Nel suo nuovo libro, Cristina Rivera Garza racconta le sue tre cose preferite: le ragazze, i viaggi, il disagio

Abbiamo incontrato la scrittrice per parlare di Terrestre, raccolta di racconti che ha definito come «il lato b di L’invincibile estate di Liliana», il libro con cui ha vinto il Pulitzer.

17 Ottobre 2025

Ho incontrato Cristina Rivera Garza al LET’S – Museo della Letteratura di Trieste, la cornice perfetta per parlare del suo nuovo libro, Terrestre (Edizioni Sur). Davanti all’ingresso del museo in piazza Hortis ci sono la statua di Svevo ed il presidio permanente di Non una di meno in memoria delle vittime di femminicidio. Un lungo filo con appesi i pañuelos fucsia con i nomi delle vittime. Prima di entrare al museo Cristina si ferma a fare una fotografia. L’autrice, premio Pulitzer per Linvincibile estate di Liliana è a Trieste per il festival letterario della Barcolana, Un Mare di Racconti.

Punti di vista multipli, tempi dislocati, giochi intertestuali: non sempre lineare, talvolta malinconico, impegnativo ma anche evocativo. I testi oscillano tra finzione e non-finzione. L’autrice stessa definisce alcune parti “no ficción especulativa”. Parte da dati reali (ricordi, fatti, paesaggi) ma lascia che la scrittura vada oltre, esplori le possibilità, le tensioni fra ciò che è accaduto e ciò che potrebbe essere, ciò che si immagina. I racconti di cui è composto Terrestre si muovono su spostamenti reali: a piedi, in autobus, in treno, attraverso vari luoghi (in Messico e altrove). Il viaggio non è solo geografico: è anche un muoversi dentro se stessi, attraverso il desiderio, la memoria, il corpo, gli spazi negati. Le protagoniste sono ragazze o giovani donne che desiderano uscire da spazi imposti, esplorare, percepire il mondo. La loro amicizia è un atto di resistenza, un modo di esistere insieme nonostante la paura e gli ostacoli. La violenza non è mai assente: non è sempre esplicitamente descritta, ma spesso è presente come minaccia o come dimensione che definisce chi può muoversi, dove, come.

Ha definito Terrestre come il lato b di Linvincibile estate di Liliana, cosa intende?
L’invincibile estate di Liliana è un’esplorazione del femminicidio di mia sorella Liliana Rivera Garza, avvenuto il 16 luglio 1990. In questo libro ho viaggiato per la città, ho fatto ricerche sui suoi documenti, ho posto l’accento sulla sua vita e, ovviamente, ho indagato sul femminicidio in quanto tale, sul crimine. Mi sono resa conto, mentre parlavo del libro alle conferenze o mentre tenevo lezioni, che le giovani donne, e i giovani lettori in generale, stavano abbracciando Liliana in un modo che mi ha sorpreso. Ho cominciato a pensare che queste giovani donne fossero interessate al senso di indipendenza e libertà di Liliana. Ho pensato che dovevo loro, a queste lettrici, un’altra storia. Dovevo prestare attenzione alle giovani donne di quel tempo, quelle che non erano state uccise, quelle che non erano cadute vittime del femminicidio. Cosa avevano fatto? Era questo che mi chiedevo. Come erano riuscite ad affrontare la vita? Che tipo di strade avevano aperto per tutte noi? Così ho iniziato a pensare a Terrestre.

Terrestre è un libro ibrido, come lo descriverebbe a chi ancora non l’ha letto?
È un libro che mi piace descrivere come plasmato e influenzato dall’amicizia e dal desiderio. Penso che entrambi questi aspetti siano estremamente urgenti e necessari in un momento come quello che stiamo vivendo. Soprattutto l’amicizia tra donne, la sorellanza. In un’epoca di odio, come la nostra, penso che l’amicizia in generale e la sorellanza in particolare, possano essere un modo per resistere, un modo per immaginare soluzioni alternative, mondi alternativi.

In Terrestre, le giovani donne protagoniste viaggiano da sole. Hanno paura, ma decidono di essere più forti della paura. Viaggiare da sole per le donne è un atto politico?
È sempre un atto politico. La partecipazione delle donne alla vita pubblica è stata storicamente oggetto di controversie. Le donne sono state relegate alla sfera domestica, alla sfera privata. Anche solo vagare nello spazio pubblico comporta disagio, rischio, pericolo in alcuni casi. Queste donne provano paura. Sanno che stanno trasgredendo, che stanno entrando in un territorio sconosciuto, o almeno in un territorio conteso. Ma lo fanno comunque, perché sono coraggiose, amano il rischio e sono avventurose.

Nel racconto “Uccellacce”, le ragazze raffigurate come due airone, fanno autostop. Alcuni uomini dicono loro ‘State attente, non tutti gli uomini sono come me’. Loro però affrontano il rischio lo stesso. Lei ha mai viaggiato in autostop in Messico?
Certo che sì. Sì, l’ho fatto, in quegli anni. Ma la “guerra alla droga”, così erroneamente chiamata, ha conquistato gran parte del territorio messicano. Oggi è impossibile per le generazioni più giovani prendere uno zaino e fare l’autostop, almeno in Messico. È diventata una questione di vita o di morte. In un momento in cui si dà così tanta importanza ai confini e ai muri, penso che partire e viaggiare sia sicuramente una sfida. La nostra libertà e le nostre possibilità vengono limitate ma dobbiamo mantenerle vive in un mondo come questo.

