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Come cambia la moda dell’estrema destra

Si sta normalizzando, dice la sociologa Cynthia Miller-Idriss, mentre nascono nuovi marchi di riferimento.

di Studio

Il co-fondatore di Vice e esponente dell'alt-right americana Gavin McInnes (al centro) durante una manifestazione a Berkeley, nell'aprile 2017 (Photo by Elijah Nouvelage/Getty Images)

La crescita nei consensi dei movimenti della “far-right”, che si tratti di partiti entrati nei palazzi del potere come l’Alternative für Deutschland tedesco o, nella maggior parte dei casi, di organizzazioni rimaste finora ai margini della scena politica, ha attirato l’attenzione di media e studiosi. Una questione generalmente trascurata è tuttavia quella, meno evidente ma probabilmente altrettanto rilevante, dei marchi, degli accessori e più in generale dell’estetica dell’odierna ultradestra.

Pochi giorni fa, la sociologa Cynthia Miller-Idriss, autrice del saggio The Extreme Gone Mainstream: Commercialization and Far Right Youth Culture in Germany, ha citato sull’edizione online della Cnn le sue ricerche sugli attivisti tedeschi, alla fine delle quali aveva concluso che l’abbigliamento costituisse un notevole strumento di mobilitazione per l’estrema destra. Dismessi anfibi, bomber scuri e rasature eccessive, questi militanti avevano adottato un look fatto da felpe e t-shirt stampate, che a volte esibivano sequenze di caratteri cifrati (“2YT4U”, ad esempio, significa “troppo bianco per te”), altre sfruttavano le figure retoriche per stemperare la violenza degli slogan, altre ancora richiamavano esplicitamente eventi storici quali le crociate o la reconquista spagnola ai danni dei musulmani. Pur nella varietà di ispirazioni e stili – si passa dalle bandiere ottocentesche degli Stati Confederati d’America ai simboli runici, dalle riproduzioni di armi alle aquile del Sacro Romano Impero – il filo conduttore degli abiti è l’efficacia nell’introduzione a un meccanismo più ampio, strutturato in testi musicali, forum sui social, manifestazioni, locali ad hoc.

Nel 2017, a poche settimane dagli scontri provocati dai suprematisti bianchi a Charlottesville, Quartz evidenziò come negli Stati Uniti esistesse ormai una versione “destrorsa” di qualunque cosa, dal cinema alla letteratura alla moda, appunto: conclusa la parentesi dei neonazisti anni ’80, gli esponenti della nuova destra avevano infatti scelto un’immagine più ordinaria, di cui erano parte essenziale le camicie button down alternate alle polo con profili a contrasto, e i capelli all’indietro, corti sui lati. Topic aveva invece trattato l’argomento in maniera quasi analitica, raggruppando le sigle dell’ultradestra d’oltreoceano in sette categorie, ciascuna associata al profilo del sostenitore-tipo. Tra quelli più attenti al look, spiccavano i “proud boys”, nazionalisti cattolici che indossano in genere il cappello rosso MAGA (sdoganato nel 2016 da Donald Trump) e camicie pesanti di flanella, abbinate alle polo Fred Perry, oppure gli iscritti all’organizzazione Vanguard America, la cui divisa d’ordinanza prevede maglie bianche su pantaloni color khaki e sneakers comode.

Participanti allo “Shield and Sword”, una tre giorni di concerti che si tiene a Ostritz, Germania, in occasione dell’anniversario del compleanno di Hitler, il 20 aprile (Matthias Rietschel/Getty Images)

Nel febbraio 2018 ancora Cynthia Miller-Idriss, intervistata da Vice, aveva spiegato come i nuovi estremisti fossero consapevoli dell’importanza «di mimetizzarsi, di rivendicare un posto nel panorama mainstream», e alcuni brand sembravano particolarmente adatti allo scopo, soprattutto nel caso i loro prodotti contenessero elementi (piuttosto deboli, in realtà) per alludere all’iconografia dell’ultradestra. Ecco il perché della predilezione per le scarpe New Balance (la N laterale poteva rimandare all’iniziale di “nazist”), mentre gli stemmi ricamati sui giubbetti Lonsdale venivano modificati alle estremità per ottenere la sequenza “NSDA”, ossia l’acronimo del defunto Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori.

