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Quella volta che Rushdie ha conosciuto Pynchon e c’è rimasto male

Questa storia riguarda tutti noi, perché a tutti è capitato di fare la parte di Salman Rushdie, ma a tutti è anche capitato di fare la parte di Thomas Pynchon. È una di quelle storie dove due persone si conoscono, una vorrebbe fare amicizia, anzi si considera già un amico, ma l’altra lo snobba. L’ha raccontata lo stesso Salman Rushdie in una recente intervista sul Guardian, dove ha parlato, tra le altre cose, degli autori che lo hanno maggiormente influenzato. Tra questi c’era, appunto, Pynchon. Rushdie racconta di essere stato uno dei pochi fortunati a conoscere di persona l’autore misterioso: ci ha cenato una volta, gli sarebbe piaciuto diventare suo amico, però Pynchon non lo richiamò. L’aneddoto è brevemente descritto così: «Grazie al fatto di avere scritto una recensione positiva di uno dei suoi romanzi, ho avuto l’opportunità di incontrare l’uomo invisibile. Abbiamo cenato nell’appartamento di Sonny Mehta a Manhattan e l’ho trovato molto pynchonesco. Dopo la cena mi dicevo, beh, siamo amici, magari ogni tanto ci rivedremo. Però non mi ha più richiamato».

Sonny Mehta è il famoso editore indo-americano, presidente del gruppo Knopf Doubleday Publishing. Nell’intervista Rushdie non fornisce coordinate temporali, però è possibile intuire che probabilmente era il 1990. Nel gennaio di quell’anno, infatti, Rushdie aveva pubblicato sul New York Times una recensione positiva del quarto romanzo di Pynchon, Vineland (potete ancora leggerla sul sito del Nyt). Fu una recensione di cui si discusse molto, anche perché fu uno dei primi segni di vita da parte dello scrittore indiano dopo la fatwa ricevuta dall’ayatollah Khomeini dopo Versetti satanici. Quando ha incontrato Pynchon, dunque, Rushdie era già uno scrittore molto affermato: prima ancora dei Versetti satanici, il libro che lo rese celebre, e che gli valse un Booker Prize nel 1981, fu I figli della mezzanotte.