Lei è cresciuta vicino al confine tra Stati Uniti e Messico, mentre oggi siamo qui, vicino al confine tra Italia e Slovenia, e quella che era una volta la Jugoslavia. Pensa che un futuro in cui le persone sono libere di spostarsi sia possibile o sia solo un’utopia?
Dobbiamo crederci. Abbiamo bisogno di un pensiero utopico. Altrimenti, sarebbe assolutamente scoraggiante. Se non sfidassimo il pensiero neoliberista, quello che enfatizza solo l’individualità e il profitto, e rimanessimo entro quei limiti, allora non staremmo davvero pensando. Dobbiamo credere che esista un altro modo di essere, anche se è molto difficile. Penso che sia questo che ci insegna la letteratura. Attraverso l’immaginazione, sappiamo che qualunque cosa stia accadendo in questo momento non doveva andare così, e se è così, non deve essere per sempre, giusto?

Ancora più del viaggio in sé, in questo libro tratta il desiderio. Il desiderio di potersi muovere, spostare, scoprire. Come si sente in questo periodo storico, vivendo tra il Messico e gli Stati Uniti?
La situazione negli Stati Uniti mi preoccupa molto. Mi fa infuriare. Provengo da una famiglia di migranti, generazioni di persone che hanno attraversato il confine tra Stati Uniti e Messico per migliorare la loro vita. Quindi è una questione che mi tocca da vicino. Quando guardo i telegiornali, vedo la violenza e la crudeltà che vengono esercitate su persone che vengono negli Stati Uniti per lavorare e per offrire molto a questo Paese in termini di economia, cultura e lingua. Mi preoccupa e, soprattutto, mi rattrista che un Paese con così tanto potenziale stia decidendo di isolarsi e di seguire i suoi peggiori istinti.

In Lavoro sul campo scrive: «Veniamo da lontano, veniamo dai libri che portiamo sottobraccio». Quali sono i libri che l’hanno portata qui oggi?
Ce ne sono molti, fortunatamente. Penso che ogni singolo buon libro che ho letto abbia contribuito a cambiamenti e trasformazioni, persino a mutazioni nella mia vita. Ma devo dire che oggi sono stata particolarmente felice quando abbiamo visitato la stanza di James Joyce. È un autore importante per me. Essere in questo posto è fantastico. Ho letto, ovviamente, scrittori messicani. Juan Rulfo e Rosario Castellanos sono stati fondamentali per la mia vita. Ma anche Virginia Woolf e Marguerite Duras.

Quali sono secondo lei le domande più importanti che la letteratura dovrebbe porsi in questo momento?
Quello che stiamo facendo. Porre domande, far riflettere le persone. Penso che una delle più grandi fortune della letteratura, o comunque delle sue possibilità, sia quella di generare pensiero critico e, con un po’ di fortuna, anche pratica critica. Una volta entrati nel regno dell’immaginazione, si capisce con certezza che le cose possono essere diverse. Questo pensiero nasce dalla lettura e dal mettersi nei panni degli altri, dal vivere ciò che altre persone potrebbero aver vissuto. Questo è ciò che la narrativa ci permette di fare. Le domande che nascono da quell’esperienza sono politicamente rilevanti, culturalmente importanti e anche inevitabili.

Nei testi di Terrestre la lingua è corpo, gesto, atto di resistenza. Come lavora sulla lingua per renderla uno spazio vitale, non solo descrittivo?
Vivo negli Stati Uniti da più di 30 anni ormai. Ho scritto principalmente in spagnolo, ma anche in inglese. Non credo che sarei la scrittrice che sono oggi senza quell’esperienza. Ho la convinzione che la lingua non sia naturale ma può intrattenere e sollevare domande. Credo che sia così che si arriva a lavorare con la lingua come entità vivente, in continuo cambiamento e che pone continuamente domande stimolanti.

Il viaggio in Terrestre è viaggio fisico e interiore. Viaggiare ci fa capire che tutto è in movimento e che dobbiamo essere in grado di dire addio alle cose e a volte anche alle nostre convinzioni o a ciò che riteniamo giusto.
È proprio questa l’idea alla base di questo libro, Terrestre. Non si tratta di viaggi legati al turismo, non sono viaggi instagrammabili. Volevo parlare del senso di disagio che deriva dal viaggiare, dal mettersi in posizioni vulnerabili che suscitano domande che altrimenti richiederebbero molto più tempo per arrivare. Affrontare le nostre differenze in termini di geografia e demografia, è un percorso verso il pensiero critico. Viaggiare ci insegna a lasciar andare, a dire addio. Penso di aver iniziato a scrivere perché nella mia famiglia eravamo una specie di nomadi. Ci spostavamo continuamente da un posto all’altro. Il mio profondo desiderio di rimanere in contatto con le persone dei luoghi che avevamo lasciato mi ha portato a scrivere lettere, poi un diario e poi qualcos’altro. Penso che anche il mio viaggiare sia legato al profondo desiderio di rimanere in contatto. E questo, nel mio caso, mi ha portato a scrivere, mentre in altri casi potrebbe portare alla pittura, alla musica o altro. Ma nel mio caso, la risposta è stata la scrittura.

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