il film fosse una romanticizzazione della vita di borgata, ma non è assolutamente così, e il fatto che per un momento lo sembri rende l’epilogo ancora più appagante. Il finale (spoilerarlo sarebbe un delitto) riporta tutto sul piano della realtà, anche se poco prima della fine, nelle scene al Dubai Palace sulla Tiburtina (per farsi un’idea dell’atmosfera, leggere qui), si raggiunge l’apice del sogno. Vulnerabile, indifesa, Vera è una specie di martire contemporanea e questo film un piccolo capolavoro che respira nelle scene secondarie, quelle in cui Vera, semplicemente, esiste: mentre guarda i filmati della loro infanzia con la sorella, mentre si lascia consolare e coccolare dal suo chirurgo estetico, mentre si prova e acquista un paio di scarpe Loriblu tempestate di strass, mentre beve una tequila al bar, da sola, a fine serata, e parla con la ragazza del bar. «Che bella che sei», le dice. E lei risponde: «Grazie, anche lei».