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La tentazione di sognare un nuovo lockdown

Mentre il mondo è tornato esattamente come prima dimenticando tutti i buoni propositi pandemici, ripensare al lockdown fa emergere sentimenti inaspettati: nostalgia e delusione.

di Davide Coppo

I figli dei miei amici hanno il Covid, è l’autunno del 2023. Che strano, penso quando me lo dicono. Ma loro, i miei amici, non stanno a casa, ci vediamo invece al bar e al lavoro, ormai «è una roba che dura tre giorni». Anche i giornali hanno ricominciato a parlare di Covid, di varianti, di contagi. Stanno salendo, c’è una nuova variante molto contagiosa, si chiama Eris, il nome greco della dea Discordia romana. È un ritorno inaspettato: era da più di un anno che il Covid era scomparso dalla sfera del discorso pubblico, nazionale e internazionale. Da quando anche la Cina ha detto: liberi tutti, e ha aperto i condomini-prigione. Dopodiché il Governo Meloni ha deciso che i bollettini dei contagi giornalieri non andassero più diffusi, i medici negazionisti sono tornati al lavoro. Ogni tanto in treno vedo persone con la mascherina, oppure nei musei, o alle presentazioni dei libri: mi fa sempre strano. Penso: spero di non doverla rimettere mai. Però, in questi giorni di bollettini medici di nuovo presenti nelle prime pagine dei giornali, nelle chiacchiere tra amici, rincuorato da un settembre così caldo, penso anche: certo, se ci toccasse di fare un altro mese di lockdown non sarebbe niente male.

Mi sembra che, a distanza di un anno dall’addio dello stato di emergenza, di un anno e mezzo dalla fine del Green Pass, di due anni e qualche mese dall’ultimo coprifuoco, ci sia una gran voglia di parlare di quei mesi là, il 2020 e l’inizio 2021, insomma: i due anni del Covid, anche se il Covid non finirà mai. Per elaborare certi eventi così profondi ci vuole molto tempo: per questo continuiamo a raccontarci l’Undici settembre 2001, e abbiamo iniziato soltanto ora a creare narrazioni valide sulla strage del 15 novembre a Parigi. Per il Covid, la prima pandemia dell’era social, i tempi di reazione sono stati relativamente brevi.

Non sono soltanto gli articoli dei giornali, degli inserti culturali, dei periodici. Sono anche le conversazioni casuali tra amiche e amici a cena a farmene accorgere. «Se ci pensi è pazzesco quello che è successo», mi ha detto pochi giorni fa, a settembre 2023, un amico, «e quanto è vicina la dimensione allucinatoria che abbiamo vissuto». E oggi, ha detto poi, sembra che non ci sia rimasto niente. Non lo so, ho pensato: certi cambiamenti introdotti, anzi imposti, dall’anno 2020 si vedranno a distanza di anni e di decenni, soltanto dopo un giusto allontanamento. Allo stesso modo in cui un’isola si osserva nella sua interezza solo quando la si lascia su un traghetto, dopo diverse miglia. D’altra parte, è vero che la società, noi, il sistema economico in cui siamo inseriti, di cui siamo attori e vittime insieme, i governi, tutto questo si è mosso molto velocemente, negli ultimi due anni, affinché di quell’evento nefasto non rimanesse nessuna traccia. Tutto quello che è successo, allora, sembra davvero un romanzo distopico, perché tutto ciò che sembrava essersi impostato è sparito, anzi, girato al contrario. Per questo, a volte, penso: certo, ci starebbe bene un altro mese di lockdown.

Questo pensiero si porta dietro una serie di sensi di colpa. Ma, mi dico, è un pensiero istintivo, che non va pesato con i morti, gli ospedali pieni, i licenziamenti e le casse integrazioni, la Dad e i disagi psichici, e così via. Vogliamo chiamarlo: pensiero privilegiato? Facciamolo. Il senso di colpa, nella mia testa, ha la voce dolce dello scrittore Paolo Giordano che nel podcast Il mondo di Internazionale diceva, lo scorso agosto: «In fondo quello che oggi dovrebbe rimanerci di più è questo pensiero, l’eccedenza di morte che il Covid ha portato. Quello che mi lascia più perplesso è che nella mente di molti di noi la pandemia invece che un eccesso di morte, sofferenza, mancati funerali, mancati addii ai cari sia diventato più un sinonimo del nostro isolamento, e che addirittura si sia diffusa una specie di nostalgia strana verso quella forma di vita ristretta».

