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I social non sono pronti per il Quirinale (e viceversa)

L'elezione del Presidente della Repubblica conferma ancora una volta quanto profondo sia ormai il distacco tra realtà e Internet: a questo punto, la politica deve scegliere se ignorare del tutto la Rete oppure provare a integrarla davvero nei vecchi processi democratici.

di Laura Fontana

In Parlamento, nei posti riservati alla stampa, c’è ancora lo spazio per le penne e il calamaio, come testimonia un’immagine che gira su Twitter. Si rimane a fissarla un po’ intontiti cercando spiegazioni nella relatività del tempo, finché il buco nero del calamaio diventa uno di quei rabbit hole di Internet capaci di curvare lo spaziotempo. Dal 1946 sono passati 76 anni e la procedura per l’elezione del Presidente della Repubblica è rimasta la stessa, solo che all’epoca il racconto di quanto succedeva era in mano ai giornalisti che usavano quella penna e quel calamaio. Oggi il commento minuto per minuto è di tutti e per tutti e la sensazione è che le elezioni del Presidente vengano vissute dagli utenti online come la puntata di un reality o di un talent. Prima dell’inizio, c’era sui social media già chi si dichiarava in burnout, lamentandosi dei troppi eventi in scaletta da seguire, commentare, ridurre a meme: le elezioni e poi Sanremo, e subito dopo le Olimpiadi invernali, e poi la nuova stagione dell’Amica Geniale e di Lol – Chi ride è fuori.

È l’abbattimento definitivo del muro tra industria dell’intrattenimento e comunicazione politico−istituzionale. Le votazioni vengono considerate “troppo lunghe” ma solo perché da Internet non è possibile accedere al gioco come succede per i reality, altrimenti non ci sarebbe nessun problema. I media tradizionali stanno al gioco, riportando i tweet salaci, seguendo le correnti dell’indignazione, sdrammatizzando con la lista dei meme più apprezzati del Presidente della Repubblica uscente. È uno di quei momenti in cui è forte la sensazione che Internet e i social media abbiano irrimediabilmente alterato la grana dell’esperienza umana e che la cultura abbia perso la capacità di capire e saper raccontare il presente. Potrebbe anche essere che non esiste più nessun presente da capire e raccontare, ma un’infinita sequenza di simboli casuali che nessuno è più veramente in grado di ordinare e decifrare. Qualcosa di non immediatamente razionalizzabile, eppure estremamente frustrante.

La frustrazione e la rabbia sono sentimenti cresciuti in maniera esponenziale negli ultimi anni e puntualmente trovano il loro sfogo online. È la base di partenza delle shitstorm ed è uno dei motivi per cui c’è stata così tanta indignazione per i falsi nomi venuti fuori nei primi scrutini: Alberto Angela, Alessandro Barbero, Alfonso Signorini. Eppure, i nomi-burla durante l’elezione di un Presidente della Repubblica ci sono sempre stati, fa parte della liturgia democratica attraverso cui bisogna passare per arrivare all’individuazione del vero nome. Anche nel 2015, sotto gli occhi allora divertiti dei social media, erano stati scrutinati da una Laura Boldrini invece poco divertita, nomi come Sabrina Ferilli, Rocco Siffredi e Giancarlo Magalli. Quest’ultimo fu definito dalle cronache dell’epoca come il “candidato della Rete al Colle” e ci fu anche un flash mob davanti al Quirinale, con le persone che indossavano una maschera di carta con le fattezze del presentatore Rai. Tra gli effetti collaterali e non previsti degli algoritmi c’è la rimozione di quello che è successo in passato, ma anche un progressivo incupimento. Nessuno ha più voglia di farsi prendere in giro per il lol, le shitstorm hanno una periodicità giornaliera e il #metoo non ha risparmiato neanche Magalli, che ha visto crollare la sua reputazione dopo il dissing con Adriana Volpe. I parlamentari che scrivono “Alessandro Barbero” indignano perché la cosa viene percepita come appropriazione culturale, l’offesa a un personaggio che sulle piattaforme è oggetto di culto.

I social media non capiscono e non accettano più liturgie che non siano decise da loro. Gli utenti social vogliono qualcuno per cui diventare “bimbe”, non vogliono accordi tra partiti ma percentuali di engagement, non Alti Profili ma personaggi capaci di creare il buzz mostrandosi in accordo o in disaccordo con i valori da loro richiesti, non Larghe Intese ma dinamiche e reaction da trasformare in meme, non l’europeista ma l’idol. Per questo c’è una gara a scandagliare il passato dei possibili candidati, riesumando frasi fuori contesto e spezzoni spiacevoli di talk show, copertine imbarazzanti di giornali scandalistici degli anni ‘90. Gli utenti social cercano di ricondurre il tutto a una dimensione che conoscono, quella della fanfiction. Il distacco tra realtà e social media si è fatto profondo e la politica ancora non ha preso una decisione: ignorarlo o trovare il modo di collegare Internet ai vecchi processi democratici, coi cittadini-utenti che manovrano le dinamiche e lo storytelling in uno spazio metapolitico. A ben vedere, è quello che è stato fatto con il Movimento 5 Stelle e la piattaforma Rousseau, senonché l’esperimento deve essersi inceppato a un certo momento perché, una volta eletti, i politici del Movimento 5 Stelle si sono sganciati dalla metapolitica e sono ripiombati di nuovo nella realtà contingente, nelle logiche della politica novecentesca, con Roberto Fico a presiedere l’aula e Di Maio alla Farnesina. Sessant’anni di politica analogica non possono essere sostituiti da 15 anni di metapolitica e questo perché processi e istituzioni sono stati pensati per esistere nella realtà e non su Internet, dove la forma di governo riconosciuta al momento rimane l’anarchia.