Più di recente, i movimenti di estrema destra hanno parzialmente abbandonato i marchi fashion, che tra l’altro hanno sempre preso le distanze da questa clientela (con campagne quali “Lonsdale Loves All Colors” e comunicati ufficiali contro ogni estremismo) per rivolgersi a aziende di abbigliamento medio-piccole, che gli consentono di fare propaganda. Il caso da manuale è quello della tedesca Thor Steinar, che all’inizio degli anni Dieci è diventata la griffe-feticcio degli estremisti grazie agli slogan incentrati su lotta all’Islam, antisemitismo, difesa delle radici religiosi ed etniche. A volte i riferimenti sono talmente specifici da risultare incomprensibili alla maggior parte degli osservatori (ad esempio, la scritta «Expedition Tibet» che cita le spedizioni in Asia dei nazisti alla ricerca dei “geni ariani”); in genere si gioca però sull’equilibrio tra riconoscibilità dei simboli e quei minimi cambiamenti che riescono a eludere le leggi della Germania sull’apologia del Terzo Reich. Il logo ufficiale, ad esempio – una freccia sovrapposta a una linea zigzagata – riprende lo stemma delle SS, ritoccato quel tanto che basta per vincere la disputa legale con i tribunali che, nel 2004, l’avevano dichiarato illecito.

Anche altri marchi, come Erik & Sons e Ansgar Aryan, celebrano un immaginario punteggiato da immagini militaresche, tatuaggi minacciosi, arti marziali e quant’altro, efficace soprattutto sui giovani; ne è prova la diffusione della Thor Steinar, oggi venduta in 48 negozi monomarca, europei e non. In Italia un caso per certi versi affine è quello di Pivert, che propone maglieria, pantaloni, capispalla «esclusivamente Made in Italy» ma dall’aspetto basic, accomunati dal logo del picchio stilizzato: qui i riferimenti politici sono limitati ai nomi dei prodotti, generalmente termini latini già cari al fascismo nostrano, oppure all’Eur, quartiere simbolo del Ventennio che fa da sfondo ad alcuni scatti promozionali; non sono invece equivoci gli organigrammi della società, amministrata dall’ex dirigente di Blocco Studentesco (costola di CasaPound, ndr) Francesco Polacchi, così come altri esponenti dell’estrema destra italiana appaiono nei documenti della filiale milanese. Il brand è stato notato dai più la scorsa primavera, quando il (non ancora) ministro e vicepremier Matteo Salvini, durante la finale di Coppia Italia allo stadio Olimpico di Roma, era stato fotografato con un giubbotto blu Pivert.

Membri del gruppo di estrema destra Britain First manifestano a Londra l’1 aprile 2017, in seguito all’attacco del 22 marzo al Parlamento inglese (DANIEL LEAL-OLIVAS/AFP/Getty Images)

Le polemiche (e l’indignazione) che accompagnano questi marchi sembrano poi alimentare la curiosità di alcuni “spettatori”: i ragazzi intervistati dalla Miller-Idriss avevano infatti confessato di trovare affascinanti gli abiti proprio perché considerati illegali, oppure per darsi un tono. La sociologa insiste sul fatto che brand del genere non solo riflettano l’identità dell’ultradestra, ma contribuiscano a modellarla. «Penso che questo abbigliamento abbia il potenziale per radicalizzare, reclutare, motivare», ha dichiarato.

La linea di demarcazione tra vecchi estremisti e gruppi dell’attuale far-right, allora, potrebbe essere rappresentata proprio dall’estetica, in senso lato, di questi ultimi, spesso consapevoli dell’importanza di un nuovo immaginario “soft”. Abbandonati gesti eclatanti, risse, termini univocamente condannati, gli esponenti dell’ultradestra hanno sposato nuove parole d’ordine (sovranismo, etnopluralismo, anti-imperialismo in luogo di nazismo, razzismo e affini); sono molto attivi sui social, dove la propaganda passa anche attraverso meme, grafiche curate o video ad effetto. Si appropriano poi di generi musicali come rap e hip-hop per veicolare i loro messaggi (basti citare i rapper MaKss Damage o Dee Ex), dichiarano di preferire tutto ciò che è catalogabile come alternativo, dalle birre Pilsner ai sottogeneri cinematografici, a piercing e tatuaggi in bella mostra. Già nel 2014, del resto, l’emergere nelle fila dell’ultradestra tedesca dei cosiddetti nipsters, gli hipsters fascisti protagonisti di un lungo articolo su Rolling Stone, lasciava intuire come diversi estremisti avessero ormai compreso che per adeguarsi alle dinamiche della contemporaneità era necessario mettere da parte i dogmi del passato, compresi quelli vestimentari, in favore di un approccio frammentario, in fieri, capace in definitiva di adattarsi ai cambiamenti continui nella società.