Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto ad aprile in redazione.

Disegno dell'esterno dell'ufficio di Adolf Hitler, architettura di Albert Speer. Dagli archivi sulla propaganda tedesca della Calvin University

Charlotte Beradt, Il Terzo Reich dei sogni (Meltemi)

Non tanto tempo fa, ho comprato questo libro da un rivenditore dell’usato dopo averne letto sul New Yorker.

Mi sono procurato un’edizione Einaudi degli anni ’90, ma qualche settimana fa ho scoperto che era stato ripubblicato da Meltemi, con un tempismo perfetto, perché – per quanto possa sembrare strano – è un libro particolarmente a tema in tempo di quarantena. Un po’ perché, come dicono tutti, in queste settimane di reclusione ci sembra di sognare di più, un po’ perché ci ritroviamo in una forma estremamente diluita alle prese con un apparato statale che ha preso il sopravvento sulle nostre libere scelte. Il Terzo Reich dei sogni è un lavoro portato avanti con lungimiranza dalla giornalista Charlotte Beradt che dal 1933 al 1939 – anno in cui emigrò negli Stati Uniti – si fece raccontare i sogni da circa 300 persone e poi portò con sé il materiale raccolto, che venne pubblicato per la prima volta nel 1966. La cosa sorprendente è che in queste pagine non vi sono sogni truculenti e orrorifici, ma il tono di fondo si potrebbe definire kafkiano; sono sogni soprattutto di frustrazioni e di silenziose mutilazioni, 75 sogni divisi in 11 capitoli tematici. (Cristiano de Majo)

Hisham Matar, Un punto di approdo (Einaudi)
Trad. di Anna Nadotti

Non so se esista una categoria di libri che include quelli in cui scrittori e scrittrici passeggiano per un museo e raccontano, con i loro mezzi, i quadri che vedono. Hisham Matar lo fa curiosamente con i dipinti della Scuola senese di Duccio di Boninsegna, Taddeo di Bartolo e Ambrogio Lorenetti, ma mi vengono in mente gli esempi di Alan Bennet, con Una visita guidata e L’imbarazzo della scelta e W. G. Sebald con Soggiorno in una casa di campagna. Matar si dedica alla pittura senese del 1300 ma soprattutto a Siena: passa un mese in città e prende lezioni di italiano, studia con un nuovo amico giordano la storia delle contrade e riflette – strana coincidenza – sugli effetti della Peste nera del 1348 sulle arti e le politiche nella Cristianità. La bellezza di questi libri sta nell’amatorialità gioiosa delle loro pagine: i quadri vengono descritti per sensazioni immediate e personali, che sono poi il modo migliore di approcciare un quadro, la mano di una madonna, la postura di un’allegoria della giustizia. Vediamo l’arte attraverso gli occhi dello scrittore ma è come se lo stessimo ascoltando in una conversazione privata, e non una lezione: e quindi, mentre lui parla, noi ci facciamo la nostra opinione, mettiamo in gioco i nostri ricordi, e rendiamo quella tela qualcosa di vivo, presente e non archeologico. Il libro di Matar, che arriva dopo lo splendido Il ritorno ambientato in Libia, è un flaneureggiare leggero e malinconico tra cimiteri e pinacoteche, committenti del Trecento e telegiornali estivi che conosciamo bene, con le loro approssimative notizie di politica estera. (Davide Coppo)

Shirley Jackson, Pomeriggio d’estate (Adelphi)
Trad. di Simona Vinci 

Pomeriggio d’estate fa parte di una raccolta di racconti di Shirley Jackson che sarebbe dovuta uscire in questo periodo e che è stato rimandata a causa dell’emergenza Coronavirus. La raccolta si intitolerà La luna di miele della signora Smith e sarà composta di alcuni fra gli inediti che Jackson ci ha lasciato in eredità,  impossibilita com’è stata, in vita, a concentrarsi sulla sua carriera familiare nel modo in cui una scrittrice del suo calibro avrebbe dovuto. In attesa del volume completo, Adelphi ha regalato ai suoi lettori due di quei racconti – uno è Pomeriggio d’estate, appunto, e l’altro Invito a cena – grazie alla nuova collana Microgrammi, uno dei più riusciti esperimenti degli editori in quarantena. Dimity Baxter è alle prese con una cena che ha fissato con l’odioso Hugh Talley – in cui deve dimostrare di saper cucinare per abbattere il sessismo di quell’altro – ma succede qualcosa nella sua cucina, una di quelle cose che Jackson sa architettare così bene. Non c’è l’orrore manifesto di Hill House, ma c’è sempre quella strisciante sensazione che no, non va tutto bene, neanche per le due bambine che in un pomeriggio d’estate, prigioniere anche loro di una strada che non possono attraversare, scoprono un risvolto inaspettato di uno dei loro giochi preferiti. Le sessanta pagine si leggono in frettissima e dopo averle finite si odia il virus una volta di più per averci privato, anche se solo momentaneamente, dei mille risvolti cattivi della mente di Jackson. (Silvia Schirinzi)

Levi Henriksen, Il lungo inverno di Dan Kaspersen, (Iperborea)
Trad. di Andrea Berardini

