Cultura | Cinema

Freaks Out è un film che dà di matto

Il nuovo di Gabriele Mainetti è una superproduzione in cui si mischiano tanti generi, forse troppi.

di Francesco Gerardi

Freaks Out ha lo stesso problema di Lo chiamavano Jeeg Robot: non è un film, è un simbolo, un segnale. Il cinema italiano sta cercando di ritornare a essere (anche) cinema di genere e ha deciso che il portatore della buona novella, il Battista, è Gabriele Mainetti perché lui è attraversato dallo spirito del tempo. Il genio di questo decennio è ovviamente il supereroe e Mainetti è ormai quello che fa i supereroi se i supereroi nascessero a Tor Bella Monaca invece che a Brooklyn. E hai voglia a dire che quando immaginava Freaks Out non pensava all’universo cinematografico Marvel, ma a quello degli amori della sua infanzia: oggi un film, e in realtà qualsiasi pezzo di cultura popolare, è l’approssimazione che riusciamo a farne per trasformarla nell’ossessione recente. È la ragione per la quale Matteo Rovere e Matteo Garrone, rispettivamente con Il primo re e Il racconto dei racconti, si sono dovuti sorbire il paragone con Il Trono di Spade. Ed è la ragione per la quale il film di Mainetti, nonostante faccia un’altra cosa, è un film di supereroi: come tale viene visto e giudicato. D’altronde, se uno è abituato alla magnificenza del Zirkus Berlin, perché mai dovrebbe interessarsi di cosa succede sotto il tendone del Circo Mezza Piotta? Vai a sapere che per mezza piotta si può vedere un ragazzo (Pietro Castellitto/Cencio) capace di controllare gli insetti («Tranne le api, perché me stanno sur cazzo»), un nano con il potere del magnetismo (Giancarlo Martini/Mario), un uomo ipertricotico dotato di superforza (Claudio Santamaria/Fulvio) e una ragazza elettrica (Aurora Giovinazzo/Matilde). Vai a sapere che sì, certo, mezza piotta è sempre mezza piotta rispetto alle produzioni americane che spendono poco quando spendono 100 milioni di dollari, ma mezza piotta sono 12 milioni di euro e budget come questo in Italia bastano a fare l’equivalente cinematografico… del circo, appunto.

A Mainetti non si può dire di essere stato criptico: tutto quello che c’è da sapere del suo secondo film sta nel titolo, Freaks Out, che, con la perdita che bisogna accettare in qualsiasi tentativo di traduzione, in italiano potremmo dirlo dare di matto. E in effetti questo è un film che dà di matto: è disordinato ed è eccessivo, è prolisso ed è sconclusionato. Lo è nelle intenzioni, sia chiaro, quindi non può che esserlo nei risultati. «Ci sono gli effetti speciali, la fantasia, il sogno, il circo. Ma anche la realtà. Gli orrori della storia. La solitudine. L’imparare a conoscersi, trovare il proprio posto, amarsi. Non avere più bisogno della culla. Che per i miei personaggi è il circo. All’inizio si sentono orfani. Impareranno a sopravvivere da soli», ha detto Mainetti in un’intervista ad Amica. Tutto questo mentre i nazisti («i veri freaks, i veri mostri della storia») rastrellano il ghetto. È vero, nel film ci sono tutte queste cose, melense per quanto possano sembrare. Ma anche questa è una dichiarazione d’intenti: Mainetti lo dice di amare Spielberg, ammette di aver pensato a Il Mago di Oz (in una scena Matilde viene proprio chiamata Dorothy da un pagliaccio del Zirkus Berlin, e mica è un caso che i guanti che la ragazza usa per evitare di elettrificare chiunque tocchi siano rossi come lo scarpette indossate da Judy Garland) e si dimentica pure di ringraziare J.J. Abrams per Super 8. Si è detto che è un film di buoni sentimenti che scansa le complessità inevitabili dell’Italia della Seconda Guerra Mondiale, hanno detto e scritto i Guido Aristarco che questa epoca si merita. Bastardi senza gloria era un film che scansava le complessità inevitabili della Germania della Seconda Guerra Mondiale? E dire che anche questo Mainetti lo ha detto: «Amo molto anche Tarantino», e Tarantino ha fatto letteralmente solo film con e su i freaks. A quanto pare non basta far sentire un nazista (Franz Rogowski) che parla con la zeppola, che corre saltellando, che suona al pianoforte cover di Creep e Sweet Child o’ mine, che vede il futuro dentro allucinazioni le cui pareti sono fatte di etere e che su ogni mano porta sei dita per far capire che no, questo non è un film storico, non è Dunkirk.

