Attualità | Coronavirus

I miei giorni in un Covid Hotel

Com'è trascorrere la quarantena in un albergo di Bologna dopo essere risultata "debolmente" positiva a un controllo in aeroporto.

3 febbraio 2020, un membro dello staff medico disinfetta i corridoi di un Covid hotel a Wuhan, in Cina (Foto di STR/Afp tramite Getty Images)

La volontaria della Croce Rossa mi precede lungo un corridoio di un ingresso secondario attraverso cui gli infetti accedono al Living Hotel di Bologna. Quando arriviamo nella hall all’accettazione un infermiere sta facendo una puntura ad un uomo in piedi in mezzo al corridoio con una manica della felpa calata lungo la schiena. Dopo poco l’uomo si infila la manica e scompare dentro l’ascensore. A quel punto l’infermiere mi fa segno di avvicinarmi. Raccolgo la mia weekender di nylon e tiro il trolley fino alla transenna che ci distanzia per circa due metri e mezzo. L’infermiere mi consegna tre fogli informativi fotocopiati, una mascherina, un kit composto da uno spray disinfettante, una spugna da piatti e uno strofinaccio, due buste di carta bianca con dentro la cena e la colazione per l’indomani, e mi spiega le regole.

A posteriori mi rendo conto di non ricordare nulla di quello che mi ha detto a parte che il mio soggiorno al Covid Hotel di Bologna durerà tre settimane e che il primo tampone me lo faranno all’incirca dopo dieci giorni. Poi mi indica l’ascensore consegnandomi alla stanza 416, che io nemmeno troppo scherzosamente e sin da subito ho iniziato a chiamare “la cella”.

Quella stessa mattina sono arrivata all’aeroporto G. Marconi di Bologna alle 10. Intorno alle 13.15 ci siamo preparati all’imbarco per il volo verso Berlino, mi sono messa in fila con il passaporto in mano, ho mantenuto le distanze mentre aspettavo la mail dalla Ausl della Toscana, presso cui il giorno prima avevo fatto il necessario tampone molecolare per rientrare alla mia residenza tedesca. Sono arrivato all’aeroporto senza avere ancora il risultato del tampone per questioni di tipo organizzativo: i miei genitori abitano in provincia e l’unica istituzione che esegue il tampone molecolare è la Ausl, presso la quale non sono riuscita ad ottenere un appuntamento che mi desse abbastanza tempo per leggere prima il referto e poi raggiungere l’aeroporto. Del resto non c’è nessun motivo per cui io debba pensare di non poter partire. Mi sento bene, mi sento come sempre. Sono una delle ultime a salire sull’aereo, mi siedo al posto 4B e dopo pochi secondi mi arriva una chiamata con un prefisso italiano. È la Ausl Toscana che mi riferisce che il mio tampone molecolare è positivo a bassa carica.

È nel differenziale fra ciò che questi luoghi sono stati e ciò che invece sono adesso che risiede il disagio che si prova a trascorrere anche solo una notte in un Covid Hotel

I Covid Hotel sono alberghi che a seguito del primo lockdown hanno smesso la loro normale funzione e sono stati rifunzionalizzati come luogo di ospitalità per pazienti positivi che non hanno un posto fisico in cui poter stare in isolamento. I motivi sono diversi ma nella maggior parte dei casi si tratta di sovraffollamento casalingo oppure, come nel mio caso, di una residenza in una regione o paese diverso rispetto al luogo in cui si viene registrati come positivi al virus. In quanto positiva tornare a Berlino in aereo per me è escluso, così come lo è raggiungere in treno l’abitazione dei miei genitori.

È nel differenziale fra ciò che questi luoghi sono stati e ciò che invece sono adesso che risiede il disagio che si prova a trascorrere anche solo una notte in un Covid Hotel. Il primo impatto è inquietante. La moquette del corridoio del quarto piano è ricoperta da una patina opaca di polvere (durante la mia permanenza non sentirò mai il rumore di un’aspirapolvere), e le luci a basso consumo traslano sull’ambiente una specie di nebbia soffocante. Ma più di tutto ad inquietarmi sono gli sgabelli posizionati accanto alle porte delle camere, incellofanati ora in buste gialle della spazzatura, ora in sacchi neri. Soprattutto perché qui, due volte al giorno, verranno riposti i vassoi con i miei pasti.

Il mobilio è quello di una comune stanza d’albergo. Ci sono persino un frigo bar e una cassaforte che si apre con la carta magnetica, una scrivania e un televisore Samsung abbastanza grande. Immagino che questa fosse una stanza doppia, poiché la testiera è molto più larga del letto singolo a mia disposizione. C’è un quadro in stile Rothko con una citazione in latino sul bordo inferiore «Salvete in mundo domi vostrae estis». Per il resto la stanza è un ambiente scevro da ogni suppellettile o estetismo.

