Un film che riesce a dare sostanza alla materia letteraria informe e nervosa del libro e la piega, senza tradirla, all’interno del mondo cinematografico del regista.
Per impazzire non basta una buona ragione. Ne servono almeno due, meglio ancora se sono tre, giunti a quattro nessuno avrà mai niente da ridire né sull’impazzito né sull’impazzimento. Anzi, se uno ha addirittura quattro buone ragioni per impazzire ma non impazzisce, è giusto, è ovvio insospettirsi. Chiedersi ma che ha? Ma come fa? Ma perché non impazzisce? Sono tre domande che ci si fa in continuazione scoprendo la disgraziata vicenda di Sofia, la protagonista di Hot Milk di Rebecca Lenkiewicz, libero (assai libero, per chi ha letto il testo originale) adattamento del romanzo omonimo di Deborah Levy, uscito nel 2016 e candidato, tra gli altri, al prestigiosissimo Man Booker Prize (in Italia è uscito nello stesso anno, per Garzanti, con il titolo Come l’acqua che spazza la polvere). Il film è stato presentato alla 75esima Berlinale, dove era in concorso per l’Orso d’oro, e dal 22 agosto sarà disponibile in streaming su Mubi.
Sofia, una bambina, un mostro
Sofia è detta anche Fia da sua madre Rose ed è detta pure mostro dalla sua amante Ingrid. Già questa è una buona ragione per impazzire, la prima: le donne della sua vita pretendono di sapere chi è Sophia meglio di Sophia, e glielo dicono e glielo ripetono. «Hai sempre avuto difficoltà a portare a termine le cose», sostiene la madre Rose, parlando della laurea in Antropologia che Sophia non ha ancora preso ma è certa di prendere. «Tu sei una bambina», dice l’amante Ingrid, quando Sofia cerca di parlarle della sua infanzia. Che ha, come fa, perché non impazzisce ad avere sempre attorno queste donne che la sanno – pensano di saperla – così lunga? Donne che addirittura decidono di cambiarle nome ed età e natura?
Le altre buone ragioni che Sofia ha per impazzire. Il caldo insopportabile di Almeria – che in realtà è Atena e Maratona, location delle riprese, anche loro protagoniste del film, soprattutto grazie alla luce nelle scene di interno notte splendidamente fotografate da Christopher Blauvelt – dove si è dovuta trasferire assieme a Rose per aiutarla nell’ennesimo tentativo di scoprire cos’ha che non va il suo corpo. Rose non cammina più da anni, tranne qualche giorno all’anno, quando le sue gambe smettono di essere paralizzate e lei si alza e cammina. Non si sa perché e non si riesce a capire quando succede, quindi Rose fa un ultimo, estremo tentativo con il dottor Gomez, luminare o ciarlatano poco importa, tanto è l’ultimo, se non la guarisce lui Rose e Sofia se ne tornano a casa, a Londra. Rose è polemica, nevrotica, traumatizzata, paranoica perché sa che la figlia sospetta, teme che la sua paralisi sia una recita, un perverso stratagemma per tenere paralizzata anche lei, lì accanto al suo capezzale. «My love for my mother is like an axe. It cuts very deep», dice la figlia della mamma, nel libro di Levy. Nel film questa frase non c’è, o meglio, non la pronuncia nessuno. Ma starebbe perfettamente su una locandina alternativa.

