In Inghilterra anche i festival musicali sono una questione di classe sociale

Ce n'è uno per ogni genere musicale e per tutte le fasce di reddito, dall'aristocratico Wilderness al popolare Cross the Tracks. Andarci è un buon modo per capire, o almeno provare a capire, le stranezze inglesi.

21 Agosto 2025

Questo articolo è parte della nostra serie estiva “Gran Turismo” , in cui le autrici e gli autori di Rivista Studio raccontano luoghi e città dal punto di vista del turista o di chi i turisti li subisce. È un modo, un po’ più leggero, per continuare a far vivere il nostro numero estivo, tutto dedicato al turismo: da come, negli ultimi anni, sia diventato un problema politico (overtourism), a come nonostante tutto, il viaggio continui a conservare una sua dimensione romantica. Lo trovate in edicola e sul nostro store online.

Partiamo dall’inizio. Siamo nel 1189, è appena cominciata la terza crociata e Lord Roderick di Charlbury lascia la moglie ventiquattrenne, i loro nove figli, il suo castello e le sue terre per andare a riconquistare lo Santo Sepolcro. In realtà Roddy, dopo essersi fermato in una locanda piena di donne molto affettuose ed eccellenti giocatori di carte per riposare le stanche membra dopo la traversata della Manica, pensa che in fondo la Terra Santa non va da nessuna parte. Quindi, una piccola pausa prima di rischiare la vita per volere di Nostro Signore ci sta tutta. E tra una giocata e una bevuta, una dormita e una… insomma, ci siamo capiti, sono passati tre anni e un patrimonio dilapidato.

Dopo avere acquistato con gli ultimi spiccioli una presunta reliquia da un viandante che si spacciava tornante dalla Palestina (in realtà arrivava da un paesino della Bretagna, nel XII secolo comunque un viaggio), Roderick prende la prima nave e torna nell’amata Inghilterra. Arrivato nelle vicinanze di casa, nell’Oxfordshire, si rende conto di avere bisogno di un po’ di entrate. Vedendo un contadino in un bel campo coltivato, parte di un appezzamento che stranamente non apparteneva né a lui né all’amico/rivale Barone Lauderdale, Roddy si appropinqua al villico, lo guarda e annuncia: «Sei qui testimone del fatto che questa terra che calpestiamo e tutta quella che lo sguardo abbraccia fino all’orizzonte è da questo momento di proprietà di Lord Roderick di Charlbury. È il volere di Dio, ricompensa di tre anni passati a liberare lo Santo Sepolcro». Ottocento e trenta anni dopo i discendenti di Roddy affittano quello stesso terreno agli organizzatori del Wilderness, il festival più posh dell’estate britannica. Va bene, magari non è andata proprio così, ma è una maniera per parlare proprio della cosa più bella della stagione calda in Gran Bretagna.

A dire il vero il procedimento è proprio quello di cui sopra: una famiglia proprietaria terriera, con possedimenti che risalgono a secoli e secoli prima, affitta alle fabbriche dell’entertainment che sono gli organizzatori di festival il terreno su cui vengono costruiti palchi, stand, toilette, campeggi, paesini di prefabbricati per le centinaia di persone che lavorano nell’organizzazione di queste macchine da soldi che sono i festival. Ce ne sono decine ogni estate, con una particolare concentrazione nel sud dell’Inghilterra e possibilmente a non più di un paio d’ore di treno da Londra o da altri centri importanti come Bristol, Liverpool o Manchester. Durano di solito quattro giorni, il minimo per giustificare un biglietto che costa di solito tra le duecento e le trecento sterline, che comprende anche il diritto a potere piantare una tenda nell’area di campeggio libero del festival. Ce ne sono per tutti i gusti: rock, folk, blues, heavy, pop, elettronica. La maggior parte è family friendly, e la musica negli anni è diventato quasi un danno collaterale. Oggi in un festival britannico ci si va per vivere un’esperienza a tutto tondo, dal food alla meditazione, dal fitness all’impegno politico, dagli incontri letterari alle sbronze epocali.

E qui veniamo al titolo di questa storia. Perché rovinarsi non è uguale per tutti. Neanche quello. Per questo mi sono, negli anni, avventurato in un’ indagine antropologica, mettendo a repentaglio la mia salute, incolumità e virtù per capire la scala sociale dei festival del Regno Unito. Un posto, ricordiamo, dove non solo c’è un re che siede su un trono con tanto di regina al fianco e famiglia reale di contorno. C’è addirittura una corte, formata da migliaia di individui che, come detto prima, ancora campa grazie agli introiti di terre che Dio ha dato alla Corona perché lo dice la Corona e che la stessa ha ceduto a conti, marchesi, duchi e baroni in cambio di servigi resi o, meglio ancora, in saldo di debiti contratti.

Wilderness

Ma torniamo ai festival. E dimenticate Glastonbury. Quello è una fuoriserie, è il Cannes, il Venezia dei festival britannici, e per una gran parte di gente normale anche inavvicinabile. Andare a Glastonbury è un investimento pari a una giornata di ombrellone e due lettini in Versilia, ma soprattutto è ormai più una passerella, sul palco e fuori. Sono altre le cose interessanti. Come il Wilderness, per l’appunto, in quel di Charlbury, Oxfordshire. Contea ricchissima, piena di nobiltà terriera o di assai benestanti rappresentanti del mondo finanziario che fanno i pendolari tra qui e Londra, dato che si tratta di poco più di un’ora di treno. Il Wilderness è il loro festival. Quattro giorni in cui la musica live è sullo sfondo e interessa poco. Le band di maggiore richiamo di quest’anno erano gli Air e i Fountains D.C., e non c’era esattamente il pienone ai loro concerti. Ma al festival sì, una media di oltre 20 mila persone al giorno, con un ricambio dettato anche dai daily ticket degli autoctoni del weekend.

