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Gli oggetti meravigliosi di Domenico Gnoli

Fondazione Prada ha dedicato una ricchissima retrospettiva alla breve e straordinaria carriera dell'artista morto a New York nel 1970.

Domenico Gnoli, Vestito verde (particolare), 1967, collezione privata, courtesy Luxembourg + Co © Domenico Gnoli, by SIAE 2021

Verso la metà di ottobre è uscita sul New Yorker una bella intervista alla scrittrice svizzera-italiana Fleur Jaeggy, oggi 81enne, una che ha sempre scritto di cose molto private con una profonda grazia e, insieme, un certo sentimento di antica inquietudine. Verso la parte finale dell’intervista, che è molto lunga e in cui si parla molto anche di Hermes, la macchina per scrivere di Jaeggy, l’intervistata e l’intervistatore stanno parlando dell’importanza del silenzio, nella vita come nella letteratura. A un certo momento, di colpo, lei dice all’intervistatore: vuole venire a vedere la mia macchina per scrivere? Lui risponde: sì, grazie! A questo punto si deve essere alzato, perché la frase successiva di Jaeggy è: ho i suoi stessi calzini rossi! Lui dice: conosce Knize, a Vienna? Jaeggy: oh, certo! È un negozio stupendo. Lui: li ho comprati da Knize. Anche Thomas Bernhard ci andava sempre, no? Jaeggy: Sì, mi ricordo quando lo vedevo a Vienna. Era anche molto divertente.

Mi torna in mente questo scambio mentre guardo i colori accesi, le piccole onde regolari della seta di una cravatta regimental dipinta da Domenico Gnoli, in questa enorme personale che gli ha dedicato la Fondazione Prada a 50 anni – più due, abbonati causa Covid – dalla morte, e voluta originariamente da Germano Celant, che proprio di Covid morì nell’aprile 2020. Penso che in una cornice di un metro per un metro, ingrandito come sotto un microscopio, ci starebbe alla fine bene pure quel calzino di Knize rosso, i fili più grossi della lana merino intrecciati l’uno con l’altro, distanziati in file ordinate come i binari di uno scambio ferroviario guardato dall’alto. Nell’equilibrio di quell’intervista con Jaeggy l’apparizione dei calzini non rappresenta una pausa per prendere fiato in un discorso più alto, ma al contrario è un elemento importante tanto quanto una parte che tratti di critica letteraria. È grazie ai calzini che capiamo qualcosa in più del carattere della protagonista, del suo mondo interiore, del suo sguardo e della sua passione per una certa bellezza.

Domenico Gnoli, Capigliatura femminile, Riga in mezzo n.1, 1965, Collezione Prada, Milano © Domenico Gnoli, by SIAE 2021
Domenico Gnoli, Cravate, 1967, Collezione Privata © Domenico Gnoli, by SIAE 2021

Allo stesso modo, i dettagli dipinti – o i dipinti di dettagli – fatti in una carriera breve e straordinaria da Domenico Gnoli (1933-1970), non sono i close-up freddi tipici degli obiettivi macro, quelli usati per fotografare le farfalle nei premi di fotografia naturalistica, e nemmeno quelle esagerazioni dei microscopi che rivelano, zoomando all’infinito su un frutto lucido e polposo, un mondo nascosto fatto di parameci, microbi e vermetti di ogni tipo, trasformando la bellezza in un’inquietudine batterica. Al contrario i quadri di Gnoli, che siano il collo abbottonato di una camicia Oxford, la treccia geometrica di una chioma femminile, il taschino sensualmente aperto di un blazer spigato, ma anche le morbide colline dei corpi sotto una trapunta stesa sul letto, si sforzano di mostrare una bellezza particolare legata all’oggetto rappresentato, senza però destrutturarlo. La bellezza si trova nel dettaglio e nel particolare, laddove invece il quadro generale conterrebbe troppe informazioni e troppo caos. L’ordine dipinto da Gnoli, il silenzio che quegli oggetti traspirano, sono l’opposto del caos. Allo stesso tempo, tuttavia, riescono a essere anche il contrario della freddezza: quei vestiti, quei polsini e quelle cravatte non sono astratti still-life: sempre, a riempirli, si intuisce un corpo, e una vita ad animarli. Il cuscino della poltrona è leggermente schiacciato, e la carne del torace, sotto il reggiseno stretto, torna ad allargarsi con una piccola curva.

Domenico Gnoli, Capelli rossi ricci, 1969, collezione privata, New York © Domenico Gnoli, by SIAE 2021
Domenico Gnoli, Ricciolo, 1969, collezione privata, courtesy Luxembourg + Co © Domenico Gnoli , by SIAE 2021
Domenico Gnoli, Coletto rosso, 1969, Collezione Privata, Roma © Domenico Gnoli, by SIAE 2021

Celant definisce perfettamente questo ripieno delle cose dipinte da Gnoli, «un teatro sensuale e carnale dove si attua il continuo scambio tra le cose e i corpi, protagonisti di una complicità totale». Lui stesso aveva dato una definizione perfetta di questa vita che si vede e non vede dietro: «I miei temi derivano dall’attualità, dalle situazioni familiari della vita quotidiana; dal momento che non intervengo mai attivamente contro l’oggetto, posso avvertire la magia della sua presenza».

