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Kapka Kassabova, esplorando il mondo umano

È una delle più interessanti scrittrici di luoghi della sua generazione: dopo Il lago è tornata con Elisir a raccontare territori di confine che sembrano sospesi nel tempo.

di Sara Urbani

Intervisto Kapka Kassabova in un torrido pomeriggio italiano di fine agosto, ma nelle Highlands scozzesi la temperatura è chiaramente più bassa visto che lei invece compare in video avvolta in un morbido cardigan viola. Nata a Sofia nel 1973, dopo la caduta del muro di Berlino lascia la Bulgaria per trasferirsi con la famiglia in Nuova Zelanda. Tornerà poi in Europa e oggi vive in Scozia, là dove il fiume Beauly incontra il mare. Le sue opere letterarie spaziano dalla poesia ai memoir, passando dalla letteratura di viaggio. Sono state tradotte in più lingue e hanno vinto vari premi internazionali. I suoi ultimi libri sono Confine – Viaggio al termine dell’Europa (EDT, 2019), un reportage narrativo dalle terre divise fra Bulgaria, Grecia e Turchia, e Il lago – Ritorno nei Balcani in pace e in guerra (Crocetti, 2022) che invece ruota attorno ai laghi di Ocrida e Prespa al confine tra Macedonia del Nord, Albania e Grecia. Questi due titoli fanno parte di un “quartetto balcanico” che indaga il rapporto fra persone, luoghi e tempo, di cui è appena uscito il terzo capitolo Elisir – Nella valle alla fine del tempo (Crocetti), in cui l’autrice approfondisce le tradizioni legate alle piante nel bacino del fiume Mesta.

In Elisir ci sono molti personaggi, ma oltre ai tanti incontri che fai nei tuoi viaggi, anche la geografia dei luoghi che attraversi (monti, valli, fiumi e laghi) ha un ruolo fondamentale nelle storie che racconti. Cosa ti attrae in questi luoghi?
Spero davvero che la potenza di questi luoghi emerga nel libro, perché per me tutto inizia proprio nell’incontro con il luogo stesso, in questo caso con quella che chiamo «la valle alla fine del tempo». Anche se in realtà è solo una delle tante valli lungo il corso del Mesta e i suoi affluenti. Ogni volta mi innamoro di un luogo e anche i libri precedenti sono iniziati con un intenso momento di contatto tra me e un certo territorio. È l’inizio di una relazione, vengo semplicemente attratta dai luoghi e non so mai dove mi porterà questa attrazione, è proprio per questo che scrivo. È una scusa per esplorare, volevo scoprire ogni ansa di questo fiume e tutto ciò che mi si rivelava. Tutte le storie che racconto in Elisir sono incorniciate dai tre massicci montuosi che danno vita al fiume Mesta, o forse viceversa è il fiume che ha fatto nascere le montagne. Credo di essere istintivamente attratta dai luoghi in cui l’aspetto naturale sovrasta quello artificiale. Mi attrae la natura perché è la vita stessa, con il suo ciclo continuo di morte e rinascita, fine e nuovo inizio. Questo libro è diventato un’esplorazione della dicotomia che dobbiamo affrontare come specie umana: tra il mondo naturale, da cui proviene la vita, e il nostro mondo artificiale, che mi sembra essere piuttosto distruttivo. Questa tensione fra vita e morte attraversa tutte le storie delle persone che ho incontrato, ed è proprio questo tipo di morte che voglio indagare nei miei libri: la morte causata dall’industria, dal patriarcato, dalla tirannia e anche quella provocata dalle divisioni, come per esempio i confini. È l’aspetto che più mi ha colpito dal punto di vista emotivo, mi sono trovata di fronte alle conseguenze delle divisioni nella vita delle persone così come negli ecosistemi. È un tema che mi preoccupa molto e che avevo già affrontato in passato. E questo ci fa tornare al titolo del libro, Elisir, che richiama invece l’idea della guarigione, di come possiamo fare per curare queste divisioni e le ferite che causano, in ultima analisi come guarire dalla disperazione.

Molte delle persone che incontri nella valle fanno parte della comunità dei pomacchi, che descrivi come «musulmani balcanici non di etnia turca»: chi sono e cosa ti ha lasciato la loro frequentazione?
Sono sempre stata attratta dalle persone e dai luoghi marginalizzati e il popolo dei pomacchi vive proprio nell’area che avevo scelto di esplorare per quest’ultimo libro. Non sono andata lì per loro, ma semplicemente mi sono ritrovata a incontrare molte persone della comunità. I pomacchi vivono soprattutto nei monti Rodopi e in alcune zone del massiccio del Pirin, e sono gli ultimi veri abitanti delle montagne. In realtà sono una percentuale molto piccola della popolazione bulgara, non è una comunità numericamente importante. Per esempio, i turchi di Bulgaria sono circa il 10 per cento della popolazione e hanno un peso maggiore. Tuttavia, i pomacchi sono culturalmente molto interessanti e ho sempre desiderato conoscere meglio le loro tradizioni; sono persone estremamente ospitali, anche a causa dei luoghi impervi in cui abitano. Uno degli aspetti più interessanti della cultura pomacca è il sincretismo con cui combina diverse tradizioni culturali: sono musulmani balcanici di lingua bulgara che oggi vivono in tre Paesi diversi [Bulgaria, Grecia e Turchia, ndr] a causa dei confini a cui accennavamo poco fa. Ma per lo più vivono in territorio bulgaro dove sono spesso marginalizzati, non tanto per le zone periferiche in cui abitano, ma perché sono stati esclusi dalla storia ufficiale. Sono stati oggetto di due grandi campagne di assimilazione forzata nel Novecento, che hanno lasciato cicatrici profonde nella comunità. Alcune storie personali che ho raccolto fra i pomacchi raccontano l’altra faccia della “grande Storia” e per me sono la chiave per capirla.