Wilderness viene chiamato anche Waitroserness, parola mutuata dalla catena di supermercati più cara del regno, dove vanno quelli da un certo reddito in su. Wilderness ha un main sponsor ricchissimo, con la sua lussuosa clubhouse dove bevono champagne eleganti signore in abiti da cocktail accompagnate da mariti pronti a prendere in mano la mazza, da criquet ovviamente, e da figli e figlie di varie età. Wilderness è il regno di questa specie con conti in banca ricchi di zeri che si divertono con il Naked Criquet, ovvero una partita in cui ogni tanto dal pubblico parte qualcuno completamente nudo a correre in mezzo al campo, gli streaker, tradizione tutta British.

La mattina le stesse persone le trovi a fare il bagno nel laghetto del festival o fare yoga con l’insegnante che le guida da uno dei palchi principali. A pranzo invece sono a tavola sotto il tendone a bere vino costosissimo che un italiano non guarderebbe neanche al discount, gustando uno dei pasti gourmet di Angela Hartnett o Tom Sellers, chef britannici assai popolari, proprietari di inavvicinabili ristoranti tra Mayfair e Notting Hill. Io ho provato la prima, specializzata in una cucina fusion British-italiana, tutto buono, ma senza grossa personalità. So che costava moltissimo, ma per fortuna ero ospite.

Una delle cose fondamentali dei festival britannici è la vita nel camping. In tutti i festival c’è l’area glamping, con tende di lusso attrezzatissime e bagno privato che possono costare anche 1000 sterline a notte, a seconda della metratura. Ma la vita vera è nel campeggio generale, quello dove farsi una doccia è uno sport estremo e dove incontri i veri professionisti dell’estate. Tende per famiglie che al confronto quelle dei marines in Vietnam erano casette per criceti, padri Texas Ranger che per prima cosa la mattina piazzano quattro pannelli solari (ah, l’ottimismo degli inglesi!) per ricaricare telefoni e iPad, e poi iniziano a cucinare uova, bacon e fagioli in una cucina da campo che sembra uscita da Masterchef, mentre nella tenda di fianco si sveglia una coppia che fa colazione con una pinta di Guinness e un ecstasy.

Boomtown

Di scene come quest’ultima ne ho viste molte ogni mattina al Boomtown. Cambiamo decisamente genere e scendiamo anche di stipendio annuo. Qui parliamo di un’esperienza immersiva, una vera e propria città con un’estensione di quasi quattro miglia costruita appositamente ogni anno, divisa in quartieri, culture pop e musicali, tutte unite sotto la bandiera della libertà di espressione. Al Boomtown, la cui specialità è la musica elettronica, si possono vedere 30 mila persone ballare al dj set di mezzogiorno. In ognuno dei quattro giorni oltre 75 mila scatenati per una festa che unisce giovanissimi e ultrasettantenni, goth e new romantic, party people e famiglie nudiste con bambini a seguito.

Non costa poco neanche Boomtown, parliamo comunque di 300 sterline per il biglietto, e a meno che non vieni organizzatissimo con cibo e bevande, che si possono consumare però solo all’interno dell’area camping, tra viaggio e vizi torni a casa con almeno altrettante di meno. Ma sono spese benissimo, soprattutto per la compagnia, che unisce chi se lo può permettere senza ostentare a chi ha risparmiato per un anno intero per farsi quattro giorni di after. È un’esperienza, soprattutto sociale, perché davvero pensi che il mondo possa essere un posto migliore. Poi torni a casa e ti ricordi che era tutto un sogno.

Con il proletariato ci si diverte di più

Comunque, come avrete capito andare a un festival musicale in UK costa un organo più o meno vitale. Ma c’è speranza ancora anche per la classe operaia. Chi l’ha detto che uno deve per forza sbattersi tra treno, tenda e risparmi tolti a fondamentali pinte nel corso dell’anno per vivere un’esperienza indimenticabile? Per questo esistono anche i festival in città, abbordabili per tutti.

Un esempio calzante è il Cross the Tracks, che a fine maggio si svolge in quel di Brockwell Park a Brixton, il quartiere natale di David Bowie. Ci vado tutti gli anni, jazz, funky e soul sono la sua specialità, quest’anno c’è stato uno spettacolare concerto degli Ezra Collective, una delle cose migliori viste e sentite in anni. Un giorno, dieci ore di musica su sette palchi diversi, 50 sterline, spese benissimo, con sconti per i residenti di Brixton in accordo con il municipio locale.

E per ottimizzare i costi, da tre anni a questa parte due giorni prima nella stessa location si svolge un altro festival, il Wide Awake, che quest’anno ha avuto grande risonanza perché è stato il primo grande evento a cui hanno partecipato i Kneecap, la band hip-hop irlandese che ha smosso molti sentimenti grazie alle sue posizioni pro-Palestina. Come al solito con il proletariato ci si diverte di più. Pure senza Naked Criquet.

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di Studio
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