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Cinquant’anni dopo, L’esorcista di William Friedkin resta l’horror perfetto

Oggi esce L'esorcista – Il credente, ennesimo tentativo di sequel. Stroncato dalla critica, ma un merito ce l'ha: è un'occasione per riscoprire l'originale del 1973.

di Francesco Gerardi

Oggi nelle sale di mezzo mondo è arrivato l’ennesimo tentativo di sequel/reboot della saga dell’Esorcista: è stato prevedibilmente e brutalmente stroncato dalla critica. William Friedkin è morto lo scorso 7 agosto, poco dopo aver finito il suo ultimo film – The Caine Mutiny Court-Martial, presentato in anteprima alla Mostra del cinema di Venezia. Chi lo conosceva bene dice che a Friedkin sarebbe piaciuto tanto vivere abbastanza a lungo da veder fallire un’altra scopiazzatura del suo lavoro, come chiamava lui tutti i sequel e reboot e spin off dell’Esorcista: «Non ne ho mai visto uno decente», diceva.

Era un uomo di una certa vanità e capace di un discreto rancore, Friedkin. Lo faceva arrabbiare il fatto che L’esorcista fosse stato rifatto talmente tante volte che «i giovani oggi non sanno mica qual è l’originale». Non sanno che L’esorcista del 1973 fu il primo horror a essere candidato all’Oscar per il Miglior film, o che a New York, fuori dalle sale in cui lo si proiettava, si crearono file lunghe fino a cinquemila persone. Non sanno neanche che fu l’inizio di un Satanic Panic mai davvero superato dalla psiche collettiva, che il reverendo Billy Graham invitò tutti i bravi cristiani americani a non andare a vedere il film che «aveva il Diavolo in ogni suo fotogramma». E non sanno che cambiò per sempre la storia dell’horror facendo pop un genere che fin lì era vissuto di bassi budget, pubblico di nicchia e stupidissimi jump scare. Nel suo stupendo memoir The Friedkin Connection, il regista racconta quanto lo divertisse il fatto che un film che lui considerava profondamente cristiano – quantomeno dal punto di vista valoriale e autoriale: la storia era ispirata dai diari dei preti che eseguirono un vero esorcismo su un 13enne ricoverato in un ospedale psichiatrico americano nel 1949 – venisse accusato di blasfemia. Rideva pensando al fatto che il Direttore generale dei Gesuiti dell’epoca conservava una copia del film nella sua videoteca personale. E lo rivedeva spesso.

A Friedkin le accuse di blasfemia piacquero moltissimo anche perché gli permisero  di risparmiare parecchio del budget promozionale dell’Esorcista. Avrebbe potuto fare a meno di trailer, spazi sui giornali, alla radio e alla tv se avesse saputo prima che del film si sarebbe parlato tanto a prescindere. Persino la classificazione divenne questione pubblicamente dibattuta: com’è possibile che un film del genere sia stato etichettato R – per restricted, vale a dire per minori di 17 anni solo se accompagnati da un adulto – e non X, che sta per visione consentita solo ai maggiorenni? Dopo averlo visto, pure Roger Ebert si disse incredulo dalla decisione: «L’esorcista mostra delle oscenità quasi indescrivibili. Che abbia ricevuto la classificazione R e non quella X è sconcertante», scrisse Ebert di un film che considerava «una prova delle più spaventose risorse a disposizione del cinema». Valutazione finale: quattro stelle su cinque. Ebert aveva ragione in più di un senso: L’esorcista è stato uno di quei casi – l’altro, contemporaneo, è Alien – in cui attorno a un film si crea un’anomala concentrazione di talenti tecnici e artistici: agli effetti speciali c’era Marcel Vercoutere, al trucco Dick Smith e alla fotografia Owen Roizman. Quest’ultimo Friedkin lo voleva con sé perché per il suo horror voleva una fotografia come quella del Braccio violento della legge: doveva sembrare (quasi) un documentario anche L’esorcista.

