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L’insalata di riso non si discute

Bistrattata e mai entrata nei ricettari, è il piatto estivo per eccellenza: ecco perché bisogna riabilitarla.

di Teresa Bellemo

La chiamano il “classico svuotafrigo”, come se importassero meno gli ingredienti e molto di più la sua funzionalità: ridurre gli sprechi e avere una soluzione rapida ai poco pianificati pasti estivi. Ma l’insalata di riso non merita di essere relegata a questo triste compito e nemmeno di essere necessariamente riabilitata in chiave gourmet. Serve uscire dall’equivoco, la vera insalata di riso è in realtà il frutto di una proporzione attenta di ingredienti e di sapori, che non può ridursi al guardare cosa c’è nel frigo mentre il riso si lessa.

Come molte cose apparentemente banali, anche l’insalata di riso non lo è affatto e ha delle regole precise nella sua preparazione. Anzi forse una sola: deve esserci quasi tutto, ma non proprio tutto. Un tutto con dei suoi tic ben precisi che ad esempio non contemplano il cappero mentre l’oliva sì. Diffidate da chi prova a renderla qualcosa di gourmet, di cromaticamente allettante, di equilibrato e leggero. La sfortuna dell’insalata di riso è che è brutta, e oggi i piatti brutti hanno vita difficile. Come in una sorta di parentesi di gastronomia anarchica, semel in anno licet insanire, nell’insalata di riso smettono di avere senso i dogmi de “la carne con il pesce insieme non ci vanno”, “il pesce con il formaggio giammai” (che poi anche qui avrei delle riserve). L’unica insalata di riso degna di questo nome deve contemplare il cubetto di formaggio e il tonno, il tocchetto di prosciutto cotto e la rondella di würstel (meglio se quelli piccolini in confezione da quattro, kitsch e rappresentativi di un’altra sospensione di senso dell’insalata di riso: il via libera al polifosfato aggiunto), i cetriolini e i funghetti, il carciofino e il peperone. Sia l’uovo sodo che le cipolline.

Nonostante il parente più prossimo possa essere considerata la paella spagnola, anch’essa estremamente popolare e agricola prima di essere nobilitata da molluschi e crostacei, e già un Anonimo Padovano nel 1480 parlava di «riso fredo», e l’Artusi nel 1891 inserì nel suo compendio di ricette italiane una «pollastra con contorno di riso», l’insalata di riso non è quasi mai entrata nei ricettari. Si è sempre tramandata attraverso la consuetudine domestica, ottimizzata attraverso deduzioni ed esperimenti empirici, figlia dell’azzardo curioso, del passaparola che la rende diversa ma allo stesso tempo uguale a ogni latitudine d’Italia. Per questo diventa un classico prodotto della società dei consumi, ed è infatti negli Settanta che subisce una prima codificazione e quindi ecco le prime proposte di variazione elegante, figlie dell’avanguardistico riso parboiled e dell’esotico riso pilaf. Sfogliando le riviste di cucina del periodo,  l’insalata di riso cambia forma e opzioni di cottura, finisce nel forno e in formine d’alluminio fino quasi a snaturarsi o a tornare a ciò che in primissima battuta era: un contorno. Ma la migliore insalata di riso – c’è poco da fare – è sempre il risultato di un perfetto equilibrio di ingredienti confezionati, di vasetti e scatolette della grande distribuzione, la glorificazione del supermercato e del conseguente cedere alla tentazione del solitamente negletto prodotto a marchio. Per questo quella che si intende qui celebrare è quella tradizionale, ricca e sregolata. La stessa che trovavamo nei frighi d’estate, preparata in quantitativi esagerati per la comodità di non accendere per un po’ i fuochi o perché fa da preludio all’imminente giornata al mare, ai dieci bagni e alle merende col calippo.

Il declino inizia alle fine degli anni Novanta quando si decide che le cose nel piatto devono essere assolutamente belle e fusion, e tutti devono avere almeno un’intolleranza. E in questo momento che l’insalata di riso si è imbastardita con brunoise di verdure fresche; il riso arborio sostituito con quello basmati o integrale. I più audaci lo soppiantavano addirittura con altri cereali, con il riso venere, toglievano il tonno e mettevano il tofu, misteriosamente quasi nessuno si allontanava però dai preparati sottolio. A dimostrazione del periodo buio, era ed è finita sui tavoli dei buffet degli apericena, malcondita, scialba, a forma di piramide, decorata con pomodorini e dunque giustamente snobbata. Dimentichi dell’alleanza che d’estate trovavamo in quei Tupperware ricolmi e disponibili a qualsiasi ora del giorno, quando avevamo fame, quando nel meriggio ci scollavamo dal divano per trovare rifocillo e fresco aprendo la porta del frigorifero, le abbiamo preferito il farro con le olive e la feta greca perché ormai eravamo diventati sofisticati.

La negazione delle nostre abitudini, come un provinciale che si trasferisce in città, ci ha portato a sconfessare un altro caposaldo dell’insalata di riso: la maionese. Perché è questo uno dei punti più critici, il dirimente fondamentale tra i veri cultori del riso freddo originale e dunque ignorante e cafone. Dunque o tutto o niente, come si è detto. C’è chi la mette e se ne frega che l’effetto sia poco instagrammabile se il sapore ne guadagna. C’è chi ormai è a tal punto inibito dalla quinoa da scuotere la testa per sottolineare che no, lui quell’usanza barbara non l’ha mai potuta soffrire. Qualche timido la mette a fianco e la aggiunge con delle forchettate trattenute. Che un piatto composto da tanti ingredienti diversissimi e tagliati in piccoli pezzi sia stato colpito da un’ennesima aggiunta azzardata (ma a conti fatti eccellente) e aggregante come quella della maionese è la dimostrazione di quanto l’insalata di riso sia la perfetta manifestazione del periodo che l’ha vista trionfare. I Cinquanta e i Sessanta, la mostarda di Alberto Sordi in Un Americano a Roma, i grandi magazzini e le bianchine stipate verso le due settimane al mare in famiglia, quasi a confermare che per davvero in quegli anni di boom economico avevamo tutto. Quanto meno nei nuovissimi frigidaire, dove c’era tutto ciò che serviva per preparare un’insalata di riso degna di questo nome. Con la maionese, grazie.