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Vacanze di Natale è ancora il trattato sociologico migliore d’Italia

Quarant'anni fa usciva il film che avrebbe dato il via a un genere, il primo e più riuscito dei cinepanettoni, bistrattato prima e intellettualizzato poi. E, a rivederlo oggi, sorprendentemente attuale.

di Davide Coppo

C’è una differenza sottile tra guilty pleasure ed escapismo. Il primo, come dice il nome, coinvolge il senso di colpa intimo che si prova nell’abbandonarsi a un godimento che, per ragioni diverse, è in qualche modo proibito o non consigliato da esibire, per questioni morali o reputazionali. L’escapismo è invece una forma estrema di svago, oppure uno svago portato all’estremo, con conseguenze anche negative per chi vi si abbandona: forme di escapismo possono essere il gioco d’azzardo, l’abuso di internet e social network, di droghe ricreazionali. Da qualche parte in questo spettro, da quarant’anni a questa parte, per molti italiani c’è Vacanze di Natale dei fratelli Vanzina.

Ci sono poche cose che posso vantarmi di conoscere a menadito, nella vita. Alcuni sono scrittori del genere “estremamente letterario”, intellettuali e noiosi che mi riempiono di gioia letteraria (e sì, di una certa boria per la mia capacità di non essere intaccato dal sentimento della noia che, in molti altri lettori, producono): Daniele Del Giudice, W.G. Sebald, Derek Walcott. Ci sono cose più popolari, anche, come il calcio, che però cerco di intellettualizzare pur godendomelo come una necessaria parentesi belluina nella mia vita per il resto ordinata. Infine, impossibile da inscatolare in gabbie culturali, puro escapismo con la giusta dose di senso di colpa, c’è Vacanze di Natale ‘83.

Non conosco forse nessuna sceneggiatura a menadito come quella del primo capitolo della saga dei Vanzina con Christian De Sica, Claudio Amendola, Mario Brega, Karina Huff e Jerry Calà, tra gli altri. L’ho visto e rivisto decine di volte, appuntamento fisso ogni inverno con amici oppure da solo, e ogni volta rido con lo stesso godimento a battute che potrei recitare a occhi chiusi pur costretto nelle condizioni più estreme per la mente e il fisico. Se consideriamo Vacanze di Natale ‘83 come puro escapismo, si capisce che può facilmente diventare estremo, come una dipendenza o un’ossessione. In realtà, Vacanze di Natale è stato intellettualizzato già a sufficienza, e va detto che fu concepito come – diciamo – una specie di prodotto culturale, e non volgare operazione cafonal-commerciale, dagli stessi Vanzina. Che hanno raccontato, in passato, addirittura la paura di De Laurentiis che il film non fosse abbastanza divertente. Allora, naturalmente, la sinistra borghese si convinse che il film fosse l’esaltazione di una nuova classe di arricchiti senza cultura. «Noi, invece, ne descrivevamo la tragica mutazione», ha detto Enrico Vanzina qualche giorno fa al Corriere della Sera.

Il film è scorretto con tutti, e non c’è qualcuno che si salvi o non venga deformato. La presa in giro più immediata e facile da riconoscere è quella del povero che vuole provare l’ebbrezza di travestirsi da ricco: il jingle “Grazie Roma” che accoglie ogni entrata in scena della famiglia Marchetti, borgatari romani alla scoperta della ricchezza esotica di Cortina, e anche: «Ammazza come pizzica», l’esordio della signora Erminia appena si imbatte nel freddo dolomitico scendendo dall’imballatissima utilitaria. Classista? Ma no: la puntualità con cui Mario Brega declama ai parenti il costo dei loro regali di Natale mostrava, allora, tutto lo squallore della società del consumo, e oggi si potrebbe immaginare – lo stesso personaggio traslato nell’Italia di 40 anni dopo – la cafona Eminia Marchetti empatizzare, senza nessun motivo, con le lacrime di Chiara Ferragni.

