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Il Cantante Mascherato è la cosa più assurda mai vista sulla tv generalista

Su Rai Uno è appena cominciata la terza stagione dello show più bizzarro e surreale che ci sia, un regno del nonsense e del caos che avvicina sempre di più la televisione a Internet.

di Laura Fontana

Il Cantante Mascherato è un programma televisivo che sembra scritto dall’algoritmo di una piattaforma social o da Pirandello, se Pirandello avesse avuto il senso del camp. Benché sia in onda in prima serata su Rai Uno, somiglia più a Internet: uno di quei content nati da una combinazione casuale di significanti disancorati dal significato, che danno come risultato qualcosa di caotico, bizzarro ma anche inedito. Sembrerebbe la solita competizione canora tra cantanti e personaggi del mondo dello spettacolo, se non fosse che questi si esibiscono nascosti dentro pupazzi giganti antropomorfi, a metà strada tra i carri di Viareggio e i Teletubbies, in forma anonima e con la voce camuffata. Più la celebrità mascherata è di prima categoria e il costume in cui è nascosto è buffo e nonsense, più al momento dello svelamento dell’identità la reazione del pubblico e della giuria è scomposta e scioccata, nonché memabile. L’anno scorso i Ricchi e Poveri si sono esibiti dentro un “baby alieno” (rischiando anche di rimanere soffocati) e Al Bano era travestito da leone; nelle edizioni straniere hanno infilato Ryan Reynolds dentro un unicorno, Natalie Imbruglia in un panda e Kermit la rana in un costume da lumaca; inoltre, hanno partecipato anche personalità politiche come Sarah Palin mascherata da orsetto multicolor e Rudy Giuliani. Il costume da lumaca c’è anche quest’anno nell’edizione italiana, la speranza a questo punto è di trovarci dentro il Gabibbo o Pier Ferdinando Casini.

Si capisce come in un attimo si passi dal pensare “che ignobile puttanata” a “non posso più fare a meno di guardare questo casino”, sperando che l’esibizione successiva sia ancora più nonsense, caotica e wtf. Il format è sudcoreano e non è un caso: non è solo l’ispirarsi alla cultura dei cosplay, ai manhwa (la parola con la quale in Corea del Sud si indicano fumetti e cartoni animati), non è il culto della carineria anabolizzata. Al momento, i coreani sembrano gli unici ad aver capito e soprattutto accettato il senso dell’arte e della cultura nel tardo capitalismo, e cioè che non c’è nessun senso, ma bisogna far di tutto per sopravvivere, soprattutto umiliarsi davanti a una giuria e a un pubblico, altrimenti si muore.

Non si può negare che il programma è triggering, come certi titoli di articoli fatti solo per il clickbait. Quanto più la combinazione è bizzarra, più l’effetto trigger si attiva: cose infantili in contesti ufficiali, tipo un “baby alieno” che si muove per il palco in prima serata su una rete nazionalpopolare; personaggi noti del mondo dello spettacolo, con una loro dignità artistica pregressa, che si esibiscono molto seriamente insieme al pupazzo gigante dalla voce robotica; il fatto che una volta dentro il Gabibbo non c’era la possibilità di trovarci dentro un politico. Le performance ricordano l’atmosfera inquietante di certi video per bambini su YouTube, creati da bot per scopi imperscrutabili, con la canzoncina “Daddy Finger” in sottofondo: sono disturbanti, danno dipendenza e catturano l’attenzione. Milly Carlucci, insieme alla sua giuria composta da Arisa, Caterina Balivo, Francesco Facchinetti e Flavio Insinna, ce la mette tutta nel cercare di normalizzare questa sequenza di “immagini che richiederebbero maggior contesto”. Lo sforzo per non farla passare per una distopia è evidente, sono tutti concentrati nel convincere loro stessi e il pubblico che va tutto bene, siamo pur sempre su Rai Uno, il periodo è quello di Carnevale: è solo un programma televisivo stravagante e divertente. Per far capire che è un gioco, durante il programma vengono dati degli indizi cosicché giuria e pubblico si arrovellino ed indaghino su chi ci sia dietro le maschere, se per caso l’Aquila con cui si è esibito Morgan non nasconda speranzosamente Bugo. Ma anche questo sembra solo andare incontro al trend delle investigazioni attive da salotto, che ultimamente spopolano su TikTok (vedi il caso di West Elm Caleb). Rimane sospesa nell’aria come un macigno la domanda: perché stiamo vedendo degli adulti con una carriera alle spalle, travestiti da animali mentre cantano vecchi successi del pop?

Forse in un’epoca dove i cantanti e gli artisti sembrano essere dei pupazzi in mano ai dati delle piattaforme e al volere dei loro stan, che li manovrano da casa attraverso logiche di gamification, mascherarsi e rendersi irriconoscibile deve essere in un certo senso liberatorio. Forse anche questo programma televisivo serve a interrogarsi su cosa sia l’identità nel mondo capitalista, se l’impostura è effettivamente il modo più efficace di raccontare le cose. Ma l’impostura dichiarata attenua il senso di disagio? Nel tardo capitalismo l’umanità esiste davvero o gioca solo a esistere? La prima serata di Rai Uno, un tempo regno di Pippo Baudo, ci racconta degli innumerevoli tentativi di rendere la realtà più simile a Internet, regno del caos e del nonsense, una rappresentazione popolata da inquietanti fantocci e lettere-simbolo senza suono: sempre in bilico tra il poter essere una cosa, oppure un’altra, oppure niente.