Cultura | Dal numero

Intervista a Michael K. Williams

Volto di Omar Little in The Wire, è morto a 54 anni: era la storia di copertina del numero 0 di Rivista Studio.

di Francesco Pacifico

Il 6 settembre 2021 l’attore statunitense Michael K. Williams, 54 anni, conosciuto soprattutto per il personaggio di Omar Little in The Wire, serie considerata tra le migliori di sempre, è stato trovato morto nel suo appartamento di Brooklyn. Le circostanze del decesso non sono chiare ma si pensa a una probabile overdose. Per la storia di copertina del numero zero di Rivista Studio, uscito nel gennaio 2011, Francesco Pacifico l’aveva intervistato e il fotografo Lele Saveri gli aveva scattato dei ritratti. La ripubblichiamo qui.

Che Michael Williams parli lentamente al telefono per farsi capire da uno straniero è veramente un buon segno. Artisti americani cresciuti in luoghi ben più esposti all’esistenza dello straniero di quanto non fosse la Brooklyn degli anni Settanta e Ottanta in cui è cresciuto lui tendono a dimenticarsi l’esistenza del mondo non anglofono, e nelle interviste rispondono smozzicando i nomi citati come se l’intervistatore abitasse nel loro cervello e fosse madrelingua inglese. Non è una cosa da poco, e mi fa subito capire, appena lo contatto al dato numero dal computer con credito Skype, che sto parlando con una Brava Persona. Per Brava Persona qui intendo uno che, baciato dalla fortuna come pochi e passato da teppista a ballerino ad attore adorato, ha talmente presente cos’è la fortuna The Wire che accorda tutte le risposte a uno spirito felice, umile, semplice, onesto. E insomma quando io gli chiedo della sua collaborazione con grandi del nostro tempo come David Simon, Martin Scorsese, Todd Solondz e R Kelly (sì, sono tutti e quattro grandi anche se il primo non è famoso e l’ultimo è un cantante squilibrato di R&B), risponde con lo stesso entusiasmo con cui io gli pongo le domande, come se ogni risposta cominciasse con un “pazzesco, vero?”. Il bisogno di conferma che sia una Brava Persona mi viene peraltro da un fatto: Michael si è affermato come attore in una delle più belle serie tv, The Wire, la serie su politica, istituzioni, criminalità, polizia ed economia ambientata a Baltimora, che con le sue cento sottotrame interconnesse ha stabilito un nuovo irraggiungibile standard di complessità per le narrazioni contemporanee di ogni genere.

Il suo personaggio è Omar Little, il Robin Hood dei quartieri: un pazzo omosessuale che gira fischiettando col fucile fra i projects e incute una tale paura che gli spacciatori gli lanciano soldi e roba dalla finestra. Poi sostanzialmente distribuisce la ricchezza degli spacciatori fra chi gli pare a lui. Ai personaggi dei film, con cui si passano due ore, non ci si può mai affezionare come ci si affeziona a quelli delle serie, che per decine e decine di ore ti si aprono davanti senza pudore. Con un ruolo importante in una serie tv puoi costruire un rapporto intenso con il pubblico. E infatti, «I miei amici mi hanno detto di salutarti», gli dico, «Oh, veramente? Intervisti Omar? Grande, digli ciao da parte mia. Cosa si prova a interpretare una parte così forte in una lunga serie?». «È stata la svolta per la mia carriera. Sono molto grato per l’opportunità che ho avuto: un personaggio forte come Omar… Quando ho avuto la parte non sapevo che sarebbe durata tanto, ero solo felice di lavorare. Ora mi guardo indietro e sono veramente fiero di aver fatto parte di una cosa che ha avuto un impatto del genere».

«Pensavo anche che in una serie come The Wire al cuore della cosa ci sono magari le idee di Ed Burns e David Simon, ma tutto il cast ha portato molto del suo. Un esempio semplice: la cicatrice che hai in faccia, tu l’hai portata nella serie, e la tua voce. Tu peraltro hai scoperto Snoop» (la killer lesbica insopportabilmente spietata che però ha un accento di Baltimora talmente strambo e una faccia così rotonda che è diventata uno dei personaggi minori più amati di The Wire – e si chiama Snoop sia dal vero che nella serie). «Sì, ci siamo conosciuti in un bar di Baltimora e l’ho presentata ai produttori. Snoop ha molto carisma, è incantevole, è bella, lei incarna lo spirito di Baltimora, mi spiego? L’ho incontrata in un bar e i produttori l’hanno subito messa nella serie».
«Non è stato stupendo fare una cosa del genere?»
«Oh, assolutamente».
«Perché tu avevi appena avuto la tua grande occasione, e di colpo hai fatto un favore altrettanto grande a un’altra persona».
«È stata una bella sensazione, sì».
«Come ha reagito Snoop?»
Qui c’è un non sequitur, forse non mi ha capito, perché ha detto solo: «Secondo me per lei parla il suo lavoro: ha colto l’opportunità al volo e ci ha dato uno dei personaggi più memorabili della serie».