D’altronde, William Peter Blatty (sceneggiatore del film e autore del romanzo da cui il film è tratto, un best seller da 50 e rotte settimane in cima alla lista del New York Times) aveva voluto Friedkin alla regia proprio per quella sua estetica documentaristica, per la quale era disposto a sopportare il suo caratteraccio. Friedkin amava definirla “veritiera”, questa estetica, perché lo faceva sentire vicino alle ispirazioni della Nuova Hollywood: la Nouvelle Vague, il Neorealismo, il cinema giapponese. E Easy Rider, che secondo lui era il film che aveva convinto i produttori ad affidarsi a questa nuova generazione di registi americani. «Pensavano: se una banda di squilibrati come quella di Easy Rider è riuscita a fare i milioni con quel film, questi ragazzi devono avere un metodo». Ce lo avevate, gli hanno chiesto spesso i giornalisti. «Certo che no», rispondeva.

Il punto era crearselo, il metodo. Sul set dell’Esorcista Friedkin girava con una pistola a salve sempre carica, ogni tanto faceva partire un colpo perché «era l’unico modo per far spaventare davvero il cast». Oggi uno con il suo metodo verrebbe giustamente denunciato ai sindacati di categoria e alle autorità competenti: la povera Linda Blair dovette girare tutta la lunghissima scena dell’esorcismo con addosso solo una camicia da notte in una stanza in cui la temperatura era stabile a venti gradi sotto zero per mostrare il fiato condensato degli attori. Come se non bastasse, in faccia aveva un trucco pesantissimo che la doveva far assomigliare a una ricoverata in un reparto grandi ustioni, trucco tenuto assieme da una colla che per sbaglio le provocava ustioni vere. Nella scena in cui Regan aggredisce sua madre, Ellen Burstyn veniva tirata a terra da un uomo che strattonava un filo attaccato al suo costume. Lo strattone era così forte che Burstyn, cadendo, si faceva male davvero, cosa di cui si lamentò con Friedkin. «Ma deve sembrare vero», fu la sua risposta. Di fronte all’insistenza dell’attrice, Friedkin accettò di risolvere la questione. Disse all’uomo che tirava il cavo di fare attenzione. Burstyn finì le riprese con una frattura al coccige che le ha causato dolori alla schiena per il resto della sua vita.

Già all’epoca della sua uscita nelle sale, sulle riprese dell’Esorcista giravano tantissime storie. Un set maledetto, uno dei primi della storia del cinema. Nove persone associate alla produzione morirono durante le riprese. Ci fu pure un grosso incendiò che incenerì tutto il set, costringendo la produzione a fermarsi per un mese e mezzo. A chi gli diceva che c’era lo zampino del Diavolo, Friedkin rispondeva raccontando il più buffo aneddoto che conoscesse, cioè quello di come avevano fatto a convincere l’assicurazione a coprire i costi. «Dicemmo che un piccione si era schiantato sulle luci e aveva preso fuoco». Prendeva sul serio, Friedkin, solo la storia di Paul Bateson, il tecnico radiologo che nell’Esorcista fa una comparsata nella scena dell’angiografia: venne fuori che era un serial killer che adescava uomini gay nei locali, li uccideva, li faceva a pezzi, metteva i resti nelle buste della spazzatura e li buttava nell’Hudson. Quando Friedkin lo scoprì, corse a intervistarlo in carcere: da quelle conversazioni tirò fuori la sceneggiatura di Cruising.

Tutto contribuì a rendere L’esorcista famigerato e a generare una psicosi di massa (che in Italia declinammo ovviamente in ridicolo con L’esorciccio di Ciccio Ingrassia), tanto che dopo le prime proiezioni i distributori furono costretti a munirsi di barelle e a fornire sacchetti per il vomito omaggio. Tutto contribuì a fare incassare all’Esorcista quasi mezzo miliardo di dollari nel mondo, a fronte di un budget di 12. Ancora oggi, aggiustato per l’inflazione, il secondo incasso di sempre per un horror. Se il successo commerciale si può misurare, l’influenza artistica è stata tale che le novità introdotte dal film nel 1973 si sono diluite in cliché a furia di essere prese e riprese da altri: la possessione demoniaca, la ragazzina vittima ma anche carnefice, quella luce, quell’atmosfera, quel sonoro, i messaggi subliminali (il volto di Pazuzu, il ronzio delle api), l’estetica semi-documentaristica senza la quale oggi non avremmo né l’horror found footage tipo Rec né quello art house alla A24. A proposito di A24: in questi giorni è arrivato al cinema l’ultimo horror della casa, Talk to Me. L’ennesimo horror che non esisterebbe se non fosse esistito L’esorcista. L’ennesimo horror che conferma l’opinione di Friedkin su tutti i film che hanno cercato di rifare quello che fece lui: «Non ne ho mai visto uno decente».