Stili di vita | Dal numero

La vecchia cucina italiana è diventata contemporanea

Con Trippa a Milano ha lanciato in Italia il concetto di New Trattoria: abbiamo parlato con lo chef Diego Rossi di come si è trasformata negli ultimi anni la ristorazione.

di Timothy Small

Ritratti di Alessandro Furchino Capria

Trippa è una trattoria di Milano e Diego Rossi è il suo chef e co-fondatore. Fine, detto tutto. E, in un certo senso, andrebbe bene così, nel rispetto della semplicità. Se non fosse che Trippa è una macchina da guerra, un colosso, un’astronave, ufficialmente insignita di miglior ristorante “gourmet casual” d’Europa, una delle poche trattorie in Italia a diventare un caso mondiale, probabilmente il posto italiano più rappresentativo della New Trattoria, o di bistronomia, quel movimento nato in Francia nei primi 2000 e poi approdato, con grande resistenza, in Spagna, e poi con ancora più resistenza nel nostro Bel Paese, qualche anno dopo. Ingredienti ricercatissimi ma con grandissimo rispetto del territorio e della stagionalità, grande semplicità e calore in sala, ma tutto fatto davvero per bene, con rigore e tecnica in cucina, e poi presentato a prezzi accessibili, senza impazzire e morire di lavoro alla ricerca di una stella Michelin che forse non serve nemmeno più a molto. Senza mai, come dice Tommaso Melilli, usare le pinzette per impiattare un petalo di rosa. E senza mai, dal lato del cliente, trovare un tavolo in meno di due settimane. Come dicevamo, Diego Rossi è metà di Trippa – l’altra è Pietro Caroli, l’oste extraordinaire – la metà che sta in cucina, che lavora il prodotto, che ricerca l’ingrediente, che fa esplodere la sua gigante personalità ben oltre le mura di Via Vasari al numero uno. Con il suo lavoro, Diego ha creato quello che è, secondo me, il posto più speciale di questo decennio a Milano, o almeno il posto che più ha cambiato la città, in questi dieci anni. E dato che sono i dieci anni di Rivista Studio che oggi celebriamo, ho pensato di chiamarlo, proprio per parlare di com’è cambiata la ristorazione italiana in questo decennio. «Ah, figo, sì», mi ha detto Diego, quando gliel’ho proposto. E quindi, eccoci qua.

Quant’è cambiata questa città? Tu quando sei arrivato esattamente?
Io sono arrivato a Milano ormai sette anni fa, sette e mezzo. Arrivavo da un’altra esperienza in montagna, e prima di quello ero alle Antiche Contrade, con la stella Michelin. 2011-2012. E ancora, imperversava il fine dining. Adesso diciamo che sta un po’ scemando, adesso forse viene un po’ meno, ma in quel momento lì, quando sono arrivato, c’erano tanti ristoranti, tanti posti, che io vedevo da fuori e pensavo: “Guarda che bella carta, che belle idee, che posto figo”. Poi, però, andavo a mangiare, ed era tutta fuffa, cazzo, tutta fuffa. Al che ho fatto un anno a girarmi tutta la città a provare tutti i ristoranti che trovavo, facevo qualche consulenza, e negli ultimi tempi iniziavo a raccontare i miei progetti a tutte le persone del settore.

Come la raccontavi? Ora Trippa è sinonimo di New Trattoria, di una certa riscoperta dell’autentico, del povero, dell’ingrediente dimenticato. Quanto ce l’avevi già perfettamente a fuoco prima di partire?
Totalmente! Avevo già in mente anche il colore delle cementine! Dicevo: “Vedrai, ho in mente di fare una trattoria, ma una trattoria vera, come ai vecchi tempi”. Quando abbiamo aperto, poi, non sapevo che sarebbe diventata questa cosa qua. Dicevo sempre al mio socio, Pietro: «Noi ci prenderemo Milano!». Ma lo dicevo ridendo. Cazzo, poi ci siamo riusciti, e altro che Milano.

Quindi volevi fare “una trattoria”.
Sì, sì. Non c’erano più posti casual. Dieci anni fa, erano spariti. La ristorazione media era sparita. C’era o il fine dining molto fighetto, o i postacci, dove ti inculano, dove c’è la roba di merda. E poi mancava proprio Milano, la cucina milanese. E secondo me, manca ancora Milano, manca ancora la concretezza. Senza star lì a raccontarci le fragoline, dico. Oggi ci sono posti interessanti di ragazzi giovani, che si impegnano e fanno le cose giuste. Però quando guardo le cose che fanno, vedo che c’è un pre-Trippa e un post-Trippa.

Forse avete mostrato agli altri che questa cosa si poteva fare. Avete aperto delle porte, forse. O almeno mostrato che quelle porte potevano essere attraversate.
Abbiamo fatto vedere che puoi far parlare di te, puoi essere sulla bocca di tutti, senza ambire alla stella Michelin, senza fare cose assurde, ma come concetto casual. Cosa che in altri Paesi del mondo, c’è, c’è eccome, solo qui da noi era una cosa ormai dimenticata.

L’Italia su tante cose soffre il peso della tradizione.
Eccome, vecio.

Molto spesso le cose innovative e fresche le trovi in posto dove magari i ragazzi sono più liberi. Tipo, in Inghilterra, dove certo, tradizionalmente si mangia molto male, ma dove, nell’ultimo decennio, mangiavi benissimo in mille posti diversi.
Sono d’accordissimo. Mille posti diversi, con costi diversi, e con cucine diverse. Ma non necessariamente fine dining. Cucine etniche, cucine miste, il foraging, il farm-to-table, cose italiane, francesi, qualsiasi cosa. Questo è il nostro limite. Perché sulla cucina noi siamo i numeri uno: come sapere, come mano, come cultura, ma poi abbiamo questo blocco incredibile. Io mi ricordo quando Eugenio Roncoroni cucinava con le maionesi, perché era parte del suo percorso, e la gente era tipo “No, così no”. E invece perché no? Perché?