A questo punto mi emoziono e inizio a parlare di The Wire; e a proposito del minuscolo violentisismo spacciatore bambino aiutante del figlio di Wee-Bey mi sento rispondere: «È assurdo: nella realtà è il bambino più umile e rispettoso che c’è, ma è un attore fenomenale e ha dato tanto alla serie… sai, purtroppo rappresenta una condizione comune fra i ragazzini di Baltimora, è triste, ma la realtà è quella…». Ovviamente vorrei far domande su ogni personaggio del cast, ma gli chiedo (qui censuro il nome per evitare lo spoiler): «Ti è piaciuto che il personaggio di X alla fine diventi una sorta di secondo Omar?».
E lui però molto gentilmente mi cazzia: «Voglio dire una cosa chiaramente: da dove vengo, in America, in ogni città c’è un The Wire. Se mi chiedi se sono contento in generale della storia di un ragazzino che spara e ruba, eccetera, non posso dirtelo, non posso essere contento delle strade sbagliate che uno si trova a prendere. Sono contento che gli autori abbiano raccontato la verità».

«Hai ragione, scusa, è stata un’uscita un po’ infelice».
«No, non devi scusarti, le cose sono quelle che sono, no?»
«Sei cresciuto a Baltimora?»
«No, a New York».
«Vuoi parlare della tua adolescenza? Come hai cominciato a occuparti di arte? Ti va di parlarne?»
«Ho cominciato…» Qui fa uno starnuto pazzesco. «Scusa. Ho cominciato dopo l’adolescenza. A Brooklyn ho avuto un’infanzia stupenda, la mia famiglia si prendeva cura di me, ma ero anche molto turbolento». Altro starnuto, e un grosso rombo di catarro. «È febbre da fieno, scusa. Dicevo: una grande infanzia: era dura, eravamo poveri, ma avevo una bella famiglia, dei begli amici, ho bei ricordi».
«Sei andato al liceo? Sai, al momento vedo l’America solo attraverso The Wire: mi ha convinto che non ne sapevo nulla, quindi ti faccio le domande su questa base… tipo, la quarta stagione è sul sistema scolastico e le scuole dei quartieri poveri, quindi chiedo a te: com’è?».
«È molto vicina alla verità, la stagione sulla scuola. In America ci sono quelli che hanno e quelli che non hanno niente. In The Wire vedi le scuole per i poveri. Se hai i soldi puoi sceglierti un altro stile di vita. Il mio liceo era devastato da tanta droga e tante distrazioni… non ho finito il liceo, alla fine ho preso solo il General Education Development Test» (credo sia l’esame per il diploma di chi non ha finito il liceo).

«E come hai cominciato con il mondo dello spettacolo?»
«Avevo ventitré, ventidue anni. Da tanto cercavo qualcosa, ma non avevo ancora avuto il coraggio di buttarmi. Poi vidi un video di Janet Jackson, “Rhythm Nation”, che mi colpì molto: lasciai scuola, mi imbarcai nel progetto di diventare un ballerino per Janet Jackson, o per lo meno far parte di quel mondo».
«E il primo ruolo al cinema, invece?»
«Un film indipendente, Bullets, con Tupac Shakur and Mickey Rourke. E senti come trovai la parte: Tupac aveva visto una mia foto nell’ufficio della produzione, perché all’epoca ormai avevo fatto molti video come ballerino. E pensò che avevo l’aria abbastanza truce per fare la parte di suo fratello minore, per cui mandò i produttori a cercarmi e ottenni la parte».
«Che modo pazzesco di cominciare a recitare. Com’è stato?».
«Ero… ero sconvolto. Non potevo crederci, ero seduto lì davanti a Tupac, di cui avevo sentito i dischi per anni… E lui mi spiegò che avevo preso la parte perché lui era rimasto colpito dalla foto e io pensai: ‘holy shit’, capito?, mi ha cambiato la vita, Tupac, ha mandato la mia vita in tutta un’altra direzione».
«Quanti anni avevi?»
«Venticinque, ventisei…»
«Mi pare un’età perfetta per una svolta… Magari dopo un po’ avresti smesso di provare a sfondare…»
«Be’», ride, «ognuno ci arriva all’età che ci arriva, ma ti dico, mi ha salvato la vita, sicuro».