Che poi, chissà, Dunkirk Mainetti potrebbe pure girarlo. Se c’è una cosa che vien fuori evidente da Freaks Out è che Mainetti è un regista di generi, al plurale: il bombardamento che è la seconda metà della scena iniziale e la battaglia campale che è il lunghissimo finale del terzo atto dimostrano una dimistichezza con una parte di cinema che mai avrei pensato possedesse. In queste pezzi di film si vede Spielberg come in Lo chiamavano Jeeg Robot si vedevano Avildsen e Stallone annata ’77. Però Freaks Out finisce per essere molto o soltanto queste parti di se stesso, troppo lunghe e rumorose e travolgenti e confusionarie ed esagerate per lasciare traccia di tutto il resto che si è visto, di quel che c’è stato prima. In questo, Freaks Out è esattamente un film di supereroi: fatto o disfatto dalla battaglia finale, dal grande scontro. Solo che, appunto, quegli altri sono solo film di supereroi, questo invece no (affatto o soltanto dipende dalle definizioni e preferenze di ognuno) ed è da questo essere più cose, troppe cose – proprio come il circo – che viene fuori la confusione. D’altronde, a chi è che piace tutto il circo? Piace a pezzi, a te i pagliacci e me i domatori di leoni a lui gli acrobati e lei gli elefanti in piedi sulle zampe posteriori. 

Freaks Out alla fine è proprio come il circo: ognuno avrebbe un pezzo da scegliersi e da farsi piacere. E forse è proprio per questa ragione che non piace più di quanto piace: è un film di genere che in realtà non lo è in un’epoca in cui stiamo comodi in generi che in realtà sono codici (anche se io sono convinto che il film avrebbe trovato un entusiasmo maggiore se fosse uscito quando inizialmente doveva uscire, cioè nel 2019, cioè prima di Endgame e di questa sazietà di supereroi che si comincia ad avvertire. Solo che poi si sono messe i reshoot, e il lavoro in post-produzione che si può apprezzare adesso su schermo, e la pandemia, ed eccoci ad fine 2021). Ci piace capire quello che abbiamo davanti agli occhi e, soprattutto, sapere che lo capiremo ancora prima di avercelo davanti agli occhi: perché diavolo siamo andati a vedere decine di film di supereroi che erano tutti la stessa origin story ma con un costume diverso (same hero, new boots, parafrasando Dave Chappelle)? Freaks Out è invece un film incomprensibile, cioè inconciliabile tra le parti che lo compongono: lo stesso gruppo di persone può essere allo stesso tempo l’Armata Brancaleone e i Fantastici 4? La stessa protagonista può essere allo stesso tempo Edmund di Germania Anno Zero e Jean Grey degli X-Men, versione Fenice (per i più giovani: va bene anche Eleven di Stranger Things)? Roma può essere allo stesso tempo la città aperta di Rossellini posta lungo La strada di Fellini e la New York in cui combattono gli Avengers? I partigiani possono essere allo stesso tempo guerriglieri postapocalittici à la Mad Max e i soldati della Resistenza di cui abbiamo letto nei libri di storia? Anche in questo, la risposta l’ha Mainetti e il suggerimento sta nel titolo: certe cose fanno impazzire e basta, è giusto che sia così e può essere solo così. «I miei freaks impazziscono di fronte alla vita. Alla realtà. La Storia nei suoi momenti più drammatici, ieri come oggi, ti fa impazzire».