Dieci anni fa la ristorazione media era sparita. C’era o il fine dining molto fighetto, o i postacci, dove ti inculano, dove c’è la roba di merda. E poi mancava proprio Milano, la cucina milanese

E noi ci siamo conosciuti alla Saketeca, anni fa, bevendo sakè e mangiando il tofu di Shimpei Moriyama, ed eri appena tornato da un mese a mangiare su e giù per il Sichuan. Sei particolarmente aperto alle cucine del mondo.
Non bisogna mai smettere di essere affamati di cose nuove. Però, io sono stato in Giappone, e il sushi lo mangio solo lì. Il concetto di Trippa quindi, è un concetto coerente, con dei paletti, e delle regole. Trippa è un progetto che ha voluto riprendere la trattoria italiana, per stupire, senza esotismi, ma per stupire con ingredienti italiani un po’ dimenticati.

Sicuramente Trippa stupisce con una proposta di ingredienti quasi introvabili, iper-locali.
Era questo l’obbiettivo. Perché io voglio saperne di tutto, la curiosità è la cosa più importante di tutte. Assaggiare tutto, mangiare tutto, scoprire tutto lo scopribile.

Ogni posto di Diego Rossi ha una sua identità, un suo progetto, quindi. Trippa riscopre la trattoria italiana. Magari domani farai un altro ristorante, con un altro concetto?
Ma, ad esempio, ora stiamo aprendo a Hong Kong. Lì, porteremo tecniche nostre, e anche piatti italiani, ma lì, magari, lo spinacio d’acqua ce lo metto. Perché è lì, del luogo, e va valorizzato.

È la territorialità che unisce tutto, quindi.
Sì, per me è molto importante rispettarla. Anche se è sempre più difficile. Soprattutto a Milano, dove non è che esci e hai 40 diversi contadini. C’è il Parco Agricolo Milano Sud, ma non molto altro.

Quindi se tu aprissi domani a Pantelleria…
Ommamma, divento scemo! Farei solo cose siciliane, solo locali. Mi ricordo, una volta, in Sicilia, cercavo una spiaggia. Io le cerco così: guardo Google Maps, vedo dove il colore del mare è più bello, più blu, poi metto il punto, e poi lo cerco. Non so mai come arrivarci. E questa volta, per arrivare alla spiaggia, dovevo attraversare dei campi sperduti. E passando in mezzo vedo da una parte, carrubi. Dall’altra, limoni verdelli. Poi il finocchietto e, dietro, le pecore. Cazzo, questo è un piatto, dico! Carrube, limone verdello, finocchietto, ricotta di pecora, è un dolce perfetto. Allora, mi dico, perché devo andare a prendere i lime e i passion fruit?

Per me la cosa più simbolica di questa totale mancanza di sosteniblità, sono gli ingredienti a chilometro diecimila messi in maniera gratuita, come quando nei ristoranti un po’ anni ’80 mettono “le spolverate di cocco”.
Meno male che non si vede più tanto. Ma questo è perché in Italia, per anni, c’è stato questo problema che si mangia bene sempre, a casa. E pensiamo tutti di sapere ormai benissimo tutto della cucina italiana. E allora, cosa fai, rischi di fare i piatti tradizionali, sapendo che magari tua mamma li fa meglio? No, provi a mettere il lime o quelle stronzate lì.

L’idea era: scappiamo il più lontano possibile dalla trattoria.
Esatto!

Oggi, invece, corriamo in trattoria.
Anche perché negli anni le trattorie si erano create un nome orribile, trattoria voleva dire tre cose: bassa qualità, tanto cibo, pochi sghei. Ma non è quella roba lì la trattoria. No: la trattoria era il posto dove si mangiavano le cose locali. Magari cucinate dalla nonna. Prodotti del contadino di  fianco. Oggi magari il prodotto del contadino ti costa di più di quello di massa, ma una volta ti costava di meno, ed era per quello che andavi lì.

C’è stato un cambiamento radicale davvero. A Milano, per anni, se volevi mangiare piatti tipici lombardi tipo l’anguilla, la rana, il pesce gatto, molto semplicemente, non li mangiavi. Mia nonna di madre, cresciuta tra la bassa bergamasca e la Brianza, è vissuta mangiando quei piatti lì. E poi sono completamente scomparsi. Oggi, anche grazie al vostro lavoro e quello di contadini e produttori, l’anguilla si trova di nuovo.
Certo. Ma tu sai che fatica ho fatto a trovare quegli ingredienti? Le rane italiane, ci sono. Costano 45 euro al chilo. Se vuoi quelle giganti, turche, o albanesi, costano la metà. Ma io non le voglio, per principio.

Era come se per anni stessimo fuggendo più lontano possibile dalle nostre tradizioni locali, forse anche un po’ vergognandocene. Mangiare l’anguilla era una cosa da contadini, da poveri.
Quando c’è troppo benessere, tu non vedi più quello che hai davanti, cerchi dell’altro, cerchi l’esotico. È la Milano da bere, quel mondo lì. E oggi stiamo ricostruendo le cose che quel, non so come dire, chiamiamolo “movimento”, tutto quello che aveva un po’ seppellito. Adesso c’è molta più consapevolezza. Ancora non abbastanza, eh, ma c’è.