Emma Mackey (Sofia) e Fiona Shaw (Rose), figlia e madre protagoniste di Hot Milk
La rabbia giovane
Tutte buone ragioni, quelle appena esposte, che Sofia potrebbe portare qualora le chiedessero i motivi del suo impazzimento. Ma non impazzisce, Sofia, anzi: si innamora (non che ci sia chissà che differenza, tra una cosa e l’altra) di Ingrid, una Manic Pixie Dream Girl, accento su Manic, a cui piace moltissimo fare sesso con Sofia ma anche con diverse altre persone. E questo è un’altra buona ragione che dovrebbe portare Sofia all’impazzimento, ma non ce la porta. Anzi: Ingrid le butta le scarpe in mare e lei si innamora ancora di più. Ingrid le dice che ha ucciso una persona e lei si innamora ancora di più. Ingrid fa sesso con Matty e con Pablo, e Sofia è più innamorata che mai.
E dire che Sofia avrebbe tutti gli strumenti, tutta la conoscenza, tutta l’esperienza necessaria a evitarsi questo dolore. Studia Antropologia, passa il tempo analizzando riti folkloristici che si celebrano in tempi e spazi lontani, cerimonie in cui le ragazze affrontano figurativamente quel mostro che sarà la loro vita adulta. Fa schifo solo per le occidentali, la giovinezza, o è una schifezza che unisce tutte le ragazze, tutti i luoghi, tutti i tempi, si chiede in una scena Sofia, chiacchierando con Ingrid. Quest’ultima si limita a ribattere “fanculo”, come tutti quelli che non solo non sanno la risposta ma non hanno neanche capito la domanda.
Sofia la risposta invece la sa, perché aveva 15 anni quando sua madre ha smesso di camminare e quattro quando suo padre Christos la abbandonò per andare a trovare Dio in Grecia (lo troverà e sarà così contento della scoperta che deciderà di lasciare tutti i suoi soldi, affatto pochi, alla Chiesa). Anche questa è una buona ragione per impazzire, a proposito. Ma, ormai si sarà capito, Sofia non impazzisce. E forse non impazzisce per la stessa ragione per la quale non si laurea: non ha bisogno di essere dottoressa in Antropologia per dire che, certo, la giovinezza fa schifo, sempre e comunque. Per tutte le ragazze i rapporti con le madri e con le sorelle e con gli amanti e con le amanti sono come il latte materno: necessario, anche quando il calore fa avvampare il corpo dall’interno (Levy, sempre infastidita quando le chiedono di spiegare i titoli dei suoi libri, ha ammesso che sì, in questo caso si parla di latte materno, quindi di legami esistenziali tra donne). «Ti ho sempre trovata così triste», dice Rose a Sofia un attimo dopo averle detto che è fortissima e che la ama moltissimo. È il momento in cui si capisce che la madre non capisce più niente, probabilmente non ha mai capito niente, della figlia.
Forse Sofia non si laurea perché sarebbe troppo doloroso scoprire che è stata così sfortunata proprio lei, soltanto lei, e che se solo fosse nata nella Polinesia del Sud si sarebbe evitata tutto questo dolore. Ragione per la quale Sofia non rientra, se non marginalmente, momentaneamente, nel canone delle ragazze tristi. È molto più arrabbiata che triste, checché ne dica Rose.

Sofia e Ingrid, quest’ultima interpretata da Vicky Krieps, durante il loro primo incontro
Conclusione e liberazione
Ma può reggersi in piedi un film su una ragazza che dovrebbe impazzire e che non impazzisce? No, non può, e infatti alla fine Sofia impazzisce (se si dovesse scegliere un motivo, uno soltanto, per guardare questo film, sarebbe l’interpretazione di Emma Mackey, cioè Sofia, una trasformazione che le permette di rubare la scena anche alle splendide Vicky Krieps, cioè Ingrid, e Fiona Shaw, cioè Rose). Evitiamo spoiler ma diamo indizi: l’impazzimento di Sofia è una sequenza quasi matematica, un successione di scoppi crescenti, come quelli che emettono i ramoscelli secchi e asciutti in un fuoco che pian piano divampa. La rabbia di Sofia è fatta dei cocci di un vecchio vaso frantumato, ha l’odore delle interiora di un grosso pesce squartato, prende la forma seghettata della lama di un coltello da bistecca (brandito in faccia a Pablo, vicino molesto che tiene il suo cane sempre incatenato, giorno e notte, sul tetto della casa: altra buona ragione che Sofia ha per impazzire).
Questa sequenza, questa successione finisce dove finisce il film, che finisce con un taglio brutale sul nero, momento in cui si differenzia definitivamente dal romanzo da cui è tratto, in cui il finale – ma anche tutto ciò che c’è prima – era illuminato dalla luce bianca, cattiva, crudele dell’esposizione di Levy. Qui il finale non è proprio aperto (succede una di due cose, nessuna delle quali lieta) ma il dubbio certamente resta. Certo, non c’è dubbio, invece, che Sofia sia impazzita, e che questa sia un sollievo tanto per lei quanto per chi assiste da un pezzo alla sua vicenda, ormai rassegnato come lei, grazie a lei, per colpa sua, a sopportare, come dice questa ragazza prima triste, poi arrabbiata, infine impazzita, al culmine del suo delirio. Che è anche l’inizio della sua liberazione, la fine della sua tristezza, della sua rabbia, il momento in cui accetta il suo stesso consiglio, smette di sopportare e inizia finalmente a vivere.

È l'horror più atteso e chiacchierato uscito quest'anno, e infatti è da giorni in cima al botteghino italiano. Forse perché parla (anche) di che incubo sia essere genitori oggi e di quanto sia pericolosa questa epoca per i figli.