Durante il mio soggiorno mi sono cambiata solo la prima sera, mi sono tolta i vestiti da strada, da persona normale, e mi sono messa in tenuta da malata – un cardigan nero di cotone, una camicia bianca larga, leggings neri e un paio di Air Force One nere che utilizzo come pantofole. Ci vuole poco ad entrare nell’alveo della malattia – soprattutto in un momento storico come questo e in un luogo in cui tutto ti sussurra all’orecchio che non sei in salute. Le coperte, i copri-cuscini, il copriletto giallo crema sono tutti contrassegnati dalla scritta «Servizi Ospedalieri». I pasti ci vengono consegnati in contenitori mono-porzione di plastica, la spazzatura deve essere contenuta in un sacco nero che teniamo in un angolo della stanza che a sua volta deve essere inserito in un altro sacco nero e messo fuori dalla porta affinché venga raccolto prima di pranzo. La brochure specifica che tutto ciò che non sarà inserito nel doppio sacco non sarà raccolto.

Di rado si sentono urla o musica a palla fuori dalla finestra: sono i conoscenti degli ospiti che arrivano in auto, parcheggiano dall’altro lato della strada e conversano urlando con i pazienti dell’hotel

Per lo più vige il silenzio se si eccettua la signora della stanza 414 che canta a volume altissimo per tutto il lunedì. Le voci che si sentono sono quelle degli altri ospiti dell’hotel che si incontrano intorno all’ora di pranzo domandandosi se hanno mangiato o se il tampone questa volta è negativo. Di rado si sentono urla o musica a palla fuori dalla finestra: sono i conoscenti degli ospiti che arrivano in auto, parcheggiano dall’altro lato della strada e conversano urlando con i pazienti dell’hotel.

Di tanto in tanto dalla direzione del corridoio si sente una porta aprirsi, ma non esce mai nessuno, non si sentono passi. Forse, come me, anche dalle altre stanze i pazienti si affacciano sui corridoi per tentare di infrangere le regole – è assolutamente vietato lasciare la stanza senza permesso – oppure si affacciano anche solo per guardare il corridoio inquietante, e lo squallore tipico degli edifici abbandonati che un tempo sono stati splendidi. Questo albergo è così. Tutto parla di un luogo che ha ospitato uomini e donne in carriera, di un dinamismo anche, e di una certa cura per i dettagli che io per esempio riconosco anche nella doccia con la lastra di vetro e il piatto intarsiato. Accanto alla finestra ci sono due chiodi infilzati nel muro e con la giusta luce si vede un quadrato di bianco più pulito. C’era un quadro e lo hanno tolto. Ma è ancora qui, in questi stessi dettagli ormai trasandati, che si manifesta la desolazione che solo un albergo a quattro stelle di Bologna può avere dopo essere stato trasformato in un Covid Hotel.

Ogni mattina alle dieci in punto mi contatta la reception, la voce di là mi domanda: «Ciao Giorgia, come ti senti oggi? Hai la febbre?». È ancora tramite il telefono che possiamo esprimere un bisogno, una necessità: una bottiglia d’acqua, qualche bustina di tè, una coperta, un cuscino. Nei casi più fortunati possiamo persino lasciare la nostra stanza per andare a ritirare le richieste all’accettazione al piano terra. Nei casi più sfortunati – e anche i più frequenti – ci faranno recapitare i desiderata insieme al pranzo (ore 11.45) o alla cena (ore 17.45), privandoci così di quei due minuti di normalità che comporta uscire dalla nostra stanza. Non si riesce a spogliarsi qui. Il pensiero di fare la doccia, di lavare i capelli sembra completamente sbagliato, fuori contesto. L’incuria mi sembra addirsi al ruolo di malata a cui mi hanno relegata. Mi sono persino interrogata se potrei fare l’amore su questo letto ospedaliero e il solo pensiero mi fa prendere atto del fatto che qui dentro la sessualità è qualcosa di altrettanto sbagliato come lo è la pulizia.

Dopo qualche giorno si sviluppa una sorta di routine. Le ragazze che si affacciano alla finestra a fumare sono sempre le stesse e io so che il pranzo è sullo sgabello incellofanato ben prima che squilli il telefono per avvisarci che possiamo aprire la porta. Fuori di qui Bologna è il braccio di un’autostrada. La vita come la conoscevo prima mi sembra che appartenga a qualcun altro però continuo ad immaginarmi quando sarò fuori di qui, alla stazione, con il cappotto bordeaux e il biglietto in mano che mi riporterà a casa.