Tollerare gli inverni della Norvegia è complicato, con le temperature di molto sotto lo zero. Ma per Dan Kaspersen, questo inverno è rigido per altre ragioni. Dopo due anni trascorsi in carcere per spaccio di droga, esce di prigione e, tergiversando fra sensi di vergogna e di imbarazzo, tarda a rincontrare il fratello Jakob, che in quel lasso di tempo, intanto, si è tolto la vita. E quindi «sono tornato solo per ripartire», ripete a sé stesso Dan e agli altri quando gli chiedono spiegazioni sul motivo del ritorno a Kongsvinger; di cui perlustra le strade per tutto il suo lungo inverno di rimorso e di dolore, alla ricerca dei ricordi legati al fratello e di qualche indizio che potrebbe motivarne la scomparsa. In preda alla disperazione, Dan vorrebbe vendere la fattoria di famiglia e sparire di nuovo, ma l’incontro con Mona Steinmyra manderà all’aria tutti i suoi piani. È questa la storia che Levi Henriksen, nel suo secondo romanzo, compone come una partitura: una colonna sonora fitta di ritmo, di riferimenti musicali, pause, battiti. Scandita nei suoi tempi dai passi di Dan verso Mona, dalle battute di un vecchio zio che impreca a ogni frase, e dalle indagini dell’ispettore Rasmussen, deciso a incastrare Dan per l’aggressione a un ricco uomo d’affari legato alla sua condanna in carcere. Tra noir, humor, romanticismo e autoanalisi, Il lungo inverno di Dan Kaspersen è un’opera in musica in cui ogni personaggio è accompagnato da un leitmotiv differente, e una perfetta storia da leggere in questo periodo di alberi e cieli osservati dalle nostre finestre. «Appena un mese fa ero su una branda a guardare il soffitto. Pensavo a quale sarebbe stata la prima cosa che avrei fatto appena uscito. Non mi veniva in mente niente, a parte andare». (Corinne Corci)

Trent Dalton, Ragazzo divora universo (HarperCollins)
Trad. di Stefano Beretta

Il rischio dei romanzi di formazione è quello di rimanere per troppo tempo spettatori, senza poter esclamare tra una riga e l’altra – a voce alta o meno – eccomi, sono io, che è quello che spesso si chiede ai libri una volta che si diventa adulti. Si chiede di essere capiti, si desidera di trovare una mappa più efficace di quella che ci siamo dati tra una chiacchiera e l’altra o durante una riflessione solitaria. Ragazzo divora universo è un romanzo di formazione che riesce abilmente a districarsi e a sgusciare via come un’anguilla tutte le volte che lo si sta per accantonare solo perché non ci si trova riflessi. Dopotutto la storia dell’adolescente Eli Bell non è quella di tanti altri, perché molti non hanno avuto un fratello maggiore che a sei anni ha deciso di non parlare più e di disegnare frasi nel cielo, una madre eroinomane e un patrigno spacciatore, un padre depresso e alcolista, un baby-sitter che si è fatto trent’anni di galera e tutto il Queensland lo conosce per le sue acrobatiche evasioni. L’autore, Trent Dalton, qui al suo romanzo d’esordio, invece (in parte) sì. La sua scrittura è lieve e riesce a incastrare pezzi di un puzzle che soltanto apparentemente sembrano non combaciare. Telefoni rossi che suonano in una stanza segreta, guerra tra bande, frasi criptiche che sono premonizioni, Eli Bell che aspira a fare il giornalista di cronaca nera e si innamora di una giornalista di otto anni più grande, sogni che migliorano una realtà disperata come delle lavatrici rotte abbandonate sul prato davanti l’ingresso di casa. Capita di chiedersi cosa sia reale e cosa invece non lo sia, ma in fondo non serve poi a molto saperlo, non c’è il tempo, Ragazzo divora universo si legge in un fiato. (Teresa Bellemo)

Olivia Laing, Funny Weather: Art in an Emergency (Picador)
In Italia Olivia Laing è conosciuta soprattutto per Città sola, pubblicato da Il Saggiatore (noi l’avevamo incontrata a Milano in occasione dell’uscita del libro). Se in Città sola (perfetto da rileggere in questo periodo) parlare, scrivere e osservare le opere d’arte era un modo per salvarsi dalla solitudine, nel suo nuovo libro Laing attribuisce all’arte poteri politici di “resistenza e riparazione”. Funny Weather è una raccolta di saggi, recensioni, interviste e una column per la rivista d’arte contemporanea Frieze che Laing ha scritto a partire dal 2010. Quando parla di arte politica l’autrice non si riferisce soltanto, però, a quel genere di pratiche artistiche espressamente militanti: le pagine più belle, anzi, sono proprio quelle dedicate agli artisti (alcuni, come David Wojnarowicz, ce li aveva presentati proprio lei in Città sola, ma ci sono anche Jean-Michel Basquiat, Georgia O’Keefe, Agnes Martin, Joseph Cornell e tanti altri) che in qualche modo hanno incarnato, con la loro vita privata e la loro personale ricerca, le tensioni e i problemi del tempo e del luogo in cui hanno vissuto. Nelle intenzioni dell’autrice l’emergenza del titolo si riferisce al clima politico che abbiamo respirato nell’ultimo decennio, un clima che ha illuminato – o meglio, adombrato – l’arte degli ultimi anni (iniziamo già a chiederci come diventerà in futuro: ancora più oscura?). Oggi, di fronte all’esplosione improvvisa della pandemia, l’idea che riflettere sull’arte possa offrirci un appiglio nei momenti in cui, tutti insieme, ci troviamo in una situazione di emergenza, acquista ancora più senso. Poco prima dell’uscita del libro, che è disponibile dal 16 aprile, Laing ha scritto un lungo articolo per il Guardian, che reinterpreta e aggiorna il suo concetto di “arte in caso di emergenza” alla luce dell’epidemia di Covid-19. Finisce così: «Dobbiamo tenerci a galla a vicenda, anche quando non possiamo toccarci. L’arte è il luogo in cui tutte le idee e le persone sono le benvenute, ed è aperta anche adesso». (Clara Mazzoleni)