Per molte decadi, la presenza del pericolo russo ha pervaso in modo insistente la produzione cinematografica e televisiva di massa. Già prima dell’11 settembre, tuttavia, le serie americane e film hanno cominciato a raffigurare il Grande Nemico non più con i tratti di un russo ma con quelli di un mediorientale. Da Sleeper Cell, che mostrava la presenza di americani tra gli estremisti islamici, fino al recente Homeland, i russi sono stati relegati a villain di contorno.
Nel 2013, in controtendenza, esce The Americans, finito definitivamente con la sesta stagione questa primavera: la serie si concentra su una serie di sleeper cell russe che vivono negli Stati Uniti durante la Guerra fredda e mostra quanto la loro infiltrazione sia stata ben più capillare ed efficace rispetto a quelle arabe. The Americans, scritto da un ex agente della Cia come Joe Weisberg, è il tentativo di rappresentare in modo estremamente realistico una finta famiglia americana costruita a tavolino dall’Urss. Due diciottenni moscoviti estranei l’uno all’altra sono costretti a sposarsi, ad avere figli e a vivere nei sobborghi di Washington come perfetti americani, con tanto di microonde e station wagon, consigli di classe e colloqui con i professori. La loro vera attività tuttavia è sventare attacchi chimici, giustiziare collaborazionisti e condurre la doppia o forse tripla vita di agenti che carpiscono informazioni dovunque possono, intrecciando fittizie relazioni sentimentali.
Elizabeth e Philip (ossia Nadezhda e Misha) non somigliano alle tipiche spie da Guerra fredda dei film anni Sessanta. Sono pieni di dubbi, hanno crisi di coscienza, devono affrontare momenti drammatici quando i figli non sanno se seguire la strada dei genitori o restare fedeli cittadini di un’America la cui ideologia, ritratta a tinte fosche, è forte almeno quanto quella sovietica. La sincerità, l’ossessione di dover dire sempre la verità, hanno perso in America il mordente che avevano un tempo e le serie tv sono ormai ideologicamente molto lontane dal James Stewart di Mr. Smith Goes to Washington: siamo stati traumatizzati e rieducati non solo dalla rappresentazione cinica del potere di House of Cards, ma anche da una teoria di serie che, da destra e da sinistra, hanno intaccato la storica fiducia americana nel sistema legislativo, esecutivo e giudiziario. La politica, ovviamente, ha sempre influenzato la produzione televisiva, e l’elezione di un presidente con imbarazzanti collusioni con il governo Putin ha riproposto i russi come nemico pubblico numero uno. E il caso forse più eclatante di restaurazione dell’immagine della Russia come avversario per eccellenza è la produzione britannica McMafia.
Lo scandalo Skripal e l’uscita della serie McMafia, uno straordinario caso di serendipity mediatico, si somigliano perché hanno entrambi sensazionalizzato un sentimento comune tra gli occidentali, e cioè che i russi sia solo in apparenza europei, mentre in realtà sono indecifrabili e potenzialmente inquietanti quanto popoli ben più lontani ed esotici. È soprattutto anglo-americano l’antagonismo nei confronti di questo paese che ha le dimensioni di una galassia e una sconcertante commistione di culture, costumi e religioni. Le nuove serie su questi Stati Disuniti Russi, in cui ci ostiniamo a riconoscere ancora persone cariche di sospetto, una burocrazia kafkiana e un rapporto spregiudicato con la moralità, sembrano offrire al pubblico un’immagine più chiara, coerente e, a prima vista, imparziale di quel paese.
McMafia, tratta dal saggio omonimo di Misha Glenny, una sorta di incrocio tra il David Simon di The Wire e il Roberto Saviano di Gomorra. si prefigge di mostrare i legami indissolubili tra politica, economia e malavita. Al di là di un’ottica radicalmente diversa sull’affaire russe offerta dalle McMafia e The Americans, entrambe cercano di indagare l’anima russa attraverso intrecci e scandagli psicologici particolarmente sofisticati. Quella britannica è molto britannica, e ritrae il mondo nemmeno così sommerso del traffico di droga, di armi e di sesso come fosse una realtà parallela a quella a cui crediamo noi comuni mortali. I pericoli maggiori per questi malavitosi non sono le forze dell’ordine, ma le bande rivali; i loro traffici non hanno semplicemente un fine economico, ma cercano anche di ridefinire continuamente l’equilibrio di potere tra persone che rappresentano gli interessi di nazioni e gruppi politici.
La serie americana, invece, è costruita “alla russa”, alla Dostoevskij. Qui i due mondi rappresentati non viaggiano su binari paralleli, ma esistono proprio perché agiscono l’uno nell’operato dell’altro. Paradossalmente, se a guardare McMafia si ha l’impressione di leggere John le Carré, le puntate di The Americans sembrano ispirate a un’idea di rapporto tra il criminale e l’investigatore molto simile a quello tratteggiato da Dostoevskij in Delitto e Castigo. I personaggi russi creati dalla televisione americana diventano una specie di eroi che conducono un angosciante gioco psicologico con l’FBI, mentre quelli creati dalla televisione britannica sono cinici antieroi, i tipici russi senza scrupoli a cui i media ci hanno abituato.
E’ davvero notevole che, sebbene la Russia sia stata responsabile di tanta parte della coscienza e della vita europea come la conosciamo oggi, l’immaginario collettivo occidentale continui a percepirla una nazione estranea, ancillare, più vicina alla misteriosa Asia, a quel particolare modo che abbiamo di guardare agli orientali come se non fossimo mai veramente in grado di capire quello che pensano, quello che vogliono – quello che sono.
I russi hanno la pelle del nostro stesso colore, credono in un Dio cristiano, vestono e gesticolano come noi. Ci somigliano. Sono caucasici come noi, anzi, sono la definizione stessa di caucasico, amano bere troppo e fare follie, sembrano ossessionati dal sesso e, proprio come gli americani, credono che le informazioni cruciali vadano tenute nascoste alla popolazione e hanno grandi mire espansionistiche. E hanno eletto una sorta di zar in tutto e per tutto simile all’ultimo presidente americano. Ma non è forse questa inquietante somiglianza, come se un russo fosse intercambiabile come un americano, e al tempo stesso questa atavica diversità, a renderli così minacciosi?