È tutto vero. Eppure (dovrei continuare a specificare: per una certa porzione di popolazione con un certo reddito e un certo numero di metri quadri di casa a disposizione e senza malattie invalidanti: consideratelo sottinteso) quei tre mesi di isolamento hanno mostrato che esiste un’alternativa a una vita concepita come un loop di lavoro avvicendato a qualche ora di tempo libero: un altro modo di vivere la propria casa, di organizzare il proprio tempo, le relazioni, i doveri. “Nuovo”, forse, non è la parola giusta. Diciamo più un modo liberato.

Se sono in molti a rimpiangere quel primo isolamento (i lockdown furono due, ma il secondo fu, mi sembra, meno apprezzato, per diversi motivi riassumibili in un’esasperazione per l’incapacità di vedere la fine della pandemia), forse c’entra il modo in cui la società ha voluto riscattarsi dopo che finì. Ce lo ricordiamo lo slogan che diceva “We won’t go back to normal because normal was the problem”, era un bel copy, incisivo, fatto bene. Non ha funzionato. Non siamo tornati soltanto al normal: l’abbiamo anzi sorpassato, l’abbiamo accelerato, come per dimenticarci di quei due anni, come per punirci di aver anche solo pensato di rallentare. Immaginavamo un mondo di sostenibilità e quello che ci troviamo è il contrario di quell’augurio. L’estate appena terminata è stata segnata dalla turistificazione di massa dell’Europa (e dell’Italia e del Mediterraneo in particolare), la liberalizzazione dei dehors sui marciapiedi cittadini ha dato il la a una foodification che si sta mangiando lo spazio pubblico nelle città, il sogno del lavoro agile sta finendo se anche TikTok o Zoom hanno richiamato i dipendenti in ufficio. L’urbanizzazione cresce, i prezzi delle case anche, gli stipendi no. La logistica della merce, ambientalmente poco sostenibile, si ingarbuglia a dismisura: continuano ad aumentare i volumi della spesa, addio al fruttivendolo a chilometro zero, e ancora di più volano gli acquisti online di abbigliamento e beauty ed elettronica. Rallentare non è più un’opzione, più probabilmente non lo è mai stata davvero, anche se intenerivano il cuore quei delfini andati a visitare i canali di Venezia deserta dai turisti.

I digiuni alimentari fanno bene al corpo, anche per questo sono codificati da tanti secoli nelle religioni: durante le astinenze le cellule si rigenerano, il sistema immunitario si rafforza, fegato e intestino si ripuliscono. Allo stesso modo, servirebbe codificare un digiuno di tutto il resto: cervello, cervelletto, sistema nervoso, e non solo. Più in grande. Uno stop-and-go dell’intera società per risanare, temporaneamente, tutto quello che viene danneggiato dall’attività quotidiana – da quel “normal” da cui dicevamo di non voler tornare. Ambiente, abitanti, abitudini. Ma non si può, lo so, la crescita, il Pil, e così via. E infatti io lo sogno come un guilty pleasure, un capriccio impossibile e pure idealizzato, questo mese di rintanamento e risanamento.

Eppure, mi dico, era uno spiraglio per davvero di qualcosa di buono: l’indizio che non è vero che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, almeno per quanto riguarda il modo in cui il capitalismo ricade sulle nostre singole piccole esistenze. Scoprire che si può lavorare da ovunque, senza l’obbligo di un orario e di un luogo fisso, è stata una rivoluzione (ancora in potenza, o forse in pausa) che potrebbe avere effetti su come intendiamo oggi la vita in società paragonabile all’ingresso di migliaia di donne nel mondo del lavoro durante la Prima guerra mondiale, come acceleratore del processo di emancipazione.

Riposo e oblio, come diceva il titolo di quel bel libro di Ottessa Moshfegh. Dimenticare gli obblighi sociali, la Fomo, le decine di -week, lo yoga aziendale, i team building. Quella mania della panificazione, ripensandoci, era un modo per riappropriarsi del proprio tempo, perché panificare richiede concentrazione, mani sporche, schermi lontani, e soprattutto attesa. Impastare, con costanza e decisione. Lasciare lievitare. Infornare, imparare ad aspettare. Era un primo tentativo di crearsi una routine liberata, che sapesse stare in equilibrio tra obblighi e piaceri, e non schiacciata, costretta, ogni volta presa per i capelli. Il secondo tentativo? Non c’è mai stato.