Poi ci sono gli arricchiti di Frascati, sempre cafoni ma camuffati, e naturalmente il tocco di genio qui è Christian De Sica, figlio cafonazzo sì, ma che è andato a studiare in America e allora torna “moderno”, felicemente amante del maestro di sci Zartolin all’insaputa dei genitori bigotti. Nel libro Fenomenologia del Cinepanettone scritto dallo studioso inglese Alan O’Leary (uscito nel 2013 per Rubbettino) il De Sica fluido rappresentava «una figura che ha la licenza di operare ai margini dell’ideale di mascolinità fissato dalla norma, in tal modo rivelandone la sua arbitrarietà». E smascherando, quando viene scoperta la sua omo o bisessualità, il travestimento vero, che è quello di classe dei genitori: «Tu facevi il capomastro, invece oggi c’hai i soldi e te scandalizzi. M’hai mandato in America, a New York: noi semo de Frascati! Mamma gioca a Gin al Circolo Canottieri e se veste da Versace? Tu te metti l’orologio al polso come Gianni Agnelli? E io vado a letto co’ Leonardo Zartolin, perché, nun se po’?».

Solo il più cretino dei milanesi aspirazionali può pensare che il Guido Nicheli di «sole, whisky, e sei in pole position» sia un modello a cui guardare, e non una tragica pantomima, non fosse altro che per le molteplici corna che subisce mentre si gode la «libidine». Lo stesso si può dire del suo semi-omologo romano Luca Covelli, fighetto tronfio e sportivo ma in fondo un po’ ciula, ispirato a Giovanni Malagò che, oggi, si prepara a riportare le Olimpiadi invernali proprio a Cortina.

Quindi Vacanze di Natale come strumento ancora oggi tragicomico, e non solo comico, per comprendere le trasformazioni sociali. In un senso simile e allo stesso tempo diverso da Fantozzi, che aveva preceduto in Vanzina di una decina d’anni, citazione obbligata se si parla di tragicommedia italiana. Ma mentre Villaggio aveva immaginato la sua serie come una denuncia dello stato in cui versava la classe impiegatizia, «i veri sfruttati», come disse al settimanale del Pci Vie Nuove, al contrario Vacanze di Natale mette in scena la depoliticizzazione del proletariato in favore di un’aspirazione edonista che risulta in fondo null’altro che cringe – diremmo oggi.

Negli anni immediatamente successivi a Vacanze di Natale il discorso pubblico si liberò del concetto di lotta di classe, e la questione è rimasta praticamente taciuta per una trentina d’anni, fino al 2020 o giù di lì. Dal Covid, grimaldello di tante pulsioni che credevamo dimenticate, si è ricominciato a parlare di socialismo, di critiche costruttive o meno al capitalismo, di una necessità anche ecologista che mettesse in discussione i decenni di ottimismo progressista e di crescita illimitata. Anche con questi occhi, Vacanze di Natale ‘83 appare un film attuale e invecchiato bene. Colpa forse della società italiana, che non si è evoluta di molto ma soltanto cambiata di maschera, e il cafone ineducato che sfigura in società oggi potrebbe essere interpretato dal rapper-influencer coi tatuaggi sul collo, mentre la moglie starebbe bene nel ruolo di gran dama fintamente moderna ma segretamente sfruttatrice. I caratteri fissi della commedia dell’arte nascono nel Settecento e non muoiono mai davvero, dopotutto. Alla luce di tutto questo, perché allora continuare a vivere Vacanze di Natale come piacere proibito? Perché qualcosa ancora mi fa temere che tutto questo sia giusto a scriversi, ma meno facile a capirsi. Un’altra cosa che in quarant’anni non è cambiata, e che in questo Paese forse mai cambierà, è l’implacabile, conservatrice e pruriginosa morale pubblica. Se ieri il film veniva erroneamente scambiato per una celebrazione di quei nuovi ricchi che in realtà metteva alla gogna, oggi si può liberamente celebrarlo come prodotto intelligente e tagliente e intellettuale? Si riesce davvero a ridere di De Sica che striglia le domestiche Asunción e Concepción, dicendo: «Mica v’abbiamo portato in vacanza», capendo qual è davvero l’obiettivo di quella risata? Io, dopotutto, rimango scettico, nonostante un Vacanze di Natale con gli influencer milanesi al posto dei cafoni romani sarebbe un successo assicurato. Ci godremmo anche il teatrino social degli interessati offesi, e magari i soliti intellettuali che storcono in naso e dicono: che burina, questa celebrazione dei nuovi ricchi.