Ti definisci spesso “explorer”, ma questa parola potrebbe evocare lo stereotipo dell’esploratore coloniale che gira il mondo catalogando tutto; invece, il tuo approccio è diverso perché cerchi un contatto profondo con i luoghi e le persone…
Sì, sono totalmente d’accordo, credo che i tempi dei conquistadores siano passati, grazie a Dio. E non amo i libri scritti da chi si limita a osservare a distanza di sicurezza, non parlando con nessuno e sentendosi sempre superiore. Per me un esploratore è anche chi indaga il regno interiore, e in questo senso mi sento una vera esploratrice che indaga contemporaneamente il mondo esterno della natura e quello interno della mente. Mi interessa esplorare il territorio più difficile e più oscuro, che è quello dentro noi stessi.

Il tuo prossimo libro sarà l’ultimo capitolo del “quartetto
balcanico”. Quando hai iniziato a scrivere il primo avevi già in mente l’intero percorso?
No, non avevo pianificato nulla: è un processo, una cosa viva. Al momento credo che mi fermerò con il quarto libro perché ho bisogno di una pausa dai Balcani. Sono stati dieci anni di lavoro molto intenso e ogni libro ha portato a quello successivo, sono inseparabili eppure ognuno è un mondo a sé. Mi affascinano da sempre i Balcani e il fatto che la civiltà balcanica sia un luogo in cui si incontrano diversi punti nel tempo, come l’Aleph di Jorge Luis Borges che è «il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della Terra, visti da tutti gli angoli». Per me è quasi un’esperienza metafisica e con questi libri ho cercato di avvicinarmi alla psiche balcanica da angolazioni diverse. In retrospettiva, pur avendo passato circa due anni su ogni libro, quello successivo mi è sembrato molto più grande del precedente. Per la mia esperienza creativa, sono un universo in espansione, o come un mandala: senza inizio e senza fine, ma con uno schema molto chiaro. Tutto è partito dall’idea di confine e di come questa linea di separazione influenzi la vita delle persone, ma molto rapidamente il focus si è spostato sulle montagne e sulla gente di montagna. Poi è emerso il tema dell’acqua, quello della memoria e dell’eredità ancestrale. E in ogni libro la natura prendeva sempre più spazio, mentre l’essere umano diventava sempre più piccolo.

In effetti in Elisir la vegetazione, le erbe spontanee e le piante officinali sono una presenza costante: da dove nasce questa curiosità? E come hai scoperto la figura di Ildegarda di Bingen che citi spesso e definisci «un’intellettuale eclettica, una mistica, un genio complesso»?
Stavo visitando un antico monastero a Parigi, ora museo, e ho trovato un libro sulle ricette vegetali della monaca tedesca Ildegarda di Bingen. Non sapevo molto di lei, tranne che avevo ascoltato alcuni suoi componimenti di musica corale, ma leggendo ho iniziato a interessarmi alla sua storia; in pratica sono proprio le piante che mi hanno portato a lei. Per esempio, ho scoperto che è stata una guaritrice e una pioniera della fitoterapia. In modo paragonabile ad Avicenna (il grande intellettuale persiano) che è il padre della medicina moderna. Eppure, anche lui non molto celebrato, forse perché era musulmano? Sicuramente Ildegarda, seppure coltissima e molto famosa ai suoi tempi, era comunque una donna medievale “anomala” e per questo a lungo la sua genialità non è stata riconosciuta.

Ma quindi cos’è l’elisir che dà il titolo al libro?
Ero attratta dalla parola stessa che suona come un mantra. È un antico termine che deriva dall’arabo al-iksir, cioè sostanza miracolosa o pietra filosofale, di cui tutti vogliono conoscere la formula. E l’alchimia cercava proprio l’elisir di lunga vita, la chiave per l’immortalità; quindi doveva svelare un segreto. Ma come scrivo nel libro: «Non so dirvi che cosa sia l’elisir. Dovete cercarlo per conto vostro. Quel che so è che la nostra Terra lo produce senza sosta nel suo calderone, ovunque, e voi fate parte della folle ricetta. Non potete comprarlo né venderlo. Ha inizio quando il denaro e le parole finiscono e diventate ciò che siete, qualcosa per cui vale la pena di salire e scendere tra vette e vallate». Guardando a questo libro con una certa distanza, capisco che è davvero un’esplorazione della coscienza e della percezione, o almeno questa è stata la mia esperienza. Credo di aver sperimentato diversi stati di coscienza al di fuori di quelli ordinari mentre ero in viaggio, e in alcuni passaggi li descrivo. Anche se mi sento un’esploratrice, mi interessa soprattutto l’esperienza interiore, non tanto gli eventi, ma gli stati d’animo e gli stati della mente. E mi piacerebbe che chi legge i miei libri sperimentasse qualcosa a questo livello