Si sente la sabbia di molta letteratura se si scuotono queste frasi, e d’altra parte quella di Gnoli è una formazione profondamente letteraria: «Sono nato sapendo di diventare pittore», dirà, perché per suo padre non esistono altre professioni meritevoli oltre a quella di pittore e di poeta, e poeti ne aveva tutto intorno: lo erano il nonno, le sorelle del nonno, pure alcuni zii. Calvino scrisse il divertissement Still-life alla maniera di Domenico Gnoli nel 1983 sulla rivista FMR, in cui descriveva gli oggetti come se fossero pure forme geometriche e misteriose («Giace su un piano orizzontale, in un perimetro perfettamente rettangolare o quasi, piatta e liscia per gran parte della sua superficie, ma non rigida»), eppure mi sembra più adatto accostare questi dipinti, soprattutto con questa installazione di Fondazione Prada, all’eco di Perec e delle Cose, il libretto-capolavoro del 1965 su una coppia di giovani che bramano ardentemente decine di cose, di case, di cartoline di una vita che non gli appartiene del tutto. «Si entusiasmavano per una valigia – quelle valigie minuscole, straordinariamente piatte, di cuoio nero leggermente granuloso, che si vedono nelle vetrine dei negozi della Madeleine e che sembrano riassumere in sé tutti i presunti piaceri dei viaggi lampo a New York o a Londra», si legge a pagina 16, e potrebbe in fondo essere la descrizione della texture di un bagaglio dipinto da Gnoli negli anni Sessanta. Perec spiegava d’altra parte così il suo libro, molto incompreso e diversamente interpretato: «Tra le cose del mondo moderno e la felicità [c’è] un rapporto obbligato. Una certa ricchezza nella nostra civiltà rende possibile un certo tipo di felicità: si può parlare in questo senso (…) di una felicità della moquette profonda…».

Domenico Gnoli, Cappotto, 1968, Collezione Van Abbemuseum, Eindhoven © Domenico Gnoli, by SIAE 2021
Domenico Gnoli, Zip, 1967, collezione Privata © Domenico Gnoli, by SIAE 2021

«Le situazioni familiari» in cui Gnoli collocava i suoi oggetti, vedendoli tutti così insieme e catalogati per tipologia – di qui i vestiti maschili, di qui quelli femminili, là i letti e le capigliature – fanno pensare a un’altra opera sia letteraria che artistica che dialoga bene con questa bella ossessione per la piccola meraviglia delle cose di ogni giorno. È un libro scritto da Leanne Shapton, pubblicato in Italia da Rizzoli, che gode di una certa fama: Important Artifacts and Personal Property from the Collection of Lenore Doolan and Harold Morris, Including Books, Street Fashion, and Jewelry. Il titolo è così assurdo perché l’opera si maschera proprio da catalogo di una casa d’aste: all’asta ci sono appunto 1332 oggetti, appartenuti a Lenore Doolan e Harold Morris, i protagonisti di questa storia d’amore che vediamo nascere crescere e morire soltanto attraverso la descrizione dei lotti. Un cd masterizzato da lui per lei con scritto a pennarello “Valentine Lullabies for the Lenore I Adore”, con la tracklist inclusa sul retro (Nick Drake, Yoko Ono, Björk, Johnny Cash); una sciarpa regalata da lui a lei con incluso biglietto: «Tortina, mi sembravi malata al telefono. Ti mando una bustina di tè per la tua gola e una sciarpa arancione per il collo. E una cosetta di Agent Provocateur… x»; una serie di Polaroid di un Thanksgiving in cui i due non sono ormai quasi più ritratti insieme, ma sempre impegnati a evitarsi parlando con persone diverse. E così via.

Il contesto, negli oggetti di Gnoli, non c’è quasi mai, ma lo si immagina, implicito. È un contesto non per forza nobile né borghese, nonostante la biografia che lo vede figlio di una contessa e un importante critico d’arte, ma è anche quello del vestito buono della domenica di una famiglia proletaria, di un letto semplice ma rassettato con cura. È il contesto, che definirei sempre più raro, delle cose fatte bene e conservate meglio, in cui sono valori anche la lentezza, l’abbondanza di particolari, il comfort.

Domenico Gnoli, Mela, 1968, Courtesy of Sa Bassa Blanca Museum, Yannick and Ben Jakober Foundation © Domenico Gnoli, by SIAE 2021
Domenico Gnoli, Due dormienti, 1966, collezione Privata © Domenico Gnoli, by SIAE 2021

Va infine specificato che Gnoli fu sempre anarchicamente slegato da ogni movimento, e la meraviglia delle sue cose non ha il tono dell’ossessiva replica della pop-art, da un lato, e nemmeno l’astratto onirico di Magritte. Si potrebbe pensare, fotografandole in questi giorni di mostra, che si tratti di uno stile contemporaneo e perfetto per Instagram, con quei quadri così definiti, e certo le foto prenderanno, su tutti i profili, molti like, eppure non è così. Fruire un quadro di Gnoli, invece, mi sembra il contrario del modello di funzionamento dei social network. Richiede non multitasking, ma calma e abbondanza di tempo. La grazia e l’ossessiva attenzione per il dettaglio non c’entrano niente con lo scrolling, con la frammentazione dell’attenzione odierna, con questa contemporaneità in cui se c’è una mancanza – la mancanza suprema su tutte – è quella di concentrazione. Se devo trovare una frase che possa racchiudere tutto, un esergo perfetto per questa opera meravigliosa, la prenderei da Novalis. Ed è la stessa che sta poi al principio di Important Artifacts: «Noi cerchiamo sempre l’infinito, e troviamo sempre e soltanto cose».