«Che roba. Passiamo a Broadwalk Empire. In America è appena cominciato. Com’è?»
«È andato in onda lunedì scorso. La storia è ambientata ad Atlantic City nel 1920. È l’era del proibizionismo, quando misero l’alcol fuorilegge. Vedi quindi la nascita dei gangster, dell’alcol di contrabbando. E vedi anche tutti i grandi gangster da ragazzi, mentre si facevano strada. Come Al Capone, Lucky Luciano, i fratelli D’Alessio…»
«Gli original gangsters».
«Oh, sì. Gli original gangsters».
«E il tuo personaggio?»
«Il mio personaggio si chiama Chalky White».
«Bel nome» (bianco di gesso…).
«Già, sì, infatti. Fondamentalmente è il sindaco non ufficiale della comunità nera di Atlantic City, ai tempi era responsabile praticamente del venti percento dell’elettorato della città».
«Ed è corrotto?»
«Sì, è un gangster. Fa l’alcol di contrabbando. È un uomo d’affari barra gangster».
«Insomma è lo Stringer Bell, il Proposition Joe degli anni Venti» (continua la mia fissazione su The Wire e i suoi personaggi).
«Sì, si può dire così».
«Ti diverti a farlo?»
«Da morire. Anche stavolta sto in ottima compagnia. C’è Martin Scorsese a produrre, ha diretto il pilota. E ci sono Steve Buscemi, Mike Pitt, Michael Shannen, il cast è fantastico, scritto benissimo, da quelli dei Soprano, è il loro nuovo bambino…»
«Insomma praticamente Scorsese è curioso di ogni cosa e quindi voleva partecipare al rinascimento delle narrazioni americane grazie alle serie tv… Che impressione ti ha fatto? Lui porta la grandeur del cinema nelle serie tv. Che ne pensi?»
“Lui è incredibile. È una grande sensazione far parte di una cosa così frenetica, e hai ragione, in effetti Scorsese porta tutta la grandeur del cinema nel televisore, che è una cosa più piccola… lui è uno dei migliori, sono veramente felice di farne parte».
«Mi viene in mente che forse è il momento giusto per questa grandeur. In fondo ora i televisori sono enormi, c’è l’alta definizione, quindi ha senso che uno con quell’esperienza nel cinema porti il suo sapere in tv proprio nel momento in cui le serie devono cominciare a tenere in conto che i televisori danno nuove possibilità. Magari è quello il motivo per cui ci si è messo».
«Non so proprio. Guarda, sono solo molto contento che mi hanno preso».

E io rido, perché mi ricorda che per me sono speculazioni da fan ma la vita l’ha svoltata lui e non riesce mai a mettere questa cosa tra parentesi. «Anch’io lo sarei», gli dico. «Senti, ora parlami invece della cosa più assurda e folle che hai fatto: Trapped in the closet, di R Kelly. È veramente una bella cosa. Quando l’ho visto non sono riuscito a smettere di cantare come R Kelly…». Trapped in the Closet è un’opera R&B che potete trovare su Youtube o su ifcfilms.com: si tratta di più di venti mini episodi che raccontano una notte di corna multiple e incrociate in cui vari personaggi rivelano di essere gay, tutti recitano solo col labiale, mentre R Kelly, che è anche uno dei personaggi e ha sempre in mano una pistola con cui cerca di convincere le persone a calmarsi ma poi è sempre il più agitato, canta non solo le proprie battue, ma anche quelle degli altri attori, mettendo in piedi dei botta e risposta del livello di Cara ti amo di Elio e le storie tese, ma da solo. In più, c’è un nano; in più, tutta l’opera è suonata su due soli accordi. Quando la melodia ti entra in testa diventi pazzo.

«Lì mi sono veramente divertito. R Kelly è un genio della musica, lo rispetto da morire. All’inizio non sapevo proprio cosa aspettarmi, mi hanno cercato, la produttrice era mia amica, una cara amica, e insomma mi chiama perché c’era una parte, sono andato lì e quando ho visto di che si trattava mi sono detto che sarebbe stato da fuori di testa. Ci siamo veramente divertiti, lui è un genio della musica, che sia stato in grado di mettere insieme tutta questa cosa, la storia, è praticamente una soap musicale».
«Come ti ha presentato il progetto? Come ne parla lui? Non riesco a immaginarmelo: è una cosa troppo strana».
«Guarda, mi ci sono buttato, mi ha dato il copione e l’ho imparato: quando mi hanno chiamato era già in produzione. Sono un professionista, no? Cos’è?, dammi le mie battute, e poi da lì cerco di divertirmi, una cosa d’istinto».
«Insomma, la prima scena che hai girato è quella per strada in cui gli fai una multa?»
«Sì, quella».

