Attualità | Dal numero

L’Europa è di chi la vuole

Il sogno di un continente senza confini è stato offuscato da anni di crisi economica e orgogli nazionalisti, poi la guerra in Ucraina e le proteste in Georgia hanno riportato improvvisamente l’Europa alla sua origine di ideale al quale aspirare. Dal numero 55 di Rivista Studio, New World Border.

di Davide Coppo

Lo so quanto sono piene di menzogne le immagini, e quanti rischi si corrono a toglierle da un contesto preciso e trasformarle in icone. C’è anche da dire che sono facile alla commozione, e qualcosa dietro agli occhi inizia a tremolarmi anche per le scene d’amore più banali dei film. Però ho lacrimato di emozione, e lacrimo ancora ogni volta che lo rivedo, a guardare quel video della primavera 2023 che mostra una donna georgiana, durante una manifestazione pro-Europa a Tbilisi, che sventola una bandiera europea contro gli idranti della polizia. Il video va così: prima c’è questa donna – si chiama Nana Malashkia – che, da sola, sventola questa bandiera blu con le stelle gialle. La polizia, con i camion-idrante, sta già sparando acqua per disperdere i manifestanti, lei quindi è nella scena da sola, circondata solo dall’asfalto bagnato. Muove a destra e sinistra l’asta con forza, forse con disperazione. Quando l’idrante la colpisce, la fa arretrare, la butta quasi per terra. Già così l’emozione è forte, il simbolismo pure. Poi però arrivano altri manifestanti ad aiutarla, si mettono dietro di lei, formano una specie di barricata umana. L’idrante continua a sparare acqua, alcuni cadono per terra. Si passano la bandiera per tenerla bene in alto e resistere a quel getto. La composizione della scena ricorda la foto di Joe Rosenthal dei militari americani che alzano la bandiera a stelle e strisce a Iwo Jima. Io ho pensato alle ultime parole di Arturo Prat, l’eroe nazionale cileno, citato da Roberto Bolaño nella sua famosa ultima intervista: «La nostra bandiera non è mai stata ammainata davanti al nemico, e spero che questa non sia l’occasione per farlo. Finché vivrò, questa bandiera sventolerà».

La bandiera dell’Europa ha una storia interessante: quando fu realizzata, negli anni Cinquanta, subito dopo la Guerra, c’erano diverse proposte sul tavolo. Quando si è deciso per lo sfondo blu con le stelle gialle, si è dibattuto a lungo sul numero delle stelle. Alla fine è stato scelto il dodici come simbolo: dodici, proprio come i segni dello zodiaco. «Le dodici stelle», dice il comunicato con cui l’8 dicembre 1955 la bandiera viene adottata ufficialmente, «rappresentano tutti i popoli d’Europa – compresi quelli che non possono ancora partecipare alla costruzione dell’Europa nell’unità e nella pace». Quali popoli si intende? Quelli che, all’epoca, erano ancora sotto il controllo dell’Unione Sovietica. Nonostante l’Urss, e la Guerra Fredda più in generale, siano terminati nel 1991, non tutti sono ancora oggi parte dell’Europa. Quella donna georgiana, allora, stava utilizzando la bandiera europea in uno dei suoi significati più profondi: come vessillo di un popolo che, ancora, non riesce a partecipare alla costruzione europea nell’unità e nella pace. È l’unica bandiera, questa nostra bandiera, che rappresenta anche chi non fa parte politicamente dell’Unione. Una bandiera immaginaria.

L’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio del 2022 serviva, nell’ottica dell’invasore, a evitare che un’altra nazione venisse a partecipare a questa Europa unita e pacifica. Non è stata la prima guerra europea del XXI secolo: nel 2008 c’era stata l’invasione della Georgia, sempre per mano della Russia. A differenza della Georgia, per affinità culturale, geografica e forse per il fatto che quella contro Kiev è stata da subito una guerra di conquista totale, l’invasione dell’Ucraina ci ha coinvolto, come cittadini europei, più di ogni altro conflitto degli ultimi cinquant’anni. Ci ha spinto, e ci spinge ogni giorno ancora, a chiederci: cosa significa Europa? È una domanda vecchia, ma dai primi missili su Kiev del marzo 2022 ce lo chiediamo in un modo nuovo, cercando delle risposte nuove.

Nel 1946, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, un gruppo di intellettuali aveva provato a rispondere alla domanda riunendosi a Ginevra, nell’ambito dei “Rencontres internationales” intitolati, quell’anno, “L’esprit Européen”. Era una delle prime volte in cui intellettuali di diversi Paesi si mettevano intorno a un tavolo per chiedersi: ma cos’è che ci unisce, per poter ricostruire insieme un mondo da queste macerie?

