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Tutto quello a cui assomiglia Freud

La nuova serie austriaca di Netflix è l’esempio di come mischiare occulto e ricostruzione storica può dimostrarsi una cattiva idea.

di Corinne Corci

Il giovane Sigmund Freud in una scena di "Freud", su Netflix dal 23 marzo

Esistono innumerevoli cose capaci di nascondersi nei dettagli. Persino il diavolo ci riesce. Cinematograficamente, potrebbe trattarsi di un uso particolare della fotografia o di alcuni riferimenti artistici rivelati lentamente: quei particolari su cui occorre soffermarsi in Freud, la serie tv austriaca co-prodotta da Netflix arrivata sulla piattaforma il 23 marzo, e presentata al festival di Berlino nella sezione Berlinale Series. Quelle minuzie stilistiche che sono l’unica cosa su cui è possibile ragionare nel corso degli otto episodi, evitando di pensare che ogni azione dei personaggi possa compiersi in un rapporto di causa effetto ragionato. Perché Freud, che con sincera onestà si sarebbe almeno dovuto intitolare Young Freud parodiando Young Hercules con Ryan Gosling del 1998, è l’esempio di come un prodotto denso di spunti interessanti con alla base una storia (vera) ancora più appassionante – la biografia del giovane psicanalista austriaco nella Vienna del XIX secolo – possa diventare un esperimento privo di identità, rovinato dalla pretesa di volerci inserire per forza una componente esoterica.

Freud infatti è il racconto delle vicende di Sigmund Freud, “Sighi” come viene chiamato dai personaggi della storia, ante psicanalisi, quando, in veste di giovane studente di medicina di Vienna, dovette scontrarsi con l’establishment medico dell’epoca. Neurologo imberbe, tracannatore di cocaina liquida – «Vuoi un po’ di cocaina», «Qui ci vorrebbe della cocaina», «prendi un po’ di cocaina», è solo la prima puntata, solo i primi 15 minuti –  ribelle, deciso a rielaborare la teoria dell’isteria, dell’ipnosi e della suggestione, inserendole in un sistema concettuale più ampio e rivoluzionario (quello, appunto, della psicanalisi e più specificatamente della teoria della catarsi formulata insieme a Josef Breuer nel 1895). Non è chiaro come da un simile punto di partenza Freud si trasformi in un cacciatore di assassini spaventosi, con iridi nere e bocche spalancate, che usa l’ipnosi per risolvere i suoi crimini in un’atmosfera che accresce nei suoi elementi horror capitolo dopo capitolo. Una figura mitologica, tra Dylan Dog, il Leonardo da Vinci di Da Vinci’s Demons – che sono anni che provo a rimuovere dai miei ricordi e mi perseguita sempre – lo Sherlock Holmes di Benedict Cumberbatch e il protagonista de L’Alienista, a cui in numerose scene la serie tv asburgica sembra ispirarsi troppo.

Coinvolto nella risoluzione dell’omicidio di una prostituta, la vita del giovane medico precipita tra le angherie compiute dai nobili ungheresi Szàpàry, Viktor-versione danubiana di Billie Joe Armstrong, e sua moglie Sophia, i cui poteri ipnotici si basano su una combinazione psicosessuale e sulla manipolazione verbale. Si trovano a Vienna con l’intenzione di seminare il caos per vendicare le loro famiglie perseguitate un tempo dall’Impero austriaco. Per farlo, si serviranno di Fleur Salomé (che nel nome richiama la scrittrice e psicoanalista tedesca amica del neurologo Lou von Salomé), una fascinosa medium oppressa da un demone e adottata dai coniugi in tenera età, che diventerà di Freud amica, amante e paziente prediletta. È facile immaginare, a questo punto, come ogni cosa presto sprofondi nella follia, mentre davanti ai nostri occhi accorrono in folla uomini mezzi nudi ricoperti di sangue, pianoforti che suonano da soli, fantasmi, duelli, mummie egiziane, un cantante lirico cannibale.

Ella Rumpf è Fleur Salomé in “Freud”

«Tra insurrezioni politiche contro l’imperatore, la cui logica è impossibile da comprendere e alla fine assolutamente irrilevante, e fatti storici realmente accaduti come l’incendio del Ringtheater di Vienna del 1881, lo spettacolo principale si rivela un gorgoglio di manifestazioni inquietanti, senza senso ma quasi divertente», ha scritto il Guardian riflettendo sulla serie, che è come quelle assurde revisioni biografiche di personaggi storici (Abrham Lincoln vs. Zombie del 2012, ho provato a rimuovere dai miei ricordi anche quello), in cui il protagonista è solo un pretesto, una figura di contorno rispetto al tema dell’occulto e alle sue derivazioni. E la cosa andrebbe bene, se seguisse sempre quell’unica strada. Invece, quando dopo il migliore tra gli episodi, il sesto, in cui si accetta il fatto che la psicanalisi con il nostro Freud non c’entri assolutamente nulla, il regista cerca nuovamente di spiegare gli eventi usando parole psicanalitiche, complesso di Edipo, uccisione del padre, teoria della dissociazione, viene voglia di ubriacarsi. Freud è provato, il regista pure, noi con lui.

Lontani i tempi in cui Cronenberg ha mostrato le fragilità umane di Freud e Jung in A Dangerous Method, nella sua natura ibrida tra il biopic e il thriller gotico, Freud è una Penny Dreadful che non ci ha creduto abbastanza: con Fleur che come Eva Green cede al proprio demone ogni volta che fa sesso, protagonista di sedute spiritiche, in pena per i vicoli di Vienna alla ricerca del primo fortunato-malcapitato con cui sfogare la propria repressione. Come l’Alienista ma senza uno storytelling tanto perfetto, come Il dottor Mabuse del ’22 ma senza Fritz Lang alla regia.

Eppure nonostante tutto questo, in Freud vi sono numerosi accorgimenti stilistici su cui vale la pena soffermarsi. Come l’architettura dell’edificio in cui abita il dottore, escheriana, strutturata per farsi rappresentazione concreta della teoria sull’inconscio del giovane Freud, quando spiega: «Io sono una casa. È buio al mio interno, la mia coscienza è una luce solitaria, una candela al vento. Tutto il resto è avvolto nell’ombra. Ma le altre stanze ci sono, nicchie, corridoi, scale, porte, sono sempre lì», tutto ciò che vive dentro di noi e ci tormenta. E quindi scale, tante, piani, entrate e uscite in un palazzo di cui non si riescono a definire i contorni. Uno di quei dettagli della serie che svelano un gusto artistico ricercato, al pari delle scene che riproducono chiaramente alcune performance dell’azionismo viennese, la corrente artistica sadomasochistica del Novecento dominata dai corpi e dal sangue, dalla pelle, dalle mutazioni e dal desiderio dissacrante di infrangere ogni tipo di tabù. Quei particolari che valorizzano una trama in cui, come nella casa, troppe cose restano nell’ombra; che fanno di Freud un prodotto di cui non volersi dimenticare. Almeno, non subito.