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La storia della città egizia sepolta in California che era in realtà il set di un film di DeMille

Nel 1923 Cecil B. DeMille girò I dieci comandamenti (quanto meno, la sua prima versione dei Dieci comandamenti: il regista realizzò poi una seconda trasposizione delle leggi bibliche trent’anni dopo, nel 1956). Per il film, DeMille trasformò il deserto attorno alla cittadina californiana di Guadalupe, piccolo centro abitato non distante da Santa Barbara, in una immensa riproduzione dell’Egitto antico. O, quanto meno, in una immensa riproduzione di quello che l’Egitto antico era all’epoca nell’immaginario collettivo occidentale. Alla fine delle riprese, ovviamente, DeMille e la sua troupe si posero il problema di cosa fare con quell’incredibile scenografia. Alcuni “pezzi” erano stati rubati dagli abitanti di Guadalupe, conservati come ricordi (due sfingi finirono a fare da arredamento al locale campo da golf). Riportare tutto a Los Angeles avrebbe richiesto troppo tempo, fatica e, soprattutto, soldi. Abbandonarli sul posto, secondo DeMille, sarebbe stato un favore concesso ai registi rivali, che avrebbero così potuto approfittare del lavoro suo e della sua troupe per i loro film. Secondo una leggenda circolata per anni tra gli appassionati di cinema – e in parte confermata anche nell’autobiografia del regista del 1959 – alla fine DeMille decise che la cosa migliore da fare era coprire tutto quanto con la sabbia del deserto. Fu anche una maniera piuttosto furba di mantenere la promessa fatta ai proprietari del terreno prima dell’inizio delle riprese: alla fine, si erano assicurati i dirigenti dell’azienda Union Sugar, rivogliamo tutto esattamente nelle stesse condizioni in cui era all’inizio.

Fino all’inizio degli anni Ottanta, la cosiddetta “città perduta di DeMille” era, appunto, poco più che una leggenda hollywoodiana. Nel settembre dell’82, Peter Brosnan, sceneggiatore e regista freelance, scoprì grazie a Bruce Cardozo, fan sfegatato di DeMille con il quale era andato a vivere in seguito all’incendio della sua casa, della storia del set dei Dieci comandamenti. E decise che la missione della sua vita sarebbe stata ritrovare la città perduta, seppellita sotto la sabbia del deserto californiano. Brosnan, che si autodefinisce «un matto ossessivo», ha speso i successivi trent’anni della sua vita alla ricerca della città, raccontando tutta questa epopea archeologico-cinematografica in un documentario intitolato ovviamente The Lost City of Cecil B. DeMille, uscito nel 2016, al termine di una lunghissima ricerca e della realizzazione di un vero e proprio scavo archeologico, con tanto di permesso richiesto e concesso dalla città di Santa Barbara.

Seppellito alle porte di Guadalupe, Brosnan – che non aveva alcuna esperienza da archeologo e si è quindi fatto aiutare da un professionista, l’archeologo John Parker – ha ritrovato uno dei set più incredibili della storia del cinema. Grazie al talento dell’illustratore e designer francese Paul Iribe, all’epoca un maestro dell’Art Deco, il regista aveva costruito la sua “Città del Faraone”, come veniva chiamata da tutta la troupe. Il pezzo centrale di questa opera – il più grande set mai costruito nella storia del cinema fino a quel punto – era il tempio egizio, un “edificio” stranissimo che univa decorazioni egizie ed estetica degli anni Venti, adornato da ventuno sfingi che pesavano ognuna centinaia di kili. Accanto al set vero e proprio, poi, il regista aveva fatto costruire il “Camp DeMille”, una sorta di abbeveratoio a cielo aperto, attivo ventiquattro ore su ventiquattro, che membri del cast e della troupe (più o meno 3500 persone in tutto) raggiungevano a ogni ora del giorno e della notte spesso prendendo in prestito, come mezzi di trasporti, alcuni dei 200 cammelli presenti sul set (quando invece dovevano lavorare, attori e maestranze aggiravano il proibizionismo all’epoca ancora in vigore tracannando bottigliette su bottigliette di sciroppo per la tosse con una gradazione alcolica tra il 7 e il 12 per cento, diverse delle quali sono state ritrovate da Brosnan nel corso delle sue ricerche). Sperando nel ritrovamento di questo set unico al mondo, DeMille lasciò poi degli indizi nella sua autobiografia, come a voler iniziare una sorta di caccia al tesoro per i posteri: «Se tra mille anni a degli archeologi capitasse di scavare sotto la sabbia di Guadalupe, spero che non corrano dai giornali annunciando di aver ritrovato i resti di un’antica città egizia».