Nella primavera del 2023, un anno dopo l’inizio della guerra, mentre l’opinione pubblica era sempre più divisa sul supporto all’Ucraina e la domanda non aveva ancora, nella mia testa, trovato una risposta, mi sono imbattuto in un breve testo di Daniele Del Giudice chiamato “Occidente Europa”, contenuto nella raccolta In questa luce (Einaudi). Scrive, Del Giudice: «L’immaginario europeo non aveva mai avuto coscienza di sé, per il semplice fatto che non ne sentiva il bisogno; e nel momento stesso in cui avvertiva la necessità di riconoscersi culturalmente e geograficamente come “europeo” si scopriva già tutto al passato»: e quindi Europa era un minestrone di divinità greche, Socrate, di geometria euclidea, Shakespeare, Don Chisciotte, Goethe. «Tutto questo, ma anche il suo contrario», dice ancora Del Giudice. Perché «essenza dello spirito europeo è sempre stata l’idea di conflitto e di contraddizione».

Sarebbe d’accordo anche Mathias Énard, immagino, perché il suo capolavoro Zona, del 2008, è alla fine proprio questo: un ritratto dell’Europa attraverso la violenza che la attraversa da sempre. Le guerre, le guerre civili, il terrorismo, i colonialismi, le pulizie etniche, i servizi deviati. La violenza fa parte del dna dell’Europa, dice Énard, che non si limita nella sua narrazione al Novecento, ma viaggia dalla battaglia di Lepanto alla Battaglia di Lodi, fino ad arrivare alle guerre che hanno bruciato la Jugoslavia. La violenza, fuori dai libri, dura ancora, e ancora ci definisce: oggi, in fondo, la nostra identità europea non può prescindere dagli attentati del 15 novembre 2015 in Francia, perché intorno a quella ferita quell’identità si è modificata, si è ritirata, poi si è cicatrizzata e, forse, è riuscita a guarire. Per dire altro: la stessa identità europea non può prescindere nemmeno dai 105 morti al largo di Cutro, e più in generale dalle migliaia di corpi in fondo al Mediterraneo tra la Tunisia, la Libia e la Sicilia.

In un altro saggio dalla stessa raccolta Del Giudice si chiede che cos’è una patria. Una patria, scrive, non può prescindere dal concetto di tempo. Può prescindere invece dalla geografia fisica. Essere in patria significa essere in un preciso tempo. Esisteranno quindi moltissime patrie, tutte legate a un immaginario, e non a dei confini. Ci si può sentire in patria non in tutta l’America, per esempio, ma nell’America di Hemingway e Fitzgerald. Non in tutta la Russia, ma nella Russia che andava dalla Rivoluzione d’ottobre al suicidio di Majakovskij. Non è necessario essere nati in quelle patrie per esserne cittadini: perché il loro territorio è fatto di immagini e sentimenti. Come la bandiera europea, ho pensato: bandiera di chi non è ancora cittadino, ma che vorrebbe esserlo. Oggi mi sembra questo, l’Europa: qualcosa che si definisce soprattutto attraverso lo sguardo degli altri, di chi la vorrebbe e non ce l’ha ancora. Oggi dell’Europa vorrei continuare a pensare questo. Non il trattato di Schengen sospeso da ben undici Paesi per il timore di migrazioni e atti di terrorismo; non le decisioni improvvise di Ursula von der Leyen a sostegno di Netanyahu salvo poi essere sconfessata da Borrell.

L’Europa sono allora i diecimila rifugiati siriani che arrivano a Monaco di Baviera nel settembre 2015 accolti dagli applausi dei tedeschi. Sono le centomila persone in piazza a Chisinau, in Moldavia, per avvicinarsi all’Unione, un numero enorme per un Paese di due milioni di abitanti. Europa è l’applauso del Parlamento ucraino, il 1 luglio 2022, al momento dell’innalzamento della bandiera blu con le dodici stelle al fianco di quella nazionale gialla e azzurra. Europa è la ragazza georgiana che sventola quella bandiera come uno scudo contro la repressione. Se non sappiamo cosa vuol dire sentirsi europei, in questo tempo, ce lo ricordano gli altri che vorrebbero esserlo. Per loro vale ancora l’ultima frase del Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi e Colorni: «​​La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà».

Una versione precedente di questo articolo è apparsa sul numero 55 di Rivista Studio, New World Border