«C’è voluto tanto a girarlo? Non vi veniva da ridere? Tu col labiale dovevi dire cose come “Bridget, you slept with a midget!” (Bridget, sei andata a letto con un nano…)»
Ride. «Ci è voluto meno di un mese, tre settimane. 15-16 ore al giorno di riprese, e in tre settimane l’abbiamo fatta».
Qui scoppio a ridere perché mi immagino tre settimane per la sola scena del nano che va a letto con sua moglie. «La scena col nano in cucina?».
«Ma no, no, tutto quanto. Le prime riprese abbiamo fatto i primi 12 mini-episodi. Poi siamo tornati a fare gli altri, ma i primi 12 li abbiamo girati in tre settimane».
«Senti, ma non era imbarazzante dire cose come la rima midget/Bridget davanti al nano? [E per dire nano ovviamente gli dico little person, perché midget agli americani non si può dire] Lui era tranquillo?».
«Chi? Il nano?» Lui invece ha usato ancora midget. «Be’, senti, è un nano. Lui non si è fatto nessun problema, è stato divertente lavorarci, ha dato molto, ci metteva del suo nella parte e si trovava bene».
«No, te lo chiedo perché gli americani si fanno molti problemi col politicamente corretto e con chi chiama le cose con certi nomi, quindi ero curioso».
«No, niente del genere, era tutto molto piacevole, e insomma, sai, ci sono cose molto più serie nella vita: lui è felice di essere vivo, di stare in salute, di avere un lavoro che gli piace e che sa fare, quindi non aveva nessuna rabbia dentro, e ci metteva un sacco di energia».

«Sì, be’, si capisce che in Trapped in the Closet tutti gli attori ci hanno messo molto del loro. Sai, però, noi europei di solito siamo curiosi di questa fissazione per le definizioni politicamente corrette tipo little person…».
«Non siamo tutti così, in America, fidati, per molta gente non è così, anzi vedrai che quelli che vengono dai quartieri, di solito… non sono per niente così».
«Fa piacere saperlo. Lo dirò in giro. Ora vorrei chiederti del film di Todd Solondz. Com’è stato? È un ambiente molto diverso rispetto agli altri tre di cui abbiamo parlato».
«Todd è un genio. Nella mia vita sono stato molto fortunato: sono entrato in contatto con molti grandi talenti, che mi hanno fatto fare un vero salto di qualità», (qui in traduzione si perde tutto: in inglese ha detto “took my game to a whole different level”, che è più intenso), «e Todd è stato chiaramente uno di questi. È un genio nel suo campo. Ho dovuto sudarmi quel ruolo, all’inizio non mi voleva, e l’unico motivo per cui mi ha fatto il provino è che la direttrice del casting, Gayle Keller… Lei mi ha seguito fin dagli inizi della carriera e ha cercato di farmi ottenere un provino, e Todd mi ha detto: Michael, guarda, non volevo proprio chiamarti per questo film, ho visto la tua foto, ti ho trovato troppo cool, troppo bello, non adatto per la parte. E quando sono entrato nella sala dei provini e mi ha guardato si è convinto ancora di più che non fossi la persona giusta. Poi abbiamo cominciato il provino e abbiamo letto una scena, e… fondamentalmente, gli ho fatto cambiare idea».

«Così? Solo leggendo?»
«Todd mi ha massacrato, credimi. Mi ha rotto il culo, a quel provino. È durato quasi due ore. Non un provino normale. Mi ha fatto a pezzi, quando ho finito ero proprio emotivamente esausto. Mi ha spinto a dei livelli cui non ero mai arrivato, come attore».
«Spiegami come funziona, dovevi improvvisare?»
«No, no: non esiste improvvisazione con lui, è molto anale, vuole che si rispetti il copione. Ha scritto la sceneggiatura, è un grande sceneggiatore, e ogni parola, ogni virgola, ogni punto, tutto ha un significato e devi dare l’intonazione perfetta a ogni battuta. Anale. Veramente, veramente, veramente preciso, anale, devi ripetere precisamente quello che ha scritto – e sai, mi ha portato a tutto un altro livello, io sono abituato a improvvisare un po’, a modificare le battute, e lui mi ha spinto a fidarmi di lui al cento percento e se non capivo il senso di ciò che aveva scritto mi costringeva a tornare indietro e capirlo, perché non avevo scelta, dovevo leggere quello che stava scritto sul copione, e gli sono veramente grato perché mi ha costretto a migliorare come attore».
Qui cade la linea di Skype e provo un po’ a chiamarlo, ma dopo non mi va di riprendere a parlare: ha detto che Todd Solondz è anale e per me si può chiudere lì. Aggiungo che lo invidio e che sono felice per lui. È bello quando ad avere successo è uno che lo sa apprezzare, a quel punto perfino il successo rischia di sembrare una cosa sana.

Pubblicato sul Numero 0 di Studio, fotografie di Lele Saveri